UN MANDOLINO, UNA RIVOLTELLA E UN MORTO

È la sera del 7 ottobre 1937. Nell’albergo di Giovanbattista Papello a Bivongi, in provincia di Reggio Calabria, alcuni giovanotti si divertono a ballare mentre Nicodemo Piccolo suona il mandolino e Vincenzo Zurzolo lo accompagna con la chitarra. Mal contenti di come Nicodemo suona, alcuni presenti cominciano a prenderlo in giro dicendogli:

Suona in re maggiore!

Il più accanito nella presa in giro è lo studente Francesco Russo, il quale dice a Nicodemo in dialetto mammolese:

Sona in re maiuri!

Quegli, essendo nativo di Mammola, si offende e gli risponde:

Vai a scherzare con i tuoi pari e non già con persone serie come me!

Bagaglio! Bacchettone! Ciuccio! – gli urla in faccia Francesco e Nicodemo, ritenendosi offeso, fa il gesto di colpirlo brandendo il mandolino.

Per fortuna qualcuno si mette in mezzo evitando che i due vengano alle mani. Accortosi del baccano, l’albergatore accorre e con la scusa che si è fatto tardi e deve chiudere, fa andare via tutti. La lite può dirsi finita, se non fosse che Francesco Russo, che abita di fianco all’albergo e potrebbe rientrare a casa, si ferma sulla strada e aspetta che l’avversario esca.

Se hai coraggio vieni sulla via di sopra e da soli ci faremo i conti! – lo sfida appena gli è accanto.

Andiamo! – risponde accettando l’invito e si avviano. Francesco Pacicca, uno di quelli che ballavano nell’albergo, per evitare che qualcuno si faccia male prende sottobraccio Francesco Russo, lo porta indietro fino alla porta di casa, e pensando che la cosa sia finita lì, se ne va. Intanto Nicodemo sta risalendo la strada per andare all’appuntamento e Francesco, rimasto solo, corre lungo un vicoletto per sbucare davanti all’avversario, nascondersi dietro uno steccato e chiudere i conti. Appena Nicodemo passa col mandolino in mano, Francesco salta fuori e gli intima di fermarsi, dicendogli:

Ti farò vedere che io sono superiore a te e a tutti quelli di Bivongi!

Nicodemo, che teme la prepotenza dell’ostinato avversario, risponde:

Ancora sei qui per sfottermi? – quindi raccatta due sassi da terra e glieli tira, ma senza colpirlo.

A questo gesto Francesco tira fuori una rivoltella e spara un colpo da breve distanza all’avversario, centrandolo in pieno petto, poi scappa. Nicodemo lascia cadere il mandolino, si porta una mano al petto e scappa in direzione opposta. Alla scena hanno assistito alcuni partecipanti alla festa, ma nessuno interviene e nessuno si preoccupa di seguire almeno Nicodemo per capire se è stato o no ferito ed eventualmente in che condizioni è, e tutti tornano a casa.

La mattina dopo Nicodemo viene trovato morto vicino alla fontana del paese, una decina di metri distante dal luogo dove è stato colpito. Avvisati, i Carabinieri della stazione di Stilo arrivano prontamente sul posto, iniziano i rilievi ed arrestano l’omicida, che racconta la sua versione dei fatti:

– Sì, gli ho sparato non già con l’intenzione di ucciderlo, bensì per intimidirlo dopo avermi lanciato due sassi, senza colpirmi

– Quindi avevate litigato… quando e perché?

Ieri sera nell’albergo di Papello. Io ero col mio amico Francesco Pacicca ed avevamo preso a parlare scherzosamente del ballo e del suono, ma Piccolo, che aveva bevuto parecchi bicchieri di vino, ritenendo senza alcun motivo di essere deriso, si è risentito e mi ha detto: “Te la farò pagare!”. Dopo di che, essendo entrambi usciti sulla strada, Piccolo mi ha invitato ad andare con lui per definire la questione ed io l’ho seguito per breve tratto, fino alla fontana, esortandolo a rincasare, senonché lui mi ha lanciato due sessi senza colpirmi ed allora gli ho esploso, alla distanza di due o tre metri, un colpo di rivoltella e subito sono scappato, gettando l’arma nell’oliveto vicino.

No, i presenti lo smentiscono e Francesco Russo, il 6 dicembre 1937, viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Locri per rispondere di omicidio volontario aggravato dai futili motivi e porto abusivo di rivoltella.

La causa si discute il 19 marzo 1938 e dalle testimonianze acquisite in aula viene fuori che l’imputato, prima del fatto in casa sua e poi nelle carceri aveva avuto fenomeni di allucinazione e sonnambulismo, mentre da un certificato medico e dalla deposizione dello stesso imputato emerge che sette od otto anni prima aveva sofferto di infezione viscerale e successiva meningite con fenomeni di delirio, forte agitazione ed allucinazioni e che la madre è affetta da sifilide e soffre di epilessia. Pertanto la Corte ritiene necessario accertare le reali condizioni psichiche dell’imputato e ordina che sia sottoposto a perizia psichiatrica nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto e la causa viene rinviata a nuovo ruolo.

Dopo cinque mesi arrivano i risultati della perizia: il Russo, nel momento in cui commise il fatto era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere in quanto affetto da una originaria labe neuropsicopatica.

La causa si discute nuovamente il 17 gennaio 1939 e la Corte prende atto degli esiti della perizia, ma deve sciogliere un altro spinoso dubbio: il Russo ebbe intenzione di cagionare la morte del Piccolo o volle invece produrgli soltanto una lesione?

Sul riguardo, osserva la Corte, sembra più compatibile alla indole del fatto ed alle qualità morali del reo ritenere che costui, trovandosi in preda ad una esaltazione e ad una improvvisa eccitazione dovuta a morbosa impulsività del suo carattere, abbia esploso il colpo di rivoltella all’impazzata, con un gesto improvviso, senza mira, anche a causa dell’oscurità e senza una precisa determinazione della volontà. Egli, invero, non reiterò il colpo anche quando vide il Piccolo allontanarsi di una diecina di passi dando l’impressione di non essere stato ferito e non lo reiterò perché gli mancava una causale seria e adeguata che lo spingesse a volere la morte dell’avversario, avendo egli reagito in seguito ad un litigio da lui provocato per un nonnulla e contro colui che, inerme, aveva tirato due sassi senza nemmeno colpirlo. Quindi Russo deve rispondere non già del delitto rubricato, bensì di omicidio preterintenzionale con l’aggravante dell’arma.

E l’aggravante dei futili motivi? Per la Corte non ci sono dubbi e spiega: devesi escludere l’aggravante dei futili motivi essendo essa incompatibile col vizio parziale di mente. Infatti detta aggravante incide esclusivamente sull’elemento psichico del reato e denota una speciale malvagità e pericolosità del reo, che si determina al delitto per un motivo assai lieve ed enormemente sproporzionato al fine delittuoso mentre, come in questo caso, una causale di lievissima entità, che per la media dei delinquenti sembra eccessivamente sproporzionata, è sembrata sufficiente a Russo, appunto per effetto della sua infermità mentale e pertanto contraddirebbe alla sua personalità psichica ammettere in lui quel grado di speciale malvagità e pericolosità che si ravvisa in coloro che delinquono per futili motivi.

Si può passare a determinare l’entità della pena: in ordine alla misura della pena, pur essendo stata degradata la figura del reato da omicidio volontario in delitto preterintenzionale, non può non tenersi in considerazione la gravità obiettiva del reato, desunta dalle sue modalità, dal mezzo adoperato, nonché dai motivi a delinquere che se non denotano, in relazione alla minorata personalità psichica del reo, quella speciale malvagità di animo che aggrava il reato, nondimeno sono indice di un grado elevato di pericolosità dell’imputato. Pertanto, tenuto presente il vizio parziale di mente e l’aggravante dell’arma, si infligga a Russo Francesco la pena di anni 13 di reclusione. Si deve ordinare, poi, che prima di cominciare l’espiazione della pena, l’imputato sia ricoverato in una casa di cura e custodia per anni 3. Oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.[1]

 

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Locri.