PERDONAMI BRUNO!

Rocco Sainato, giovane contadino e barbiere da Portigliola in provincia di Reggio Calabria, ha raggiunto l’assoluta certezza che la moglie, Maria Antonia Caccamo, lo tradisce con Giuseppe Spagnuolo, loro vicino di casa e noto in paese per le sue avventure galanti.

La sera del 19 febbraio 1949 Rocco parte per andare a Catanzaro e ritorna nel tardo pomeriggio del giorno dopo. Appena arrivato il nipotino Domenico gli dice:

– Ieri sera, dopo che sei partito, Giuseppe è andato a casa tua, ha preso zia, l’ha gettata sul letto coniugale e ha trascorso con lei l’intera notte.

Rocco stringe i pugni per non fare esplodere la sua rabbia e, animato dal desiderio di por fine ad una situazione che diventa di giorno in giorno più difficile, decide di tendere un agguato ai due amanti, al fine di sorprenderli in flagrante adulterio.

La sera del 16 marzo 1940, dopo aver cenato, dice alla moglie:

– Devo andare di nuovo a Catanzaro per assistere alla trattazione di una mia causa penale.

Maria Antonia annuisce distrattamente e Rocco, dopo aver messo in tasca la sua rivoltella, esce, ma invece di partire si nasconde dietro alcuni cespugli vicino casa e rimane in attesa per tutta la notte, ma Giuseppe non si fa vivo e lui se ne va in giro fino al pomeriggio, poi rientra a casa.

– Sono tornato, tutto a posto a Catanzaro! – Maria Antonia annuisce come al solito, poi cenano e vanno a letto.

La mattina dopo Rocco nota qualcosa di strano: Giuseppe Spagnuolo, l’amante della moglie, passa un paio di volte davanti casa. La prima volta sua moglie è sulla porta di casa e i due si intrattengono a parlare per pochi minuti; la seconda volta Giuseppe chiama Maria Antonia e, con la scusa di chiederle un pezzetto di sapone per barba, la fa uscire e i due continuano a chiacchierare. Sì, le due fermate sono strane, ma non certamente sufficienti per intervenire, anche perché negli ultimi giorni Salvatore, forse temendo di essere scoperto, gli dimostra amicizia e interessamento, proponendogli di condurlo con sé a Roma, dove entrambi troverebbero proficuo lavoro e premurandolo di munirsi di alcuni documenti necessari pel viaggio e per la destinazione al lavoro e, col pretesto della definizione di tale affare, si è fatto vedere più volte in casa Sainato, parlando tanto con lui che con moglie, senza destare sospetti nell’animo dei vicini.

Se Rocco vuole fare qualcosa non deve essere impulsivo altrimenti saranno guai grossi.

Verso le sette di mattina del 18 marzo Rocco sta spaccando legna accanto ad una sua angusta cucinetta addossata alla casa. Maria Antonia a destra e la sorella a sinistra si stanno scaldando al fuoco che arde in un piccolo focolare nell’angolo di rimpetto alla porta della cucinetta. All’improvviso entra Giuseppe Spagnuolo tenendo in mano una sigaretta che sta finendo di confezionare, poi si avvicina al focolare mostrando di volere accendere la sigaretta ma, nell’abbassarsi sui tizzoni, tocca con la mano destra la coscia sinistra di Maria Antonia. Rocco, che pur continuando nel suo lavoro, ne spia i movimenti volgendo leggermente la testa a sinistra, lo vede compiere l’atto di toccare la moglie e immediatamente caccia di tasca la rivoltella e gli spara contro quattro colpi, ferendolo gravemente. Nonostante ciò Giuseppe riesce a scappare mentre Rocco punta l’arma contro la moglie e le spara un colpo, ferendola. Maria Antonia cerca di scappare, ma viene raggiunta da un altro proiettile e cade. Rocco ha finito i colpi nell’arma e la ricarica per mettersi all’inseguimento di Giuseppe Spagnuolo che, noncurante dei pericoli, si inerpica lungo un alto e scosceso ciglione che si erge dietro la cucinetta. In questo frattempo Maria Antonia si è rialzata e, aggrappandosi alle spalle del marito per trattenerlo ed impedirgli di finire l’amante, lo supplica urlandogli:

Perdonami Bruno!

Questo gesto ottiene l’effetto di consentire a Giuseppe, seppur gravemente ferito, di dileguarsi e Rocco è costretto a tornare verso casa ma, giunto presso uno spiazzo, si imbatte in Leonardo Spagnuolo, il padre di Giuseppe, il quale, vedendolo con la rivoltella in mano, in stato di eccitazione per le detonazioni udite, gli chiede:

– Che è successo?

Rocco non gli risponde, ma alza la rivoltella e gli spara due colpi uccidendolo quasi all’istante. Anche Giuseppe muore per le gravi ferite riportate, mentre Mariantonia è più fortunata e se la cava in un paio di mesi.

Rocco si costituisce il 18 marzo, consegna la rivoltella che ha usato e confessa tutto nei minimi particolari.

Intanto arrivano i risultati delle autopsie eseguite sulle due vittime: Giuseppe Spagnuolo è stato raggiunto da un proiettile alla spalla destra e il proiettile viene ritrovato appiattito e deformato sull’acromion e da un altro proiettile al quadrante superiore sinistro dell’addome che, attraversato in otto punti diversi l’intestino ileo si è fermato sotto la parete addominale sinistra. Poi i periti aggiungono un particolare che potrebbe insinuare dei dubbi: non è possibile stabilire se i due proiettili rinvenuti nelle lesioni siano stati espulsi dalla stessa arma, specialmente perché quello ritrovato nella lesione alla spalla è completamente deformato. Sul cadavere di Leonardo Spagnuolo, invece, riscontrano una ferita nella regione sotto clavicolare destra, con perforazione del polmone destro e della vena succlavia e conseguente abbondante, mortale emorragia. Per quante ricerche siano state fatte nella cavità toracica, non è stato possibile rinvenire il proiettile. A Mariantonia, infine, vengono certificate due ferite: una sulla regione ascellare destra e l’altra sulla regione mammaria sinistra: uno dei due proiettili che l’hanno colpita viene ritrovato conficcato nell’intonaco del muro, accanto alla porta di casa.

Per fugare ogni possibile dubbio bisogna eseguire una perizia balistica sulla rivoltella e sui proiettili rinvenuti e viene accertato che il proiettile rinvenuto nella ferita sulla spalla di Giuseppe Spagnuolo è di calibro non superiore a 32, desumendo il calibro dal peso del proiettile; gli altri due proiettili, cioè quello rinvenuto nell’addome di Giuseppe e quello conficcato nell’intonaco, sono di calibro 38. Strano, ma ancora più strano è ciò che sostiene il perito: con la rivoltella presentata da Rocco non sono stati esplosi più di due colpi, e precisamente quelli partiti dalle camere del tamburo dove ancora si trovano i bossoli, non essendo stata da lungo tempo usate le altre quattro camere.

Tutto ciò non fa altro che, nonostante sia evidente come Rocco Sainato abbia agito per i cosiddetti motivi d’onore, provocare le proteste dei parenti e degli amici delle due vittime, che sostengono una versione dei fatti completamente diversa da quella accertata dai Carabinieri: Rocco Sainato, come componente di un’associazione per delinquere, avrebbe chiesto a Giuseppe Spagnuolo la somma di lire quattromila a titolo di camorra. Giuseppe non avrebbe ceduto al ricatto e perciò Rocco lo avrebbe ucciso. A supporto di questa tesi, i parenti della vittima segnalano come complici tali Vincenzo Armeni e Giuseppe Prochilo, visti in atteggiamento sospetto vicino alla casa di Rocco Sainato nei momenti del fatto, tanto più che Giuseppe, prima di morire, disse alla guardia municipale di Portigliola che egli era stato sparato da Rocco e che Armeni e Prochilo facevano da pali.

C’è la parola del moribondo e si sa che in punto di morte non si mente, ci sono le stranezze della perizia balistica che portano a concludere che sono state usate due armi diverse, quindi gli inquirenti abbandonano la tesi del delitto per causa d’onore e perseguono quella della vendetta di ‘ndrangheta.

– Armeni e Prochilo erano d’accordo con te? – gli chiedono quando lo interrogano di nuovo.

– Ripeto che ho agito da solo e non in correità di chicchessia.

– Allora hai usato due armi. Dov’è l’altra?

– Ho usato solo la mia rivoltella. Prima ho tirato sei colpi con la rivoltella carica con cartucce corte e poi, scaricati i bossoli, ho ricaricato con due cartucce lunghe e con queste ho sparato a Leonardo Spagnuolo.

Gli altri due negano fermamente e ostinatamente ogni addebito ma non vengono creduti, con il risultato che il 27 agosto 1940 Sainato, Armeni e Prochilo vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Locri per rispondere di avere, in concorso fra di loro ed a fine di uccidere, esploso diversi colpi di rivoltella e di pistola contro Spagnuolo Giuseppe e Spaguolo Leonardo cagionando, con premeditazione e motivi abietti, la loro morte; di avere, in concorso fra di loro ed a fine di uccidere, nelle stesse circostanze di tempo e di luogo, con premeditazione e per motivi abietti, esploso contro Caccamo Maria Antonia, moglie del Sainato, due colpi di rivoltella, non raggiungendo l’intento per circostanze indipendenti dalla loro volontà.

La causa si discute il 2 dicembre 1940 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, comprendendo che tutto il processo si gioca sulle posizioni degli imputati sul luogo del delitto, sull’arma sequestrata e su particolari che sembrerebbero in apparenza insignificanti, ritiene necessario innanzitutto chiedere spiegazioni al perito balistico su alcuni punti della relazione da lui resa in periodo istruttorio e, tenuto conto della risposta da lui data e soprattutto dai rilievi che ha potuto fare dopo diretta ed attenta osservazione sulla rivoltella e sui proiettili, è in grado di affermare che l’ipotesi della pluralità degli agenti non trova appoggio sulla perizia balistica. Il proiettile rinvenuto nella ferita sulla spalla di Giuseppe Spagnuolo è talmente deformato che riesce impossibile stabilire di che calibro fosse nella forma originaria. Né, per riuscire a tale intento, può trarsi argomento dal peso attuale del proiettile perché la deformazione è tale da non poter escludere che un qualsiasi frammento del metallo si sia distaccato dalla massa lungo la traiettoria tra le ossa della spalla. Gli altri due proiettili sono dello stesso calibro, sicché è pienamente ammissibile che tutti e tre i proiettili siano stati espulsi dalla stessa arma e che l’autore del fatto sia stato unico. Va bene, ma come si spiega che le quattro camere di scoppio senza bossoli risultano mai utilizzate? Eppure Rocco ha inizialmente sparato tutti i colpi contenuti nel tamburo, poi ha tolto i bossoli, ha ricaricato e sparato di nuovo. La Corte ha una risposta anche per questo: in ordine alla superficie interna delle quattro camere trovate vuote, deve rilevarsi che il perito, durante il periodo istruttorio insisté fortemente nel giudicare che le quattro camere non fossero mai state adoperate e ciò a causa delle filigini, di grumi rugginosi e delle lanugini che si osservano sulla superficie interna di esse, ma tali condizione di cose non si è constatata nel dibattimento. L’esame portato dalla Corte sulle quattro camere ha condotto al risultato che esse non differiscono gran che dalle altre due e che, se qualche lievissima differenza può scorgersi tra il colore interno della loro superficie e quello dello stato interno delle due altre, il fatto può ben spiegarsi con gli effetti diversi dell’esplosione di cartucce a polvere nera e di quelle a polvere bianca, nonché con la diversa altezza delle cartucce, di cui alcune raggiungono la superficie superiore del tamburo, mentre altre rimangono in livello inferiore lasciando nelle camere, verso il forame di uscita, uno spazio libero che facilmente si copre di polvere e di lanuggine nei periodi più o meno lunghi nei quali l’arma non viene adoperata (e Sainato sostiene di non aver fatto uso della rivoltella da cinque anni prima del fatto). La versione addotta da Sainato di avere prima usato sei cartucce corte e poi due lunghe non ha potuto essere contraddetta, sicché se tutte le cartucce della prima carica, o alcune di esse, erano di lunghezza inferiore al tamburo, si spiega come alcune delle camere potettero apparire al perito leggermente più annerite delle altre, fenomeno che si sarebbe anche verificato se alcune delle cartucce della prima carica fossero state confezionate con polvere bianca ed altre con polvere comune. Il dubbio intorno a tale posizione di fatto si sarebbe potuto eliminare col sequestro dei bossoli gettati in terra dal Sainato dopo aver tirato i primi colpi, ma tale sequestro non fu eseguito. Ma, checché sia di ciò, è certo che dall’esame della rivoltella, dei proiettili e dei bossoli sequestrati nulla può indursi circa l’asserita duplicità dell’arma adoperata.

E se fu adoperata una sola arma deve escludersi ogni immaginaria causale inerente alla supposta associazione per delinquere, venendo meno ogni ragione di sospettare che Armeni e Prochilo avessero preso parte al fatto. Dal sopralluogo effettuato dalla Corte sul luogo del delitto, è emerso che le posizioni in cui i testimoni dicono di aver visto Prochilo e Armeni, tanto l’uno che l’altro si sarebbero trovati abbastanza lontani dalla cucinetta di Sainato e non avrebbero potuto prestare a costui quell’aiuto o incoraggiamento che può dare la sola presenza del correo giacché, nel momento del fatto, Sainato non poteva vedere né Armeni e né Prochilo. Di un qualsiasi atto ostile compiuto da uno dei due detti imputati non si è avuta prova alcuna.

Allora l’accusa di Giuseppe Spagnuolo fatta in punto di morte contro Armeni e Prochilo non conta niente? È possibile immaginare che abbia mentito in punto di morte? A quale scopo? Vediamo come la Corte risolve questo problema: Giuseppe Spagnuolo, interrogato dalla diligente guardia Morabito, disse che Armeni e Prochilo facevano da pali, ma tale versione trova opposizione nella stessa natura del fatto, giacché non si trattava di compiere una operazione di notevole durata per la quale occorresse tenere lontano persone sopravvenute, ma si commetteva un fatto improvviso, senza alcuna previsione di lunga durata e senza alcuna preoccupazione pel sopravvenire di gente estranea. La verità, quale emerge dal complesso delle prove, è che Giuseppe Spagnuolo, giovane robusto, audace e spregiudicato, non aveva alcuna ragione di temere forte e seria reazione da parte di Sainato, persona fisicamente debole e moralmente da lui stimata poco pericolosa, altrimenti non avrebbe osato istituire la tresca con la moglie di lui, né avrebbe adoperato modi e mezzi tali da insospettire qualunque marito acquiescente e pacifico. Dopo aver parlato chi sa quante volte con la Caccamo, dopo aver passato con lei l’intera notte del 19 febbraio, dopo averla chiamata in strada e di averle per pretesto chiesto il pezzo di sapone da barba, non avrebbe osato, in presenza del marito, di metterle la mano sulla coscia nella cucinetta se non fosse stato sicuro che costui avrebbe potuto essere facilmente ingannato o che se si fosse avveduto dell’atto lo avrebbe tollerato, come aveva tollerato tanti altri atti e tante altre parole lesive del suo onore. Ora, se Spagnuolo era lontano mille miglia dal prevedere che avrebbe trovato la Caccamo nella cucinetta, che le avrebbe messo la mano sulla coscia, che Sainato si sarebbe di ciò accorto e che avrebbe reagito con tanta energia, come si può sostenere che l’imputato si fosse messo d’accordo con Armeni e Prochilo e li aveva indotti a fare da palo nell’omicidio dello Spagnuolo e nel tentato omicidio della moglie? Pertanto, neanche l’affermazione immediata di Giuseppe Spagnuolo basta a far ritenere che Armeni e Prochilo si siano resi responsabili dei reati loro ascritti e dei quali, quindi, debbono essere prosciolti, sia pure con formula dubitativa.

Ora è il momento di affrontare la posizione di Rocco Sainato, sulla cui responsabilità non c’è alcun dubbio. La Corte, piuttosto, è chiamata a stabilire di quale tipo di omicidio deve rispondere e spiega: non si adatta alla specie l’ipotesi delittuosa dell’omicidio per causa d’onore perché l’imputato non uccise Spagnuolo e tentò di uccidere la moglie nell’atto in cui ne scopriva l’illecita relazione, ma molto tempo dopo avere avuto notizia sicura della tresca, cioè il 20 febbraio, quando era stato informato che Spagnuolo aveva passato l’intera notte con la moglie. È vero che l’imputato, con l’agguato teso il 16 marzo mirava a sorprendere i due amanti in flagrante adulterio, ma ciò faceva per trovarsi, poi, in grado di ottenere dai giudici, con sicurezza le attenuanti che dalla sua condizione potevano derivare. Deve escludersi l’aggravante della premeditazione perché il fatto fu istantaneo, non essendo preceduto da nessuna preparazione o preordinazione e avrebbe scelto un posto e un orario diversi. Infine, se Spagnuolo non avesse toccato la coscia della Caccamo il fatto non si sarebbe verificato. Essendosi poi dimostrato che l’imputato agì per ragioni d’onore e non già con intendimento di compiere un atto di camorra contro Spagnuolo, perde ogni fondamento l’addebito che abbia ucciso per motivi abietti. Deve, invece, riconoscersi che egli si trovò coinvolto nel fatto per l’impulso che, come marito, sentì fin dal primo momento del fatto, di tutelare l’onore suo personale e quello della sua famiglia contro le gravi offese arrecategli dallo Spagnuolo, onde sembra giusto ammettere in favore dell’imputato l’attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale e sociale. nel momento del fatto, poi, egli trovavasi manifestamente in stato d’ira a causa dell’ingiusto comportamento dello Spagnuolo che aveva osato toccare la Caccamo in sua presenza e in quella della cognata e quindi si ammette in suo favore l’attenuante dello stato d’ira. Indubbiamente, poi, il tentativo di omicidio in persona della moglie ed i due omicidi in persona di Giuseppe e Leonardo Spagnuolo furono commessi per effetto di una unica determinazione criminosa. Il suo risentimento contro i due amanti mette capo all’adulterio da essi commesso, mentre era evidente che Leonardo Spagnuolo, comparso improvvisamente sulla scena e dichiaratosi partigiano del figlio, fu da Sainato accomunato nella causa di Giuseppe Spagnuolo e coinvolto nella determinazione delittuosa. Il tentato uxoricidio ed i due omicidi vanno quindi considerati come unico reato continuato. Nel determinare la pena da infliggere a Sainato, deve aversi riguardo ai suoi precedenti morali e penali, che non sono buoni versando egli in stato di recidiva nel quinquennio, ai motivi a delinquere, all’arma adoperata, alla pericolosità da lui dimostrata.

Detto ciò, il calcolo è abbastanza complicato: partendo da anni 24 di reclusione, raddoppiandoli per la continuazione ad anni 48, diminuendoli di un terzo per i motivi di particolare valore morale e sociale e di un altro terzo per lo stato d’ira, si arriva ad anni 21 e mesi 4 ed aumentando tale misura di anni 2 e mesi 8 per la recidiva nel quinquennio, la pena complessiva si determina in anni 24 di reclusione, oltre ai danni, le spese e le pene accessorie.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Locri.