PRIMA CARNEFICE E POI VITTIMA

Filippo Pagliaro, trentenne contadino di Pietrafitta, seguendo l’antico costume, noleggia da più individui dieci asini per trasportare il frumento dall’aia in campagna alla sua casa. Verso l’una del 25 agosto 1896, mentre Pagliaro, con suo fratello Domenico che è un po’ più avanti, conduce gli asini verso l’aia in contrada Rovalicchio di San Giovanni in Fiore, incontra lungo la mulattiera l’altro contadino Nicola Malito, suo zio, che ha una scure in mano e gli dice in modo brusco:

Dammi sette asini ché devo caricare quindici tomolate di segale!

Io sono andato apposta a Pietrafitta per trovare gli animali e caricare il mio grano! – gli risponde infastidito.

A questo punto Malito comincia ad inveire contro Pagliaro, insistendo nel pretendere gli asini e l’altro a rispondergli di non poterglieli, e volerglieli, concedere. Malito, ormai inferocito, avanza verso il nipote che, anche se avesse voluto, non può mettersi al sicuro per via di un attacco di sciatica che gli limita di molto i movimenti. Infatti, colto da una fitta mentre fa alcuni passi indietro, cade a terra. Pensando chissà quali cattive intenzioni possa avere lo zio, caccia di tasca la rivoltella e gli dice:

Vatinne! Vatinne! Vatinne! – ma Malito non retrocede, anzi lo minaccia:

T’è fare occhiette occhiette!

Filippo Pagliaro lo guarda e poi gli spara due colpi: il primo va a vuoto, ma il secondo lo centra alla testa, facendolo stramazzare a terra morto.

Al rimbombo dei colpi accorrono Domenico e altri contadini che sono nelle vicinanze, oltre a quelli presenti al fatto, mentre Filippo, dopo avere raccontato la sua versione, piano piano se ne va e sparisce.

E sono queste le prime informazioni che il Maresciallo Carlo Conso acquisisce e verbalizza.

Filippo Pagliaro, dopo una segreta trattativa, la sera del 28 seguente si consegna al Sindaco di Pietrafitta, Cavalier Carlo Tancredi, che lo accompagna dal Pretore di San Giovanni in Fiore, competente per territorio, al quale racconta la sua versione. Poi il Magistrato gli fa:

– Il figlio della vittima sostiene che una parte degli asini era destinata al padre, è così?

Io avevo trattato tutti gli asini di mio conto con Eugenio Allevato e, semplicemente per via, dopo partiti, mi disse se avessi voluto cederne una porzione a Malito, cosa che non volli consentire perché nell’aia mi trovavo già pronto il grano e che gliene avrei potuto cedere qualcuno quando, fatto il caricamento, ne fosse risultato qualcuno superfluo.

– Qualcuno dice che tra voi due era già accaduta qualcosa e Malito ce l’aveva con voi che, da parte vostra, avevate espresso il proposito di ucciderlo…

Nessuno incidente tra di noi è avvenuto che lo avesse alterato, né a nessuno mai ho dichiarato il proposito di ucciderlo. Conseguentemente la causale dell’omicidio bisogna riscontrarla esclusivamente nel fatto degli asini e nella prepotenza che voleva usarmi.

– Chi c’era presente al fatto?

Nel momento dell’alterco mio fratello Domenico era un po’ più avanti per dirigere gli asini verso la mia aia e per persuadere Eugenio Allevato a ciò fare; Luigi Piccolo trovavasi poco discosto dalla parte soprastante e forse cercava di avvicinarsi per evitare tristi conseguenze.

La vedova di Nicola Malito, la quarantasettenne Raffaela De Rose, sostiene una versione completamente opposta dei fatti:

Per quanto mi è stato riferito da Eugenio Allevato e per quanto mi consta direttamente, posso esporre che la sera del ventiquattro agosto Allevato partiva da Pietrafitta per la Sila guidando tredici o quattordici asini che doveva adibire al trasporto delle granaglie esistenti nelle aie della Sila e di pertinenza di proprietari diversi. Mio marito, che trovavasi in un’aia in contrada Rovalicchio dove aveva trebbiato una quantità di germano, attendeva l’arrivo di Allevato per trasportare con un certo numero di animali il grano. Costui perciò era diretto da mio marito, senonché Filippo Pagliaro, armatosi di pistola a due canne, si accompagnò all’Allevato col proposito di costringerlo ad adibire tutti gli animali al trasporto del suo grano. Giunti sul posto si fece avanti Domenico Pagliaro, parò con violenza ed arbitrio gli animali e li menò via per adibirli al trasporto di proprio conto. Mio marito e Allevato rimasero sorpresi e naturalmente avvenne uno scambio di parole vivaci tra mio marito e Filippo Pagliaro, che non si era mai allontanato da Allevato. Nello scambio di parole Pagliaro cacciò la pistola e scaricò i due colpi contro il mio povero marito.

– Filippo Pagliaro ha detto che i rapporti tra lui e vostro marito erano buoni e non è vero quanto si dice in giro, è così?

Tra loro non correva buon sangue perché due mesi prima della morte di mio figlio avvenuta, come sapete, nella galleria Colico nel marzo ultimo, essendo un fratello di Pagliaro venuto a quistioni con mio figlio, esso Pagliaro volle prendere parte ed armatosi di grosso palo si permise di venire fino a casa e minacciare tanto mio marito che mio figlio

Il racconto della vedova viene confermato da Allevato e per Filippo Pagliaro sono guai seri perché viene rinviato al giudizio della Corte di Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario. La causa si discute il 26 gennaio 1897 e la Corte, due giorni dopo, condanna l’imputato, con la concessione delle attenuanti generiche, ad anni 15 di reclusione, di cui dichiara condonati mesi 3 per effetto del R.D. di amnistia del 24 ottobre 1896, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

Dopo quattordici anni e nove mesi di galera, Filippo verso la fine del mese di maggio 1911 viene scarcerato e torna a casa.

Il 25 ottobre, verso le nove di sera, la guardia municipale di Pietrafitta, Francesco Matera, è di servizio nel rione Dota, quando alcuni passanti gli dicono che i fratelli Filippo e Domenico Pagliaro hanno acceso una vivace rissa lì vicino. Matera accorre immediatamente e con l’aiuto di altri paesani riesce a sedare la lite e a far tornare a casa Filippo con sua moglie, nel frattempo sopraggiunta.

Domenico invece si ferma a parlare della lite con la guardia e Francesco Malito e non c’è verso di convincerlo a tornarsene a casa. Passano così una decina di minuti quando sul posto arriva Flippo con un bastone in mano e, rivolto al fratello, dice:

Tu sei una carogna, un disperato! – poi gli si scaglia contro e gli tira una bastonata in testa. Domenico barcolla, sembra aggrapparsi al fratello per non cadere ma, mentre la Guardia Municipale e Francesco Malito stanno per mettersi in mezzo per calmarli di nuovo, all’improvviso scappa e sparisce nel buio.

Mi ha dato una coltellata! – urla Filippo e tutti restano a bocca aperta, increduli, perché nessuno si è accorto che Domenico aveva un coltello in mano. Subito lo soccorrono, lo portano a casa e vanno a chiamare prima il dottor Antonio Guarascio e poi il Sindaco, cavalier Carlo Tancredi, che manda la Guardia ad Aprigliano per avvisare i Carabinieri.

Una ferita da punta e taglio al quadrante inferiore sinistro dell’addome che produce fuoriuscita di sostanza adiposa, senza ledere organi interni, diagnostica il medico e tutti tirano un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo.

Ma che cosa ha scatenato la furia dei fratelli Pagliaro fino a farli arrivare a questo punto? Secondo quanto, la mattina dopo, riescono a sapere i Carabinieri, tutto sembrerebbe essere partito da una interminabile serie di padrone senza sotto a vino, durante i quali quando padrone del vino usciva Filippo lasciava all’ombra Domenico e viceversa. Poi l’ubriachezza di entrambi avrebbe fatto il resto. Abbiamo usato il condizionale perché c’è almeno un particolare che non quadra in ciò che i Carabinieri hanno verbalizzato e cioè il fatto che Domenico, tornato a casa dopo aver ferito il fratello si è fatto consegnare del denaro dalla moglie, ha preso il suo passaporto per l’estero, ed è sparito portando con sé anche il coltello. Tutto questo stride con le informazioni raccolte dai Carabinieri sull’ubriachezza di Domenico e poi, se fosse stato davvero ubriaco, che motivo aveva di scappare? In fondo la cosiddetta ubriachezza volontaria è una condizione che molto spesso ha portato all’assoluzione per reati molto più gravi di quello commesso. Vedremo.

Intanto, la mattina del 30 ottobre il dottor Guarascio invia una nota urgente al Pretore di Cosenza nella quale riferisce che, contrariamente a quanto aveva diagnosticato sulla ferita inferta a Filippo Pagliaro, ritenuta non penetrante in cavità, da una più attenta osservazione dovuta a fenomeni avvenuti giorni dopo, è realmente una ferita penetrante in cavità e perciò il ferito è in pericolo di vita. Guarascio fa chiamare d’urgenza il dottor Domenico Pugliano e il dottor Giovanni Naccarato per un consulto e questi stabiliscono che si tratta di una lesione dell’intestino, consigliando un intervento chirurgico urgente, che viene eseguito direttamente in casa del ferito il giorno stesso alle ore 15,00. I chirurghi allargano la lesione praticando due incisioni, una nel verso della lesione stessa e l’altra in senso perpendicolare, per tentare una sutura dell’intestino. Ma le condizioni del ferito si vanno aggravando velocemente tanto da determinare i medici a sospendere l’intervento, disinfettando il cavo addominale secondo le regole dell’antisepsi, suturando quindi la lesione chirurgica lasciando un tubo a drenaggio per lo scolo delle materie fecali. Se si è arrivati a questo punto, è ovvio che per Filippo Pagliaro non ci sono più margini di salvezza ed è solo questione di qualche ora, infatti il paziente muore nella mattinata del 31 ottobre.

A proposito del motivo che ha spinto Domenico ad accoltellare il fratello, ogni indagine non porta a niente, nemmeno i familiari di Filippo sanno indicare un movente, seppur lontano nel tempo. L’unica ragione possibile resta l’ubriachezza, tesi condivisa anche dai familiari della vittima ed espressa dalla vedova, Raffaella Caputo:

Non correvano motivi seri che avessero potuto determinare mio cognato ad uccidere il proprio fratello e la causale va ricercata nel fatto che entrambi erano presi dal vino… – poi però aggiunge – io mi trovo in una brutta condizione se debbo sporgere querela a mio cognato

Cosa avrà voluto dire? Mistero.

Ripresosi dopo giorni di stordimento per l’accaduto, la Guardia Municipale Francesco Matera “ricorda” sia le parole che Domenico disse dopo la prima fase della rissa quando, cioè, rimase con lui e Francesco Malito per strada, mentre Flippo era rientrato a casa, sia l’esatta dinamica del fatto:

Filippo andò via, mentre Domenico rimase con noi a lagnarsi. Aggiungeva che il giorno che Rosario (chi sia tale Rosario non è specificato negli atti. Nda) aveva pranzato in casa del fratello, si era con lui bisticciato perché gli rimproverava di non avere educato molto bene i figliuoli e che egli gli aveva risposto che nemmeno Filippo aveva saputo bene educare l’unica figliuola, la quale era una civettuola che amoreggiava con molti. In questo mentre sopraggiunse Filippo, il quale con un bastone si fermò nel parapetto della rotabile per sentire e rivolse al fratello queste parole: “Tu sei una carogna!”. Domenico rispose: “Bada come parli perché io carogna ancora non ci sono”. E l’altro: “Sei una carogna e disperato fricato. Ascolta bene che io fo verso di te quello che ho fatto ad altri” e nello stesso tempo gli tirò un colpo di bastone sulle spalle. Il bastone si ruppe ed una metà di esso rimbalzò su di me. Io afferrai Domenico e Francesco Malito afferrò Filippo per evitare disgrazie, se non che Domenico si svincolò da me dandomi una spinta facendomi cadere il berretto per terra e mentre Malito reggeva Filippo, egli, con una mossa rapidissima, stando alle spalle di Malito, tirò un colpo di coltello nel basso ventre del fratello. L’atto fu così rapido che noi ci accorgemmo appena. Filippo gridò “Mi ha ferito nella pancia!”, mentre l’omicida si diede a fuggire e mentre fuggiva il ferito gridava “Vigliacco! Mi ha tirato un colpo di coltello alla pancia!”.

Domenico era da poco tornato dall’America ed era stato accolto in casa di Filippo, il quale amministrava una casetta ed un pezzo di vigna di proprietà comune con altri due fratelli emigrati… – aggiunge Francesco Malito dopo aver confermato il racconto della Guardia Municipale.

Può bastare per giustificare la rissa mortale? Può darsi. Intanto bisogna riuscire ad acciuffarlo, ammesso che non sia già riuscito ad imbarcarsi per tornare in America.

No, niente da fare e il 10 agosto 1912 la Sezione d’Accusa lo rinvia, in contumacia, al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.

La causa, col rito contumaciale, si discute il 13 marzo 1913 e la Corte, riconosciuta l’attenuante della provocazione, condanna Domenico Pagliaro alla reclusione per anni 14 e mesi 8, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.[1]

Ovviamente la sentenza non verrà mai eseguita.

[1] ASCS, Processi Penali. Questa storia è stata ricostruita attraverso due procedimenti penali separati.