IL TARLO DEL DUBBIO

Stefano D’Aguì, da Palizzi Superiore, ha 32 anni, fa il carbonaio ed è sposato con Immacolata Fiumanò. Stefano si è sempre mostrato amorevole con i suoi quattro fratelli e con le cinque sorelle, ma predilige, fra essi tutti, il fratello Giuseppe, verso il quale spiega speciale tenerezza, curando che non gli manchi il lavoro ed ospitandolo nella propria abitazione, dove lo fa dormire nella stessa stanza in cui dorme con la moglie, senza pensare che questa anomala situazione possa costituire un pericolo per il suo onore, tanto Giuseppe è fidanzato e non manca molto al matrimonio.

Ma, come volevasi dimostrare, i pericoli al suo onore arrivano presto a causa delle voci che cominciano a correre circa la correttezza dei rapporti tra Giuseppe e Immacolata. Stefano sorride divertito non credendo assolutamente alle dicerie, ma sua madre, invece, comincia a far caso, e ne rimane impressionata, al modo come i due cognati si trattano: le affettuose dimostrazioni che tra i due corrono, hanno tale aspetto da far sospettare che derivino da illecita tresca!

Avvertito più volte dalla madre e rimastone impressionato, la sicurezza di Stefano comincia a scricchiolare e nelle crepe si insinua il tarlo del dubbio. È il caso di accertare quanto di vero vi sia in ciò che si attribuisce alla moglie ed al fratello e, perciò, il mattino del 21 dicembre 1939, dopo aver detto ai familiari che non andrà con loro alla messa di San Tommaso perché sta andando in campagna a lavorare, si nasconde dietro certe tavole appoggiate ad un muro del corridoio adiacente alla camera da letto, restando lì in attesa di quanto potrebbe accadere.

Al ritorno dei familiari dalla chiesa, Stefano, da dietro le tavole, vede Giuseppe avvicinarsi ad Immacolata ed invitarla a colloquio amoroso. Stefano si rabbuia e freme, ma la moglie si mostra recalcitrante e il sorriso torna a rasserenarlo. Poi Immacolata dice:

Lasciami stare, ormai è bastato… so io quante lacrime ho versato e quanta paura ho avuto!

Allora è vero! Stefano vorrebbe esplodere far esplodere la sua rabbia ma si contiene, meglio aspettare e vedere cosa si diranno. Niente, non si dicono niente perché Giuseppe prende dolcemente Immacolata per mano e lei si lascia condurre nella camera da letto.

Stefano adesso potrebbe uscire e fare il diavolo a quattro, ma invece resta ancora nascosto per pochi ma interminabili minuti, poi esce dal nascondiglio, prende il suo pugnale ed entra nella stanza da letto. Immacolata e Giuseppe sono quasi nudi e questo significa che il congresso carnale era avvenuto allora allora. La sorpresa negli occhi dei due amanti nell’essere scoperti è niente di fronte alla certezza che l’arma nella mano di Stefano sta per abbattersi su di loro, che hanno reazioni completamente opposte: mentre Immacolata cerca di mettersi al riparo, Giuseppe si offre ai colpi, restando immobile a braccia conserte in mezzo alla stanza. Quando il fratello, con gli occhi di fuori, alza il braccio armato e lo colpisce ripetutamente, dice soltanto:

Mamma! Mamma! – poi crolla a terra, praticamente già morto.

Sbuffando come un toro inferocito, Stefano esamina con lo sguardo la stanza e quando vede la moglie rannicchiata in un angolo con gli occhi sbarrati per il terrore e mette le mani avanti scuotendo la testa come per dire di no, sorride beffardamente e le si avvicina brandendo il pugnale dal quale il sangue del fratello gocciola ancora, con l’evidente intenzione di ammazzare anche lei.

Le tira un colpo all’addome; Immacolata emette un debole lamento, poi crolla la testa di lato e si affloscia come un sacco vuoto. Convinto di averla uccisa, Stefano non infierisce e va a costituirsi dai Carabinieri che lo chiudono in camera di sicurezza e corrono sul luogo dei delitti, trovando Giuseppe morto, colpito da sei pugnalate, e Isabella solo leggermente ferita sulla regione addominale sinistra – se la caverà in otto giorni –, salva perché svenuta per la paura e creduta morta.

– Avvisato da mia madre mi erano sorti dei sospetti, ma non credevo possibile il tradimento… per questo mi sono nascosto e quando li ho sorpresi non ci ho visto più – confessa Stefano.

– Si, è vero, ho avuto relazioni intime con mio cognato Giuseppe – ammette Isabella.

Poi ci sono le dichiarazioni concordi di numerosi testimoni che confermano la tresca. L’istruttoria può considerarsi conclusa e Stafano D’Aguì viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Locri per rispondere di fratricidio e tentato uxoricidio.

La causa si discute il 15 aprile 1940 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva: è risultato chiaramente che D’Aguì Stefano uccise il fratello Giuseppe e tentò di uccidere la moglie nell’atto in cui scopriva l’illecita relazione carnale tra essi esistente. I due reati costituiscono, però, due atti esecutivi del medesimo disegno delittuoso e vanno quindi considerati come un unico delitto continuato. Nel determinare la pena da infliggere all’imputato deve aversi riguardo ai suoi precedenti morali e penali (che sono ottimi), alla causale a delinquere, alla speciale natura del fatto e, soprattutto, al grado non elevato di pericolosità dimostrato dal giudicabile. Tenuto conto di siffatte circostanze, stimasi giusto partire da anni 3 di reclusione (il minimo previsto dall’articolo 587 C.P. concernente l’omicidio per causa d’onore, abrogato solo il 5 agosto 1981 dall’articolo 1 della legge 442) ed aumentarli di anni 1 per la continuazione, sicché la pena da infliggere, in definitiva, si determina in anni 4, dei quali devono dichiararsi condonati anni 2 per effetto del R.D. di amnistia 24 febbraio 1940, N° 56. Inoltre, Stefano D’Aguì dovrà pagare le spese processuali e quelle del proprio mantenimento in carcere, ma non i danni perché nessuno si è costituito come parte civile.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Locri.