SANGUE DEL SUO SANGUE

– È stato l’anno scorso a maggio… eravamo in Sila a piantare patate… mi ha chiamato con una scusa e mi ha portato dietro un cumulo di sassi… mi ha messo una mano alla gola e stringeva mentre mi buttava a terra… e poi, poi mi ha alzato la gonnella… – Nicolina Oliva, diciotto anni di Acri, si copre il viso mentre racconta al Delegato di P.S. ciò che le è successo un anno prima, il mese di maggio 1907 – io ho cercato di urlare ma quella mano sulla gola non mi faceva respirare e pensavo “papà non farlo… non farlo, ti prego…” invece lo ha fatto… La sera ho raccontato tutto a mia madre ma lei mi ha detto: “Perdonalo, è tuo padre…” e io l’ho perdonato. Da allora mi vieta di parlare con chiunque, femmina o maschio che sia, ma io ci parlo lo stesso e quando lui se ne accorge la sera mi picchia con schiaffi, pugni, calci… pure a mia madre picchia se prende le mie difese. A mia sorella piccola non la tocca, almeno lei… adesso non ce la faccio più a sopportare e mi sono decisa a denunciarlo.

Il Delegato Arnone ascolta in silenzio con un senso di nausea ma deve fare il proprio dovere e dice:

– Lo sai che ti devo fare visitare da un medico…
– Si, mi potete fare visitare da chi volete.
Il medico conferma che Nicolina non è più vergine ma non può assolutamente stabilire in che modo è accaduto perché è passato troppo tempo. Quello che può fare è relazionare su alcuni lividi sospetti sul corpo della ragazza, il che ne accrediterebbe il racconto. Arnone, confortato da questo piccolo appiglio, manda i suoi uomini in contrada San Martino di Acri per arrestare il padre di Nicolina. È il 20 aprile 1908.
Carmine Oliva non è in casa, l’hanno avvisato che quella disgraziata di sua figlia è andata in paese a denunciarlo e si è nascosto in campagna. Nicolina è rimproverata aspramente per ciò che ha fatto dalla madre la quale, quando Carmine quella notte torna a casa per prendere qualcosa da mangiare, rimprovera anche lui:
– Ah! E siccome te l’ha detto, l’ammazzo! – risponde con gli occhi rossi dalla rabbia.
Nicolina ha paura e ottiene rifugio in casa di Maria Viteritti alla quale chiede consiglio, ottenendo dei rimproveri.
– Vai a ritirare la querela, è tuo padre…
La stessa cosa le dice anche il cantiniere Francesco Alessio e Nicolina li sta a sentire, così la mattina del 23 aprile va dal Delegato di P.S. e ritratta:
– Ho detto che mio padre mi ha violentato l’anno scorso perché ero arrabbiata con lui a causa dei continui maltrattamenti, in realtà mi ha stuprata uno sconosciuto dall’apparente età di trent’anni…
– Se così è, perché non lo hai raccontato a tuo padre? – le chiede Arnone.
– Avevo paura che mi uccidesse…
Nicolina, accompagnata da Maria Viteritti, se ne va e lungo la strada incontra il padre, la madre e la nonna che stanno andando al posto di Polizia per spiegare che l’accusa fatta dalla ragazza è falsa. Lo sguardo di Carmine è di quelli che non promettono niente di buono. Nicolina si nasconde dietro l’amica, terrorizzata.
Per la Madonna te ne sei fuggita? Ti devo fare a pezzi – la minaccia mentre Maria vede che l’uomo ha una scure nascosta sotto la giacca – adesso vieni con me e non fiatare!
Nicolina afferra per il braccio l’amica e le sussurra:
Non mi lasciare se no mi ammazza
Fortunato Arnone ascolta le parole di Carmine Oliva con lo sguardo duro puntato negli occhi del contadino.
– Non è vero che l’anno scorso ho abusato di mia figlia. Lei mi ha accusato di questa cosa atroce dopo che l’ho picchiata con calci e pugni perché si era allontanata da casa senza il mio permesso. Poco fa mi ha confessato che a violentarla è stato uno sconosciuto e che non mi ha detto niente perché temeva che l’uccidessi.
Il Delegato, suo malgrado, è costretto a rilasciarlo.
Passano alcuni giorni durante i quali Nicolina teme che il padre possa farle ancora del male e cerca di stare attenta a non restare mai da sola.
Il 28 maggio, di mattina presto, Nicolina sta trasportando del letame dalla stalla all’orto, in una cesta sistemata sopra la testa. La madre sta facendo pascolare alcune pecore a qualche centinaio di metri da casa. Rosaria, la sorella più piccola – ha solo sei anni – sta facendo dei servizi in casa.
– Vieni qua! – tuona la voce di Carmine. Nicolina ha un sussulto e la cesta le cade a terra. Se il padre l’ha vista saranno botte. Ma il padre sembra disinteressarsi della mancanza e continua – vieni qua che andiamo a legna.
– Sissignore – gli risponde a testa bassa, poi entra rapidamente in casa e dice a Rosaria di andare con lei e il padre. Quando le due sorelle escono sull’aia, il padre ha un gesto di stizza e, rivolgendosi a Rosaria, le ordina:
– Stattene acasa perché se vieni appresso di mia, ti mignu – facendole il segno di tirarle uno schiaffo. Rosaria, spaventata, rientra in casa mentre Nicolina e il padre si avviano verso il bosco.
Tu mi hai denunziato alla giustizia: te lo avevo fatto l’anno scorso e te lo faccio anche oggi. Vai a denunziarmi di nuovo – le dice spingendola a terra, poi si apre i calzoni e tira fuori il suo membro eretto. Nicolina per un attimo interminabile non riesce a fiatare, poi inizia a urlare a squarciagola. Il padre le è sopra e le serra la gola con una mano che sembra una morsa. Nicolina lo scalcia,  gli tira pugni, ma sente che sta per venire meno. In lontananza sembra di sentire delle voci, Carmine è preso dal panico e la lascia, poi le ordina – non allontanarti da qui per un’ora altrimenti sono guai – la guarda con aria truce e si allontana.
Nicolina torna a casa piangendo. Racconta tutto alla madre, ma non hanno il tempo di parlare di una possibile via d’uscita perché sopraggiunge Carmine il quale, senza parlare, prende alcune soppressate e un pezzo di lardo appesi al soffitto, prende dal comò una moneta da una lira e, rivolgendosi alla moglie che sta piangendo, dice:
Non ti spagnare che da qualunque luogo ti manderò qualcosa… – poi si dirige verso la porta di casa. Si ferma d’improvviso come se avesse capito di aver dimenticato qualcosa, si gira e dice a Nicolina – Mi perdoni?
– No, sto andando ad Acri a denunciarti…
– Va bene… va bene… – le risponde con un tono indecifrabile.
Il Giudice Aggiunto Giacomo Barletta e il Delegato di P.S. Fortunato Arnone sono seduti di fronte a Nicolina che tormenta un fazzoletto mentre parla:
– Quando il 23 scorso ho ritirato la denuncia contro mio padre l’ho fatto perché mi avevano consigliato di stendere un velo sulla sua malefatta e io mi convinsi. Stamattina, però, ci ha provato di nuovo e voglio denunciarlo per la violenza dell’anno scorso e il tentativo di stamattina… guardate qua, per poco non mi ammazzava… – termina mostrando i segni che ha sul collo, sulle spalle e sulle braccia.
– Signor Delegato, – dice il Giudice – preparate un ordine di arresto e mandate subito i vostri uomini a prendere quell’uomo.
Ma Carmine Oliva è scappato e per quante ricerche si facciano non si riesce a trovarlo. Carabinieri e Agenti di Pubblica Sicurezza piantonano la casa per un paio di giorni nel timore che l’uomo possa tornare e fare del male alla figlia. Carmine non è lontano e la notte si avvicina alla casa per osservare i movimenti delle Forze dell’Ordine e quando la mattina del 29 aprile vede che se ne vanno, dopo un po’ vede uscire anche la moglie che porta le pecore al pascolo, accompagnata dalla figlia piccola. Come se niente fosse si avvicina alla casa, dà un’occhiata in giro, ed entra sprangando la porta alle sue spalle. Nicolina sta pulendo della verdura seduta davanti al camino dando le spalle alla porta e non lo sente, poi percepisce un odore familiare, si gira di scatto e resta con la bocca spalancata e gli occhi sgranati con un’espressione mista di sorpresa e terrore: suo padre è a un passo da lei con un’ascia in mano.
Tutto si svolge inpochi attimi ma a Nicolina il gesto del padre che solleva l’arma sopra la testa e la fa ricadere sulla sua mano destra staccandole quattro dita e poi la risolleva le la abbatte suo polso destro staccandole quello che resta della mano, sembra un’eternità. Solo quando vede il sangue zampillare dappertutto comincia a urlare chiedendo aiuto.
Natale Ferraro sta zappando l’orto davanti la sua casa, che è adiacente a quella degli Oliva, quando, verso le dieci del 29 aprile, sente le urla di Nicolina e si precipita a vedere cosa sta accadendo. Si sporge dalla finestra e rimane inorridito dal sangue che schizza da tutte le parti e Carmine, incurante, che prende la figlia per i capelli, le poggia la testa sul bordo del caminetto e l’ascia che si abbatte sulla testa della ragazza con violenza inaudita. Cerca di sfondare la porta ma non ci riesce, urla a Carmine di smetterla che sta ammazzando la figlia.
Per la Madonna non trasìre ca ti gaccìu![1] – è la risposta mentre, ansimando, continua a vibrare colpi su colpi alla testa di Nicolina, ormai inerme a terra in un lago di sangue.
Arriva anche la moglie ma non ha nemmeno il tempo di dire una parola, la porta di casa si apre e Carmine, grondando il sangue del suo sangue:
Statti buono – dice Carmine a Natale mentre si allontana con l’ascia in mano. Alla moglie nemmeno una parola.
Mentre Natale corre a perdifiato verso il paese per denunciarlo, Carmine si incammina verso la città e a quelli che lo incontrano e, vedendolo in quello stato, gli chiedono cosa sia accaduto, risponde:
– Andate a vedere… ho macellato il porco…
La scena che si trovano davanti il Giudice Barletta e il Delegato Arnone è davvero raccapricciante. Il cadavere di Nicolina giace accanto al caminetto in una pozza di sangue. Indosso ha una gonnella a fantasia, un corpetto marrone e una giacchetta sopra una camicetta di tela ruvida, tutti cuciti all’uso di Acri. Sulla testa doveva avere un fazzoletto annodato ma non ne sono sicuri perché intravedono solo dei brandelli di stoffa in una massa indistinta. Ha le braccia aperte verso il focolare e la mano destra, alla quale mancano le dita, è attaccata al resto del corpo da un piccolo lembo di pelle. La testa è verso l’interno del caminetto e i due si devono avvicinare per osservarla bene. Ma c’è poco da osservare. Il cranio è sfondato in più punti e, nonostante siano passate già un paio di ore, la materia cerebrale continua a fuoriuscire mista a sangue. Non riescono a vedere niente altro, presi dai conati di vomito. Non si sono nemmeno accorti che c’è una forchetta conficcata in una delle ferite. Sarà il medico legale a stabilire il numero, quattro, e la gravità delle ferite, singolarmente tutte mortali.
Carmine Oliva si costituisce a Cosenza il 4 maggio.
– Sapevo che mi figlia mi aveva denunciato per violenza carnale ai suoi danni. Il 28 aprile scorso l’ho portata con me a far legna. C’era anche mia figlia piccola, ma l’ho mandata via per paura che si potesse fare male cadendo. Rimasto da solo con Nicolina la rimproverai per la denuncia e lei disse di averla ritirata perché era stata violentata da un vicino di casa, un certo Raffaele Gabriele e io, volendo assicurarmi della sua verginità, la presi per il collo e la buttai a terra e colle mani le tastai la vulva. Lei chissà che ha pensato ed è andata ad Acri a denunciarmi. La mattina del 29 sono tornato a casa e, contrariamente a quanto le avevo ordinato, non l’ho trovata perché era a casa dei vicini. Le ho dato qualcosa da mangiare ma lei rifiutò. A quel punto chiusi la porta di casa e le chiesi, di nuovo, chi era stato ad abusare di lei. Nicolina mi rispose che me lo avrebbe detto se io avessi aperto la porta e al mio rifiuto, lei opponeva il suo finché, esasperato, l’ho colpita con l’ascia alla mano destra e nemmeno allora ha voluto dirmi il nome e si è messa a gridare. Io non ci ho visto più e ho cominciato a colpirla alla testa come se stessi spaccando la legna finché non ho capito che era morta.
Questa versione non è ritenuta credibile e a smentirlo c’è anche Rosaria, la figlia piccola, la quale dichiara che il padre mente quando sostiene che la mattina del 28 aprile l’ha rimandata a casa per timore che potesse farsi male perché non l’ha fatta proprio uscire di casa. D’altra parte trova un sostegno nella moglie, la quale si rifiuta di costituirsi parte civile trincerandosi dietro il fatto di non essere legalmente sposata perché il matrimonio è stato celebrato solo col rito religioso.
Ai giudici bastano le testimonianze di Rosaria, di Maria Viteritti, del cantiniere Francesco Alessio e del Delegato Fortunato Arnone per chiedere e ottenere il rinvio a giudizio di Carmine Oliva con le accuse di violenta congiunzione carnale, tentata congiunzione carnale violenta e omicidio volontario con l’aggravante del vincolo di parentela. Accuse da ergastolo.
Il 17 giugno 1909 la Corte d’Assise di Cosenza riconosce Carmine Oliva di ignoti, nato ad Acri il 24 febbraio 1866, colpevole dei reati ascrittigli e lo condanna all’ergastolo. Fine pena mai.
Il 4 novembre dello stesso la Suprema Corte di Cassazione mette la parola fine a questa orrenda vicenda dichiarando inammissibile il ricorso contro la sentenza di primo grado.[2]
[1] Gaccìu, da gaccìare: prendere a colpi di gaccia, cioè ascia. NdA.
[2] ASCS, Processi penali.

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