IL CALVARIO DI LUCIA

Pietro Pizzuti, sebbene nato da buoni ed onesti genitori di Spezzano Piccolo i quali, non appena egli divenne fanciullo, con amorevole premura cercarono di educarlo per fare di lui un onesto cittadino, tuttavia, sin dai primi anni della sua adolescenza, dimostrò uno scarso attaccamento al lavoro, una spiccata inclinazione ai vizi ed un’invincibile tendenza ad atti di violenza e di prepotenza. Nel 1928, mentre lavorava alle dipendenze della Società Elettrica Bruzia in Cosenza, s’invaghì della sedicenne Lucia Marigliano e, circuitala di un’assidua corte ed ostentando serie ed oneste intenzioni, riuscì a sedurla, ma quando ebbe soddisfatta la sua lussuria venne meno alle sue reiterate promesse di sposarla e l’abbandonò al sua destino.

Su querela dei genitori della sedotta, Pietro Pizzuti fu sottoposto a procedimento penale per violazione di domicilio, oltraggio al pudore, violenza carnale e ratto consensuale. Il Tribunale di Cosenza, con sentenza del 3 dicembre 1929 lo ritenne colpevole dei primi due reati e lo condannò a 9 mesi di reclusione, condanna confermata in appello. La pena, tuttavia, gli fu condonata per effetto del sovrano indulto del 1 gennaio 1930 e Pietro, mostrandosi pentito della sua condotta, non si rifiutò di sposare la giovane. Siffatte nozze, però, nonostante la casa coniugale fosse stata allietata dal sorriso di due innocenti creature, segnarono per Lucia l’inizio del suo calvario perché ella fu sottoposta ai più duri maltrattamenti dal suo turpe marito, che la trascurava per altra donna, la picchiava continuamente senza ragionevole motivo e le faceva mancare persino il necessario, onde l’infelice giovane dovette per una prima volta trovare aiuto e protezione nella casa di sua madre.

Dopo qualche mese, però, dando ascolto ai consigli di sua madre e, soprattutto cedendo alle pressioni di suo marito, che con la sua indole prepotente e malvagia era riuscito a soggiogarla ai suoi voleri, Lucia tornò nella casa coniugale, ma le cose non mutarono perché Pietro continuò nella sua vita di vagabondaggio e di prepotenza.

Nel 1932 Pietro, dopo diversi mesi di ozio a cui si era volentieri abbandonato perché sostentato dalla moglie e dalla suocera, per interessamento del di lui padre che ansiosamente desiderava di sottrarlo alle tristi e miserevoli condizioni in cui viveva, fu assunto quale manovale nelle Ferrovie Calabro Lucane e destinato dapprima a Celico e poscia a Bianchi. Qui, non smentendo la sua indole violenta, per un futilissimo motivo sparò un colpo di rivoltella contro il suo caposquadra. Fu arrestato ma, in attesa del processo ottenne la libertà provvisoria. Intanto le Ferrovie lo licenziarono e, tornato nelle tristi e miserevoli condizioni da cui suo padre lo aveva tolto, fu, per la seconda volta, accolto con sua moglie e i suoi figli in casa della suocera. Dopo la condanna del 3 aprile 1933 (confermata in appello), la suocera, stanca ormai di tenerlo in casa, lo cacciò via facendogli comprendere che era disposta a trattenere presso di sé la figlia ed i nipoti fino a quando non avesse trovato lavoro.

Pietro attribuì la responsabilità dell’allontanamento a sua moglie che invitò più volte a riunirsi a lui, ottenendone solo dei secchi rifiuti. Fu così che cominciò a covare nei suoi confronti un odio implacabile.

Cosenza, 17 febbraio 1934, ore 14,30. Il freddo è pungente ma Pietro se ne sta davanti alla porta della bottega del barbiere Francesco Calvelli con le mani in tasca e battendo i piedi a terra per riscaldarli un po’. Sembra osservare distrattamente la poca gente che passa per la strada, poi all’improvviso interrompe quella sorta di balletto che sta facendo. Guarda con più attenzione due donne che sono appena sbucate dalla Carrubba e procedono lungo Via dei Martiri nella sua direzione. Entra nella bottega del barbiere, che lo guarda quasi stupito mentre si nasconde dietro un appendiabiti, e scruta la strada.

Lucia, con la sua amica Giulia Massimilla, percorre Via dei Martiri diretta a Cosenza Casali per consegnare un cappello alla signora Santa Marino. Da quando ha lasciato suo marito ha trovato un lavoro come sarta presso la modista Cairo per la miseria di 5 lire al giorno, che non le bastano nemmeno per dare da mangiare ai bambini. Per fortuna c’è quella santa donna di sua madre che, nonostante l’età avanzata, ancora si spacca la schiena facendo la serva e, con quell’altra miseria che racimola, l’aiuta a non morire di fame. Ma è serena, potremmo addirittura dire felice, felice di non dovere più subire le angherie e le botte quotidiane di Pietro.

Lucia e Giulia passano davanti alla bottega del barbiere chiacchierando allegramente e vanno oltre. Pietro le scruta da dietro il vetro.

– Ma che vai cercando? – gli fa il barbiere che, infastidito, interrompe la rasatura del cliente seduto sulla poltroncina e con la mano gli fa segno di andarsene.

Esce sulla strada. Lucia e Giulia sono una quindicina di metri più avanti. Forse sentono il rumore della porta del barbiere che si chiude con una certa forza, fatto sta che si girano e lo vedono. Continuano a camminare come se niente fosse, ma Giulia è preoccupata perché Pietro le sta pedinando e guadagna lentamente terreno.

– Ma che vuole? Non è che vuole fare una scenata in strada e magari ti picchia pure?

– Stai tranquilla, non succederà niente di male… ormai siamo arrivate, entriamo dalla signora, lui se ne andrà – la rassicura sorridendo. Cinque minuti scarsi impiegano per far provare il cappello alla signora Marino, poi le due amiche sono di nuovo sulla strada. Pietro, però, non se n’è andato e si avvicina a Lucia:

Disgraziata! Perché parli male della mia famiglia? – le urla in faccia, con gli occhi rossi di rabbia, questa nuova, assurda accusa. Lucia conosce quello sguardo e adesso ha davvero paura. Trema. Le trema anche la voce mentre gli risponde:

Lasciami stare perché a casa mi aspetta la bambina che lasciai ammalata

Non può aggiungere altro perché Pietro, ubbidendo ai suoi istinti malvagi, le assesta due sonori schiaffi facendole saltare il cappello dalla testa, poi tira fuori un coltello e le vibra un primo, tremendo colpo sulla nuca, frantumandole una vertebra. Lucia cade a terra all’istante, completamente paralizzata dal collo in giù, incapace anche di emettere un lamento. Pietro è una furia; le monta sopra, la colpisce altre due volte alla gola e il sangue comincia a schizzare tutto intorno dalla carotide tranciata in due. Giulia Massimilla, ripresasi dalla sorpresa, gli salta addosso per cercare di evitare altri colpi a Lucia che, a questo punto, è già morta. Pietro, infuriato e molto più forte di Giulia, respinge l’assalto assestandole due coltellate, una ad un piede e l’altra ad un braccio, poi la spinge via, ritorna addosso a sua moglie e, senza capire che l’ha già ammazzata, le affonda con violenza il coltello nelle carni altre otto volte, accompagnando ogni volta i colpi con una specie di grugnito.

Soddisfatta, così, la sua sete di sangue, di corsa si allontana dal luogo del delitto verso l’adiacente campagna.

Carabinieri e Questura si mettono sulle sue tracce, ma sembra essere svanito nel nulla. Il 22 febbraio successivo, Pietro bussa alla porta della caserma dei Carabinieri di Spezzano Sila e si costituisce:

Confesso di avere, con piena coscienza e libera volontà, ripetutamente colpito mia moglie con coltello per disfarmi di lei

– Il motivo?

Non solo aveva tradito la fedeltà coniugale ed erasi ingiustamente rifiutata di allontanarsi dalla casa materna e ritornare nella casa coniugale, ma quel giorno mi aveva anche ingiuriato con gli epiteti di “cornuto” e “disgraziato” e mi percosse con pugni e graffi, producendomi delle lesioni alla mano destra ed al viso

– Noto con piacere che sei già guarito… – dice, ironicamente, il Giudice Istruttore che lo interroga – Perché hai ferito anche la Massimilla?

– No, non l’ho ferita io, è stata lei che nel tentativo di disarmarmi si è tagliata…

– Beh… in verità le ferite sono state inferte con la punta del coltello e non con il taglio, quindi o l’hai accoltellata tu, o lei si è accoltellata da sola per aggravare la tua posizione…

Giulia Massimilla e altri testimoni lo smentiscono e il 19 maggio 1934 Pietro Pizzuti viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di accuse da far gelare il sangue nelle vene: omicidio volontario pluriaggravato dalla premeditazione, dai motivi abietti e dalla crudeltà, nonché di lesioni volontarie e porto abusivo di coltello.

Tutto sarà deciso nelle udienze a partire dal 17 dicembre 1934.

La Corte deve affrontare il problema delle aggravanti contestate a Pietro Pizzuti che, se confermate lo porteranno dritto all’ergastolo, se non alla pena di morte. Tenendo presente le modalità ed il movente del delitto, accertate durante l’istruttoria e nel pubblico dibattimento, la Corte, però, ritiene di poter escludere tutte le aggravanti. Non sussiste l’aggravante di aver agito per motivi abietti perché non è stato provato, come erroneamente hanno sostenuto la pubblica e la privata accusa, che l’imputato uccise la moglie perché costei erasi recisamente opposta a convivere con lui, impedendogli così l’attuazione del suo turpe e disonorevole proposito di vivere a carico di lei e di alimentare anche i suoi vizi col denaro ch’ella avrebbe guadagnato lavorando e dandosi alla prostituzione. Al contrario, sostiene la Corte, è rimasto inequivocabilmente acclarato che l’imputato, nei periodi di tempo in cui lavorò alle dipendenze della Società Elettrica Bruzia e della società delle Ferrovie Calabro Lucane, col salario che percepì provvide al sostentamento della moglie e dei figli. Non risulterebbe vera nemmeno la circostanza che Pietro avesse cercato di far prostituire Lucia per potere alimentare i suoi vizi.

Ben altra è stata la causale del grave fatto di sangue ed essa va esclusivamente ricercata nell’odio che l’imputato nutriva per la moglie. Egli, che per il suo carattere violento era riuscito a soggiogare ai suoi voleri la propria consorte, mal tollerava che ella non volesse con lui convivere e l’odio verso di lei divenne implacabile e lo spinse alla consumazione del grave delitto perché si era convinto che ingiustamente la moglie si diniegasse a ritornare alla casa coniugale, convincimento errato ed ingiusto perché l’infelice Lucia Marigliano, ben sapendo che il marito era disoccupato e non dimostrava seria intenzione di trovare lavoro e non potendo, d’altro canto, col salario di lire 5,00 al giorno che percepiva lavorando nel negozio di modista, provvedere al sostentamento proprio e dei figli, preferiva convivere con la madre che si sottoponeva alle più dure fatiche per evitare che la figlia ed i nipotini, che teneramente amava, soffrissero la fame.

Non sussiste nemmeno l’aggravante della premeditazione in quanto per la sussistenza di essa non basta il proposito omicida ma occorre, altresì, che siffatto proposito sia accompagnato dalla riflessione e che il colpevole, con pazienza, tenacia e sagacia preordini i mezzi di esecuzione del reato in modo da rendere più facile la consumazione di esso e più difficile la preventiva difesa della vittima designata. Nel caso in esame manca la prova che l’imputato abbia premeditato il delitto perché, nonostante Pietro si fosse appostato sulla porta del barbiere in attesa di Lucia, non è risultato che sapesse che nel giorno 17 dicembre 1933 sua moglie avrebbe necessariamente dovuto percorrere la Via Casali per recarsi dalla signora Marino.

Resta da dimostrare l’insussistenza della terza aggravante: la crudeltà. La Corte fa notare che per l’applicazione di questa aggravante è indispensabile che il colpevole, dimostrando un animo sordo ai più elementari e comuni sentimenti di pietà, l’assenza completa di ogni sensibilità morale, esegua il delitto con mezzi brutali ed efferati per cagionare alla vittima atroci sofferenze ed aumentare gli spasimi della morte. Nonostante Pietro avesse affondato la lama del suo coltello per ben undici volte nel corpo di Lucia, ciò non basta a giustificare la fondatezza della crudeltà perché, secondo la Corte, bisogna dar credito alla giustificazione dell’imputato il quale ha sostenuto di aver vibrato i molteplici colpi di coltello nel parossismo dell’ira da cui era acceso l’animo suo e non già col proposito di aumentare le sofferenze della sua vittima, tanto più che la morte della povera Lucia fu praticamente istantanea e almeno otto coltellate furono superflue per raggiungere lo scopo.

Detto ciò, la Corte, tenuti presenti il movente ingiusto del delitto, le modalità con cui esso fu eseguito, i precedenti penali dell’imputato che rivelano la sua spiccata tendenza ai reati contro la persona ed agli atti di violenza, la sua pessima condotta, stima giusto irrogare la pena di anni trenta di reclusione.

Poi ci sono il reato di lesioni personali ai danni di Giulia Massimilla e il porto abusivo di coltello. Per le lesioni la Corte gli infligge due anni di reclusione e per il secondo mesi tre di arresti. Queste due ultime pene restano assorbite nella pena di anni 30.

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 4 maggio 1935, rigetta il ricorso dell’imputato e la pena è definitiva.

Infine, l’8 febbraio 1950, la Corte di Appello di Catanzaro, applicando l’indulto del 23 dicembre 1949, dichiara condonato un anno di reclusione dalla pena inflitta a Pietro Pizzuti.[1]


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza

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