UN MATRIMONIO

È il primo luglio 1923 e la diciannovenne Barbara Talarico, orfana di padre, è nell’orto di Salvatore Lucente in contrada Sultante di San Giovanni in Fiore, tenuto in fitto dalla madre, per innaffiare le patate.

Poco distanti, nascosti alla vista della ragazza, due giovanotti confabulano tra di loro:

– Allora siamo d’accordo, tu sali sull’albero e controlli se si avvicina qualcuno e io sto con lei…

– Va bene, andiamo!

Serafino Caputo, ventenne pretendente di Barbara, soldato del 5° Fanteria, 6^ Compagnia in Girgenti, ed il suo amico diciannovenne Salvatore Stefano, si avviano e si avvicinano alla ragazza procedendo come stabilito: Salvatore, senza dire una parola, sale su un albero di ciliegio a due o tre metri da dove si trova Barbara e Serafino le si avvicina, cominciando a parlarle del più e del meno. Poi, fattosi più audace, azzarda:

– Ti voglio possedere, devi darti a me ora!

– Non ci penso nemmeno, lo sai che mia madre non ne vuole sapere di te!

– Si? E allora ti taglio la testa! – la minaccia, togliendo di tasca un coltello. Barbara resta un attimo impietrita e poi tenta di salvarsi scappando, ma Serafino non ci mette molto a raggiungerla e buttarla a terra. Poi con una mano le serra la gola e con l’altra prima LE alza il sottanino, poi si abbassa i pantaloni, tira fuori il membro eccitato e, senza che Barbara riesca a muovere un muscolo, la violenta.

Intanto nell’orto è arrivata la quattordicenne sorella di Barbara, che ancora non si è accorta di niente, e Salvatore Stefano che dall’alto del ciliegio l’ha vista, scendendo come un fulmine le dice:

Zitta! Zitta che vado io a chiamartela!

La ragazzina si blocca e il “guardiano” va ad avvisare l’amico di sbrigarsi, poi torna subito indietro.

– Non dire niente a nessuno ché ti sposo. Ora, invece di andare subito a casa, vai da Maria Martino e resta un poco lì. Hai capito? Fai come ti dico e non succederà niente, altrimenti… – dice Serafino mentre si ricompone, poi se ne va senza aspettare l’amico.

Barbara, un po’ scarmigliata, confusa e dolorante arriva sotto il ciliegio e la sorella le dice:

– Che ti è successo, che hai fatto?

– Niente, niente, vai a casa, io devo fare una cosa…

La ragazzina, un po’ perplessa, ubbidisce e Barbara va da Maria Martino, dove trova Serafino, che continua a rassicurarla sul matrimonio e la fa restare lì per ben 12 giorni e poi la fa tornare a casa.

Maria Mancina, la madre di Barbara, è preoccupata perché la figlia non torna a casa. Quando viene informata dell’accaduto da Antonio Mancina ed è furente sia con lo stupratore che con sua figlia, forse consenziente, ma Mancina la convince a non denunciare Serafino perché ha promesso pubblicamente di sposare Barbara e quindi si presenterà ufficialmente a lei per chiederle di acconsentire al matrimonio, tanto più che la ragazza è a casa di Maria Martino e lo sanno tutti. Ma quando Serafino, finita la licenza riparte per Agrigento senza avere fatto la richiesta alla madre della ragazza, è evidente che ha preso in giro tutti e allora Barbara può tornare a casa e scatta la querela. Il Pretore, a questo punto, prima di sentire i testimoni citati nella denuncia, interroga Barbara, che racconta:

Serafino Caputo mi veniva dappresso promettendomi di trarmi in moglie e ciò da parecchi tempo. Io non trovavo difficoltà ad essere sua moglie, ma mia madre invece si opponeva pel fatto che voleva mandarmi in America, dove trovasi mio fratello, per incontrare colà miglior fortuna. Il primo luglio, mentre mi trovavo nell’orto, vennero Serafino e Salvatore Stefano. Quest’ultimo salì su di un albero di ciliegio a due o tre metri distante dal punto ove mi trovavo io ed il primo si avvicinò a me facendomi la proposta di darmi a lui. Io mi opposi, ma egli, minacciandomi di tagliarmi la testa, mi afferrò e trascinandomi un po’ più in giù mi buttò a terra. Io non potetti resistere alla sua violenza ed egli abusò di me, violentandomi

Rintracciato e notificatagli l’accusa di complicità in violenta congiunzione carnale, Salvatore Stefano, a piede libero, racconta la sua versione dei fatti:

Il primo luglio Serafino Caputo mi invitò ad andare in contrada Saltante all’orto di un suo compare, dove mi sarei potuto fare una mangiata di ciliegie. Vi andai, difatti, insieme a lui ed ivi trovammo la giovinetta Barbara Talarico. Io salii su un ciliegio ed ai piedi di esso Caputo e la Talarico presero a discorrere. Poi, dicendo di andare ad attingere acqua alla fontana, si allontanarono ed io continuai a rimanere sul ciliegio. Quando ritornarono, dopo nemmeno un quarto d’ora, Caputo mi disse “Questa è la mia fidanzata perché ci siamo uniti carnalmente”. Credo che i due se l’erano intesa precedentemente e che il Caputo, quel giorno, vi si fosse recato proprio per compiere quell’atto carnale. Dico questo perché quando ritornarono dalla fontana la Talarico non dava segno di aver subito delle violenze e assistette tranquilla alla confessione a me fatta da Caputo. Io, come ho detto, nulla sapevo dei propositi di Caputo e nessun aiuto prestai a lui per compiere il reato.

– La fontana è lontana dall’orto? Da sopra l’albero si vede?

La fontana dove dissero di andare non è molto lontana dall’albero sul quale mi trovavo, ma da questo non si scorge.

– C’era gente nelle vicinanze? Qualcuno sarebbe stato in grado di vedere l’atto sessuale?

Nell’orto vi era altra gente, fra cui il padrone ed altri lavoranti e alla detta fontana potevano accedere altre persone ad attingere acqua perché è pubblica e ci hanno diritto le persone che stanno sugli orti vicini.

– Hai testimoni che possano confermare la tua versione?

Non ho testimoni

Ma come, con tutta la gente che, secondo la sua versione, era nell’orto, possibile che nessuno lo ha visto sul ciliegio e, soprattutto, possibile che il padrone non lo abbia rimproverato per avergli mangiato le ciliegie?

Per avere la versione di Serafino Caputo bisogna aspettare fino al 3 settembre, quando viene interrogato dal Pretore di Agrigento:

Non è affatto vero che io abbia con violenza sedotta Barbara Talarico. Ella era mia fidanzata e di comune intesa il primo luglio scorso ci unimmo carnalmente.

– E quindi? Che dobbiamo fare con te?

Signor Pretore, sono pronto a riparare col matrimonio al mal fatto

Dobbiamo credergli? Secondo la Procura del re, che ne chiede e ottiene il rinvio a giudizio, no. La discussione della causa viene fissata per il 19 novembre 1923, ma c’è una novità: due giorni prima dell’udienza, il pomeriggio del 17 novembre, Barbara Talarico si presenta alla Pretura di San Giovanni in Fiore con un foglio di carta bollata da lire 4,60 in bianco e si siede davanti al Vice Pretore, Commendator Francesco Caputi, spiegandogli la situazione. Il Magistrato sorride sornione e poi redige la remissione di querela nei confronti di Serafino Caputo. Bisogna spedirla immediatamente a Cosenza, ma il tempo è cattivo da non permettere neanche di uscire all’uscio di casa; le vie coperte di neve e di abbondante ghiaccio non lasciano ombra vivente, sicché la remissione non arriva al Tribunale, come non ci arrivano né gli imputati, né i testimoni e né Barbara, provocando la ferma reazione del Collegio Giudicante, che commina multe a tutti e rinvia la causa a nuovo ruolo.

Finalmente l’undici aprile si discute la causa e Barbara Talarico, interrogata in aula, cambia versione dei fatti:

L’imputato Caputo non mi minacciò colla frase che io riferii di tagliarmi la testa, ma mi disse che se non avessi ceduto con le buone, avrei dovuto cedere a forza. La violenza usatami dall’imputato consiste nell’avermi afferrata e trascinata un po’ più in giù dell’orto dove io mi trovavo e nell’avermi buttata a terra, violentandomi. Io ho fatto remissione di querela al Caputo, ma a condizione che egli mi sposasse, cosa che finora non ha fatto perché in servizio militare

Bene, anzi male, perché il Collegio non le crede e non può nemmeno tenere conto della remissione di querela perché il fatto è avvenuto in luogo esposto al pubblico e quindi perseguibile d’ufficio, quindi condanna Serafino Caputo ad anni 2 e mesi 6 di reclusione, alle spese ed alle pene accessorie. Invece assolve Salvatore Stefano per insufficienza di prove e motiva la decisione: il primo luglio 1923, mentre la Talarico si trovava in un orto tenuto in fitto dalla madre, le si presentò il Caputo, il quale le propose di congiungersi carnalmente con lui. La Talarico si oppose ma egli, minacciandola di tagliarle la testa, l’afferrò e la buttò a terra. La Talarico non poté resistere alla violenza ed il Caputo abusò di lei, violentandola.

E ora? Ora Serafino ha finito il servizio militare, ritorna in paese e deve scontare la condanna, ma prima ha altro da fare. Per esempio presentare una richiesta di revoca della condanna alla Corte d’Appello di Catanzaro:

Caputo Serafino, condannato dal Tribunale di Cosenza ad anni due e mesi sei di reclusione per violenza carnale in luogo esposto al pubblico, trasmette a V. Eccellenza il certificato di eseguito matrimonio con Talarico Barbara, giusto l’art. 352 C.P.

Il Caputo chiede pertanto che venga pronunciata declaratoria di assoluzione, trovandosi l’appellante nelle condizioni di cui nel nominato art. 352 C.P.

Nella ferma speranza che si vorrà tenere conto del detto documento, ringrazia sentitamente.

Il 23 maggio 1925 arriva la sospirata sentenza della Corte d’Appello:

In parziale riforma della sentenza del Tribunale di Cosenza del 16.4.1924, dichiara l’appellante Caputo Serafino esente da pena per avvenuto matrimonio con la parte offesa.[1]

In realtà non si tratta dell’Articolo 352 C.P. ma degli articoli 530 C.P., relativo alla violenza sessuale sui minori e del 544 C.P., che recita testualmente: Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.

Anzi recitava perché, anche se con vergognoso ritardo, questo obbrobrio giuridico, confermato nell’art. 544 del nuovo codice penale approvato il 19 ottobre 1930, viene abolito solo il 15 febbraio 1996, quindici anni più tardi dell’abolizione dell’altra vergogna dell’omicidio per causa d’onore.

[1] ASCS, Processi Penali.