IL MAFIOSO PEPPE MUSOLINO

Il nostro compito, in questo primo capitolo, non può essere quello di narrare la vita fortunosa e trista di Giuseppe Musolino, né di descrivere le poco eroiche vicende della sua esistenza di bandito. Troppo a lungo, e sotto i più disparati punti di vista, ne hanno discorso tutti i giornali, le effemeridi letterarie, le riviste ed anche troppo ricca e varia è la produzione popolare, più o meno fantasiosa e fallace, che lo concerne. In ciò Musolino non forma eccezione fra i numerosi banditi e briganti da’ quali la nazione italiana, da alcuni secoli in qua, è a quando a quando funestata: le loro avventure attraggono l’attenzione e volano, ingigantite dalla paura o dalla morbosa simpatia, di bocca in bocca; spesso la loro biografia è meglio conosciuta di quella degli uomini benemeriti per le opere dell’ingegno o della mano. [Biografia di un bandito – Giuseppe Musolino di fronte alla psichiatria ed alla sociologia – Studio medico – legale e considerazioni dei Professori E. Morselli e S. De Santis, Milano 1903, p. 13]

 

27 ottobre 1897, mercoledì sera, Santo Stefano d’Aspromonte. Tra gli avventori della bettola di Giuseppe Musolino ci sono Vincenzo Zoccali, ventiduenne mulattiere, ed il suo amico Antonino Surace che stanno bevendo qualche bicchiere di vino mentre giocano a carte. La porta del locale si apre ed entra il figlio ventunenne del bettoliere, Giuseppe Musolino – sì, si chiama proprio come il padre – che si avvicina a Zoccali e questi gli porge la sedia per farlo accomodare.

No, non mi siedo e tu devi venire a parlare con me! – gli dice con tono aspro. Zoccali lascia le carte, beve l’ultimo sorso di vino e lo segue in silenzio nel buio delle strade e dei vicoli. Quando arrivano al punto detto Croce, Peppe Musolino, mentre estrae dalla tasca un pugnale, gli rivolge di nuovo la parola – avrei dovuto dartele prima! – e gli si avventa contro cercando di colpirlo, senza riuscirci e Zoccali tenta di scappare verso casa, distante appena una ventina di passi. Allora Musolino, evidentemente seguito da un complice, urla – spara cugino, spara cugino!

Nel vicolo infatti c’è suo cugino Antonino Filastò con una rivoltella in mano e all’ordine di Peppe spara un colpo contro Vincenzo Zoccali, ma lo manca. In questo frattempo, attirati dalle urla, intervengono Carmine e Stefano Zoccali, rispettivamente padre e fratello di Vincenzo, che si frappongono, cercando di bloccare Musolino e picchiandolo, ma quando Carmine Zoccali si accorge che Filastò sta per sparare di nuovo contro il figlio, lo affronta e gli urla:

–  Non colpire mio figlio, tira contro di me!

E Filastò gli spara contro un colpo che fortunatamente colpisce solo di striscio alla fronte l’anziano. Intanto sul posto arrivano alcune donne tra le quali la madre di Vincenzo, e Raffaele Priolo, parente degli Zoccali, che con l’aiuto del giovane e delle donne riesce a bloccare, con qualche percossa, e disarmare Filastò, mentre Peppe Musolino scappa nel buio urlando a Vincenzo:

Se non sei morto questa sera, morrai immancabilmente un’altra volta!

Dopo qualche minuto arrivano i Carabinieri e Priolo consegna nelle loro mani Filastò, che viene subito interrogato:

Mi trovavo a giocare nella bettola di mio zio Giuseppe Musolino in compagnia del di costui figlio Giuseppe, di Antonino Zappalà, di Vincenzo Zoccali, di Stefano Sofi e di Rocco Mangiaruca. Giuseppe Musolino figlio invitò Zoccali ad uscire fuori dalla bettola per chiedergli spiegazioni intorno a precedenti quistioni avvenute fra loro e difatti uscirono. Io rimasi a giocare. Dopo una mezz’ora uscii e giunto al punto detto Croce trovai i due in animato colloquio e, al vedermi, Musolino mi gridò: “cugino, tira!”. Io mi volsi e vidi Zoccali che, armato di pugnale, mi gridò: “ah! Tu sei suo cugino, allora tiro a te!” e tosto mi diede due colpi di pugnale, coi quali non mi attinse. Io, allora, scartandomi estrassi una rivoltella e gli esplosi contro due colpi, ma ciò feci per fargli paura e tirando in aria

– C’erano precedenti rancori fra voi due?

Nessun precedente rancore vi era fra me e Zoccali, col quale, anzi, fui sempre amico.

– Però c’è un particolare che non quadra… come mai il padre di Vincenzo Zoccali ha una ferita di striscio alla fronte, dovuta ad un colpo di rivoltella? L’unica rivoltella l’avevate voi, quindi voi gli avete sparato!

Io non ho ferito il padre di Zoccali. Costui, invece, si produsse la lesione che lamenta in altra antica occasione. Egli non poteva essere ferito da me perché non mi stava di fronte, tanto che, dopo il colpo, tanto egli che altri suoi parenti si gittarono su di me, mentre Raffaele Priolo mi percuoteva, producendomi le lesioni che osservate. Pertanto espongo formale querela per tali lesioni contro Carmine Zoccali, Vincenzo Zoccali, la madre di quest’ultimo, Raffaele Priolo e Stefano Sofi.

Sembrerebbe che si sia trattato di un caso di legittima difesa in quanto Filastò avrebbe esploso i colpi di rivoltella per salvare sia sé stesso che Musolino dall’aggressione di Vincenzo Zoccali ed in attesa di chiarire meglio i fatti, non lo trattengono.

I cinque querelati negano ogni addebito ma, mentre Sofi e la madre di Vincenzo escono subito dalle indagini, gli altri tre sono formalmente accusati di lesioni in danno di Antonino Filastò.

29 ottobre 1897, venerdì mattina presto, Santo Stefano d’Aspromonte, un giorno e mezzo dopo i tentati omicidi. Rocco Zoccali, secondo gli accordi presi, bussa alla porta di casa di Vincenzo Zoccali per svegliarlo e andare a lavorare. Vincenzo è già pronto ed esce, scende le scale esterne della casa, si avvicina alla porta della stalla per preparare gli animali, ma appena sta per aprirla qualcuno gli spara un colpo di fucile alle spalle, senza fortunatamente colpirlo.

Si gira istintivamente mentre cerca riparo e sente la voce di un uomo che gli urla:

Neanche con questa sei morto?

No! – urla a sua volta.

Allora, da altre quattro o cinque persone appostate nel vicolo Croce, distante un venti passi dalla casa, partono altri quattro colpi di arma da fuoco, probabilmente rivoltella. anche questi, per fortuna, vanno a vuoto e gli aggressori si allontanano di corsa e quando arrivano nei pressi della chiesa di Santo Stefano sparano un altro colpo per spavalderia dei malandrini.

Vincenzo non va a lavorare e bussa alla caserma dei Carabinieri, ma deve aspettare un po’ perché sono tutti fuori per servizio. Quando, verso le otto, rientrano, racconta tutto al Brigadiere Paolo Luzzara, comandante ad interim della stazione.

– Non avete riconosciuto nessuno? – gli chiede il Brigadiere.

– Dei quattro o cinque appostati nel vicolo, no. Ma ho riconosciuto le voci di quello che ha urlato e di un altro che era con lui…

– E chi erano?

– Quello che ha urlato era Giuseppe Musolino di Giuseppe, l’altro era suo cugino Francesco Filastò.

Immediatamente partono le ricerche per arrestare i due sospettati, ma senza esito. La mattina dopo, mentre i Carabinieri iniziano le indagini interrogando molti testimoni, Giuseppe Travia, un amico di Musolino e Filastò, va a casa degli Zoccali e minaccia il capofamiglia Carmine:

Se oserai dar querela la tua vita è brevissima!

Questo fatto increscioso indirizza il Brigadiere Luzzara verso la pista da seguire per scoprire l’identità degli altri attentatori e nel verbale da inviare all’Autorità Giudiziaria ed ai suoi superiori, scrive:

Siccome in questo paese esiste la cosiddetta maffia, composta da una decina dei più famosi pregiudicati, amicissimi fra loro, pronti e compatti quando debbono compiere qualche vendetta, sono certo che con i due Musolino e Filastò vi siano stati anche i loro soci Siniscalchi Pasquale, Cimino Vincenzo, Travia Giuseppe, D’Agostino Vincenzo, Zappalà Antonino e Mangiaruca Rocco, tutti oziosi e vagabondi di questo comune, tanto più che la sera del 27 andante per un fatto consimile venne da quest’arma arrestato il loro consimile Antonino Filastò. Prontamente abbiamo proceduto all’arresto di Cimino Vincenzo, Travia Giuseppe e Zappalà Antonino come sospetti autori di quelli che spararono colpi di rivoltella stando nel vicolo Croce, figliati alla voluta associazione di maffiosi che in questo paese desta timore e ribrezzo dei loro atti nella popolazione onesta, ma non fu possibile arrestare D’Agostino Vincenzo, Mangiaruca Rocco e Sinicropi Pasquale poiché, quantunque da noi rincorsi per circa tre chilometri fecero in tempo a prendere la via dei monti senza poterli raggiungere.

L’esito delle deposizioni di Felice Travia, Rocco Versace, Teresa Suraci, Stefano Nucara, Francesco Surace, Rocco Zoccali, Teresa Romeo, Stefano Crea e Tito Morabito è sostanzialmente una conferma di quanto dichiarato da Carmine Zoccali, dalla moglie e dai figli, nonché da Raffaele Priolo, con la differenza che aggiungono di aver visto, dopo l’aggressione di Musolino a Vincenzo Zoccali, intervenire il padre ed il fratello Stefano e malmenare Musolino prima che questi riuscisse a scappare.

Nel punto indicato da Vincenzo Zoccali come quello dal quale i due sicari gli hanno sparato la fucilata, i Carabinieri rinvengono alcune nitide impronte di scarpe, che descrivono minuziosamente, e seguendo altre orme, ad una cinquantina di metri, in un giardino attiguo, trovano un fucile ad avancarica ad una sola canna, un berretto fatto alla fantina di lana color cenere ed un cappello nero con piccole falde tese che sequestrano per sottoporli a perizia. Sulla porta e sul muro della stalla vengono repertati i fori prodotti dalle pallottole. Fatti osservare ad alcuni paesani, compreso il Sindaco Tito Morabito, il berretto viene riconosciuto come appartenente a Peppe Musolino ed il cappello a Francesco Filastò.

Di certo deve essere accaduta qualcosa di grave tra Vincenzo Zoccali e Peppe Musolino per giustificare questo accanimento. Oppure, come qualcuno vocifera, si trattava di eseguire la condanna a morte di Vincenzo Zoccali, deliberata dalla mafia di Santo Stefano, per la sua intenzione di abbandonare l’associazione, esecuzione affidata la prima volta a Musolino ed Antonino Filastò e la seconda volta fu chiamato Francesco Filastò a coadiuvare Peppe, ma andò sempre male. Vedremo cosa accadrà. Intanto accade che di Musolino si perdono le tracce per mesi ed il Giudice Istruttore, fatta una visita sui luoghi e nella Pretura di Calanna, constatato il modo in cui le indagini per la cattura dei latitanti vengono portate avanti, va su tutte le furie e, tra le altre censure che muove al Pretore, scrive:

Al Sig. Pretore a cui si osserva con rincrescimento che per sbarazzarsi dei processi, li rimanda incompleti. E valga questo, che si è spiccato mandato di cattura e non si è curato di unire al processo un verbale di vane ricerche.

Immediatamente i Carabinieri cominciano a perquisire abitazioni e battere la campagna e sul tavolo del Giudice Istruttore finalmente arriva il verbale, unico e solo, del quale aveva lamentato la mancanza. Ma nonostante i servizi di pattuglia, passano i mesi e di Musolino ci sono solo le tracce delle sue scorribande, che gli costano i mandati di cattura per i reati di violenza privata ed ingiurie in danno della ventenne sua compaesana Rosalia Caligiuri e di lesioni con frattura della gamba sinistra in persona dell’altra sua compaesana Mariangela Caccamo. In questo frattempo Carabinieri e magistrati si occupano di perseguire la mafia locale e vengono arrestati con l’accusa di associazione per delinquere e tentato omicidio Giuseppe Travia, Vincenzo Cimino, Antonino Zappalà, Francesco Filastò (imputato anche per il secondo tentato omicidio), Vincenzo D’Agostino, Rocco Mangiaruca, Pasquale Principe e finalmente Antonino Filastò, oltre Giuseppe Musolino, sempre latitante.

La sera dell’8 aprile 1898 i Carabinieri a piedi della stazione di Santo Stefano d’Aspromonte Domenico Sgambellini e Agostino Piacentini, mentre sono in servizio nel limitrofo comune di Sant’Alessio in Aspromonte, vengono fermati dal Sindaco del paese, Salvatore Romeo, che rivela loro:

Il pericoloso latitante Giuseppe Musolino si nasconde qui, in casa di una sua zia, certa Annunziata Filastò!

I due Carabinieri si fanno accompagnare a casa della donna dal Sindaco e dalla Guardia Municipale Alessio Chirico, bussano alla porta ma nessuno risponde. Continuano a bussare e finalmente qualcuno risponde ma non apre, così con una forte spinta la gettano a terra ed entrano noncuranti del pericolo a cui potrebbero andare incontro, stante anche l’oscurità della notte. Peppe Musolino viene stanato dal suo nascondiglio e, senza dargli il tempo di opporre alcuna resistenza, arrestato, assicurato coi ferri e quindi tradotto nella camera di sicurezza della caserma di Santo Stefano, dove viene perquisito. Addosso gli trovano una lima triangolare della lunghezza di centimetri 15 circa, nonché un piccolo coltello a serramanico, armi che gli vengono sequestrate. Subito dopo viene interrogato e racconta la sua versione dei fatti:

Conosco Vincenzo Zoccali essendo mio compaesano, anzi devo dirvi che con lui, precedentemente al fatto di cui è ora processura, ebbi una lieve quistione. Nella sera del 27 ottobre ultimo, essendo io entrato nella cantina esercita da mio padre vi rinvenni parecchia gente e tra essa Zoccali e certo Surace Antonino. Ad un certo momento Zoccali mi pregò di uscire fuori con lui ed io non vi trovai difficoltà alcuna ed uscii. Se non che quando fummo fuori la cantina, Zoccali mi pregò di accompagnarlo presso la chiesa, dovendo, come egli diceva, soddisfare un bisogno corporale ed io, difatti, lo accompagnai. Dopo Zoccali mi pregò di accompagnarmi secolui nella via detta Croce, dove egli diceva di dover compiere un affare. Io non mi opposi e quindi andammo. Se non che, quando giungemmo in detta via, Zoccali all’improvviso e senza che io gli avessi fatta offesa di sorta, estrasse di tasca un cosiddetto perciabardo e con lo stesso mi tirò diversi colpi, alcuni dei quali riuscii a scampare ed altri mi colpirono leggermente al padiglione dell’orecchio sinistro ed alle costole; in questo momento giunsero anche il fratello dello Zoccali a nome, se non erro, Stefano ed il padre di lui a nome Carmine e mentre il primo, estratto di saccoccia un rasoio mi tirava dei colpi ferendomi alla mano sinistra, il secondo, cavato di tasca un altro perciabardo, mi vibrava anche dei colpi, ferendomi leggermente e se non fosse stato per l’intromissione di Felice Travia, il quale separò me dai miei aggressori, certo costoro mi avrebbero ridotto a pezzi. Io, dopo, mi allontanai dalla via Croce e mentre camminavo intesi l’esplosione di due colpi di arma da fuoco, ignoro da chi e contro chi sparati. Pertanto mi dichiaro innocente del reato che mi si addebita in danno degli Zoccali padre e figlio, non avendo, io, nella sera del 27 ottobre ultimo, non solo non vibrato allo Zoccali figlio dei colpi di pugnale, che non ho mai asportato, ma anche non eccitato Antonino Filastò, che del resto conosco e che non vidi punto in quella congiuntura, ad esplodere contro Zoccali figlio dei colpi di rivoltella e mi querelo contro i miei offensori.

– A noi risulta che la sera del 27 ottobre fosti tu ad invitare Vincenzo Zoccali ad uscire e che fosti tu ad aggredirlo nella via Croce e non il contrario, poi gridasti ad Antonino Filastò, che conosci in quanto tuo cugino, “Nino spara, Nino spara!” e, infine, che dopo l’esplosione dei colpi andati a vuoto, dicesti a Vincenzo Zoccali “se adesso l’hai scampata, non sarà così un’altra volta!”.

– Non è vero quanto voi dite!

Una versione dei fatti che contrasta non solo con quelle degli Zoccali e di Raffaele Priolo, ma addirittura con quella di suo cugino. Ma la cosa più sorprendente è che nessuno gli rivolge alcuna domanda sui fatti del 29 mattina, cioè del secondo tentativo di uccidere Vincenzo Zoccali.

Il risultato di queste accuse incrociate è che Peppe Musolino, Antonino Filastò, Mariangela Priolo, Raffaele Priolo, Stefano Sofi, Carmine Zoccali, Vincenzo Zoccali e Stefano Zoccali vengono imputati, i primi due di tentato omicidio, e gli altri di lesioni personali. La Camera di Consiglio del Tribunale Penale di Raggio Calabria, chiamata a chiedere gli eventuali rinvii a giudizio per gli imputati, l’11 giugno 1898 dichiara non farsi luogo a procedimento penale per Mariangela Priolo, Raffaele Priolo, Carmine Zoccali e Stefano Zoccali per il reato di lesioni personali; Giuseppe Travia, Vincenzo Cimino, Antonino Zappalà, Vincenzo D’Agostino, Rocco Mangiaruca e Pasquale Sinicropi per il secondo tentato omicidio e per l’associazione con la motivazione di insufficienza di indizi. A Santo Stefano d’Aspromonte, quindi, la maffia non esiste.

La Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Catanzaro, il 9 agosto 1898, rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Reggio Calabria Vincenzo Zoccali per le lesioni causate con arma da punta e taglio ad Antonino Filastò e Giuseppe Musolino; Antonino Filastò per tentato omicidio, Francesco Filastò per tentato omicidio premeditato e Giuseppe Musolino per concorso in tentato omicidio e lesioni volontarie in persona di Vincenzo Zoccali.

La causa si discute a partire dal 24 settembre 1898 e c’è subito una novità: Francesco Filastò viene scagionato dalle accuse e al suo posto viene accusato del secondo tentativo di omicidio Antonino Filastò. Poi accade in fatto increscioso: stando nella gabbia, Peppe Musolino, dopo aver tirato un calcio a Vincenzo Zoccali, gli grida “prega Iddio che io non esca vivo, ma se arrivo ad uscire un’ala del tuo fegato me la debbo mangiare!”.

Il 27 settembre 1898 la Corte d’Assise di Reggio Calabria emette la sentenza e parte dalla posizione di Antonino Filastò, riformulando le accuse nei suoi confronti e cioè: 1) di avere, nel mattino del 29 ottobre 1897 in Santo Stefano d’Aspromonte, a fine di uccidere Vincenzo Zoccali, esploso a breve distanza un colpo di fucile andato a vuoto, compiendo in siffatta guisa tutto ciò ch’era necessario per la uccisione di esso Zoccali, la quale uccisione non si verificò per circostanze indipendenti dalla sua volontà, con l’aggravante della premeditazione e col beneficio delle circostanze attenuanti; 2) di avere nel dì 27 ottobre 1897 in Santo Stefano, a fine di uccidere Vincenzo e Camine Zoccali, esploso contro di essi due colpi di rivoltella, uno dei quali investiva il Carmine alla fronte, compiendo in siffatta guisa tutto ciò ch’era necessario per la uccisione dei medesimi, la quale non si verificò per circostanze indipendenti dalla volontà dell’agente, colla scusa della lieve provocazione e lo condanna ad anni otto di reclusione. In più le spese, i danni e le pene accessorie.

Poi passa ad esaminare la posizione di Giuseppe Musolino e parte dalla considerazione che, avendo, nel dì 27 ottobre 1897 in Santo Stefano, a fine di uccidere Carmine e Vincenzo Zoccali, concorso nel reato di mancato omicidio attribuito a Filastò Antonino, con eccitare la risoluzione del medesimo a commetterlo in danno dei medesimi, questo reato, se fosse stato consumato importerebbe la pena dell’ergastolo. Trattandosi di mancato omicidio, il delitto va punito con la pena della reclusione non inferiore ai vent’anni. La Corte stima partire da venti anni i quali, diminuiti di un sesto per le concesse attenuanti, restano anni sette e mesi otto. Per il secondo reato la pena è quella dell’omicidio, diminuita della metà. La Corte crede partire dagli anni diciotto, che è il minimo, e li diminuisce della metà, cioè di anni nove. Il terzo reato, cioè il ferimento, va punito fino a tre mesi di reclusione e la Corte stima applicare un mese. I detti nove anni e il mese stabilito pel ferimento debbono ridursi a metà pel cumulo giuridico e restano anni quattro, mesi sei e giorni quindici, da riunirsi alla pena comminata pel reato maggiore di anni sedici e mesi otto, di guisa che, in concreto, per tutti e tre i reati affermati sul conto del Musolino, si applica la pena di anni ventuno, mesi due e giorni quindici di reclusione. In più le spese, i danni e le pene accessorie.

Resta la posizione di Vincenzo Zoccali, riconosciuto colpevole di lesioni volontarie e condannato a mesi uno di reclusione. In più le spese, i danni e le pene accessorie.

Musolino e Filastò vengono rinchiusi nel carcere di Reggio Calabria e ricorrono per Cassazione, ma nel frattempo in cella si danno molto da fare e vengono puniti più volte con la cella di rigore a pane e acqua, una volta anche con la camicia di forza, e classificati con la definizione di “associato alla CAMORRA”, come ancora veniva chiamata la ‘ndrangheta. Poi tentano di evadere e sia per evitare altri tentativi, sia risse, minacce al personale e altre amenità, i due vengono trasferiti nel carcere di Locri, di più recente costruzione e quindi ritenuto più sicuro di quello del capoluogo.[1]

Il seguito alla prossima puntata.

[1] ASRC, Corte d’Assise di Reggio Calabria.