Sono le nove di sera del 25 agosto 1924, lunedì, ed a Cosenza fa caldo.
– Papà, posso andare a farmi una camminata fino a San Francesco? – chiede Riccardo, 11 anni, a suo padre Emilio.
– Vai, ma torna presto!
Riccardo esce dalla sua casa in Via Marini Serra, arriva fino alla barriera del dazio posta all’imbocco opposto di Corso Plebiscito, saluta Anacleto Silvio, la guardia di Servizio, e torna indietro, seguito dagli occhi attenti della guardia.
– Vieni con me che ti compro un po’ di frutta – gli dice Eugenio Pietramala, ‘U Maccagliune, suo vicino di casa, dopo averlo fermato.
Il bambino sgrana gli occhi e sente la saliva aumentargli in bocca al pensiero della frutta.
– Andiamo!
È passata più di un’ora e mezza da quando Riccardo è uscito ed il padre, non vedendolo tornare va a cercarlo. Arriva alla barriera del dazio e chiede alla guardia, suo amico, se ha visto il bambino.
– Si, è passato da qui e poi l’ho visto in compagnia di Genuzzu ‘U Maccagliune che giravano intorno la chiesa di San Francesco, ma non l’ho visto tornare…
Niente, per quanti giri faccia, Emilio non riesce a trovare Riccardo. Preoccupato e arrabbiato torna a casa e trova il bambino con le lagrime agli occhi. L’arrabbiatura gli passa in un attimo e gli resta solo la preoccupazione di cosa possa essergli capitato.
– Che ti è successo? Sei caduto, ti sei fatto male? Qualcuno ti ha picchiato?
Riccardo non risponde e continua a piangere, poi i genitori lo mettono a letto e il bambino si addormenta senza aver aperto bocca.
Il mattino successivo, sempre preoccupato, Emilio rintraccia la guardia daziaria per conoscere se sapesse qualcosa sul conto di suo figlio e Anacleto gli confida con tono serio e imbarazzato:
– Si vocifera che il bambino è stato violentato contro natura da Genuzzu ‘U Maccagliune…
Emilio si sente mancare e con la testa che gli gira torna a casa, prende il figlio e lo porta dal dottor Francesco De Fazio per farlo visitare, nella speranza che le voci che girano siano infondate, ma la diagnosi del medico è impietosa: piccole graffiature sulla regione posteriore del collo e sulla regione infrascapolare; stante la forma dell’orifizio anale e la rilasciatezza dello stesso, giudico essere stato, il bambino, stuprato.
Che fare? La rabbia è tanta e l’istinto di andare a cercare Genuzzu ‘U Maccagliune per fargliela pagare è difficile da reprimere, ma Emilio è una brava persona e la ragione gli impone di andare in Questura a denunciare il bruto. E così fa, portandosi il bambino, che necessariamente deve raccontare la sua disavventura:
– Fui avvicinato dal mio vicino di casa Genuzzu che mi invitò ad andare con lui sotto il pretesto di comprarmi della frutta. Infatti lungo il cammino comprò un cocomero e, tagliatolo, me ne diede un pezzo. Mi condusse alle Paparelle e, oltrepassata la cinta daziaria di parecchie centinaia di metri, proprio in aperta campagna, mi afferrò con violenza e conducendomi sotto un albero, mi abbassò i pantaloni e gettatomi a terra mi rivoltò e mi introdusse il membro nell’ano producendomi del male. Al che mi son messo a piangere e non appena mi potei svincolare dal bruto ritornai a casa…
– Perché non lo hai detto subito a tuo padre?
– Perché avevo vergogna e per tema che papà percuotesse… e poi Genuzzu mi aveva detto che se avessi fatto consapevole la mia famiglia del fatto avvenuto, mi avrebbe ammazzato!
Genuzzu ‘U Maccagliune viene subito rintracciato, arrestato e interrogato:
– Verso le sette e mezza di ieri sera, mentre transitavo per via Gaeta, fui colto a colpi di corteccia di melone da una comitiva di ragazzi che non conosco. Li ho rincorsi per farli smettere di tirarmi le cortecce e ho raggiunto Luigi, l’altro figlio di Emilio, al quale diedi due scappellotti e poi me ne sono andato per i fatti miei. Null’altro so dire in merito a alla violenza carnale sul minorenne che mi contestate…
Possibile che il bambino si sia inventato tutto sulla persona che lo ha violentato? Forse ha paura e non vuole dire tutta la verità, meglio interrogarlo di nuovo:
– Ero con mio fratello Luigi in via San Francesco. Qui ci incontrammo con Genuzzu, nostro vicino di casa, il quale era seduto sopra una pietra della via in compagnia di Francesco Marino e ci offerse del melone, che accettammo. Intanto mio fratello si era allontanato e tre giovani si diedero a lanciare scorze di melone contro Genuzzu, che mi invitò a seguirlo in modo da sorprendere i tre giovani alle spalle. Aderii all’invito e mi allontanai con lui e Marino restò lì. Ma Genuzzu invece di condurmi per la via che mi aveva indicato, mi condusse alle Paparelle, transitando dinanzi il casotto del dazio posto vicino alla Clinica Santoro e fummo visti dalla guardia Anacleto Silvio. Quindi Genuzzu mi accompagnò alla distanza di oltre duecento metri dal casotto. Gli chiesi dove mi stava portando e mi disse che ci recavamo da un suo amico che doveva dargli certa frutta, ma ad un certo momento mi afferrò alla nuca costringendomi a cadere in terra. Io mi misi a gridare, ma lui mi chiuse la bocca con la mano, quasi in modo da soffocarmi e quindi, sempre premendomi la mano sulla bocca, si tolse l’asta e questa cercò di spingere tra le mie gambe ricoperte dai calzoni. Nel compiere questa operazione mi stava di sopra e si muoveva strofinandosi contro di me. Dipoi mi sollevò dal suolo, mi sbottonò i calzoni denudandomi le gambe e mi collocò disteso pe terra col viso rivolto in giù. Si sovrappose a me e introdusse la sua asta nel mio orificio anale nonostante le mie grida e i miei tentativi di svincolarmi.
– Sai dire se introdusse tutta l’asta?
– Introdusse il membro solo in parte anche perché in quel momento udimmo il fischio di mio padre che mi cercava. Allora mi abbandonò. Ma prima mi minacciò dicendomi che se avessi riferito il fatto a mio padre, avrebbe ucciso me e papà… poi tornai a casa e arrivai prima di papà e nulla gli dissi, impaurito com’ero per le minacce del mio violentatore…
Interrogati, Francesco Marino e i tre giovani che tiravano bucce di melone, seppure con sfumature diverse, raccontano la stessa storia, precisando che si erano uniti a Genuzzu e Riccardo, ma poi ad un certo punto se ne erano andati per fatti loro, lasciandoli mentre salivano verso le Paparelle. Ma il testimone che racconta le cose più interessanti, anche smentendo in qualche modo il padre di Riccardo e tutti gli altri, è la guardia daziaria Anacleto Silvio:
– La sera dell’accaduto mi trovavo al mio posto di servizio nei pressi della chiesa di San Francesco, quando sopraggiunsero Genuzzu e il bambino e si inoltrarono un venti metri sulla strada che mena alle Paparelle. Poco dopo vennero Marino Francesco e altri tre e si unirono ai primi. Presero a parlare fra di loro di cose poco corrette. Venne nel casotto il capo guardia ed io mi sono recato per dieci minuti al fondo Salfi a notare un mio collega, lasciando i sei individui a discorrere. Nel ritorno trovai sullo stesso punto mancavano il bambino e Genuzzu. I quattro rimasti mi domandarono se li avevo visti e avendo risposto negativamente, quei ragazzi si diedero a cercare nel buio, ma pare che le ricerche furono inutili perché scesero e si fermarono nel mio ufficio. Marino si sedette e mi disse: “sai, questa sera ci fa il culo a quel ragazzo”, volendo alludere a Genuzzu e Riccardo, poi i ragazzi se ne andarono. io restai in vedetta per vedere se ritornasse qualcuno dei due e verso le undici vidi il padre del bambino, che mi disse: “vado in cerca di mio figlio”. Io allora gli raccontai quello che sapevo e lui se ne andò. Alle tre e venticinque lo vidi passare per recarsi alla ferrovia e gli chiesi conto del fatto della sera. Mi disse che aveva trovato il figlio a letto e Genuzzu sul ponte un poco ubbriaco ed a cui nulla aveva detto perché la mattina avrebbe fatto visitare il figliuolo e se l’avessero riconosciuto che non aveva subito nulla, avrebbe solo avvertito Genuzzu di lasciare in pace il figliolo. Se, invece lo trovavano violentato, avrebbe fatto tanto, che questo avrebbe denunziato lui, cacciandogli gli occhi. La mattina verso le undici rividi il padre e nuovamente domandato, mi disse: “non ha mancato per lui, è stato il ragazzo che ha resistito”, volendo dire che Genuzzu aveva fatto sul ragazzo quello che aveva potuto…
Certamente potrebbe essere andata così e la versione di Emilio è stata purgata per la vergogna, ma il fatto incontrovertibile è che Riccardo è stato sodomizzato e di questo Genuzzu ‘U Maccagliune, al secolo Eugenio Petramale, dovrà risponderne davanti al Tribunale Penale di Cosenza, al cui giudizio viene rinviato.
La causa si discute il 25 novembre 1924 e tutto si risolve in una mattinata. Il Collegio Giudicante riconosce la responsabilità penale di Genuzzu e lo condanna ad anni 5 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.