Verso la seconda metà del mese di aprile 1945, in contrada Malvitani del comune di Marano Marchesato, Francesco Napoli comincia ad insidiare con reiterate proposte oscene Ida Chiappone, moglie di suo cugino Vincenzo Infusino, insistendo che vuole congiungersi carnalmente con lei.
– Tuo marito è tisico, che ci puoi fare con lui? Con me invece… – è una delle frasi più dolci e romantiche che le dice per convincerla.
Ida non ne vuole sapere e glielo dice in mille modi, ma Francesco insiste, finché nel pomeriggio del 12 maggio, quando il molestatore le si avvicina per ripeterle ciò che non vuole più sentire, lo anticipa e sbotta:
– Vattene dalla vista mia perché non ce la faccio più a sopportarti!
– Va fricate! – le risponde infuriato, poi gira i tacchi e se ne va.
Ma quelle due parole la mettono in apprensione: avrà capito che non c’è niente da fare e la lascerà finalmente in pace o è una velata minaccia? Nel dubbio, Ida pensa che la cosa migliore da fare sia dire tutto a suo marito e così fa non appena torna dalla campagna.
La mattina dopo, il 13 maggio, Vincenzo Infusino va a casa degli zii. Francesco non c’è e allora racconta tutto a loro ed al cugino Agostino, ma non gli credono:
– Non è possibile che Francesco si sia potuto comportare con tua moglie nel modo che dici.
Vincenzo non insiste ed al cugino Agostino, che lo accompagna per un breve tratto di strada, dice:
– Senti, del fatto di prima non ne parliamo più…
– Sì, non ne parliamo più. Ah! Domani mattina posso venire ad aiutarti a zappare.
– Va bene, ci vediamo domani.
Sembra essere tutto finito. Probabilmente i genitori ed il fratello rimprovereranno Francesco e l’armonia tornerà nel parentato. Può darsi, ma Francesco, venuto a sapere da un amico della visita di Vincenzo a casa sua, è molto preoccupato, tanto preoccupato da chiedere più volte all’amico di accompagnarlo fino a casa, temendo che possa finire male se incontrasse da solo a solo Vincenzo, ormai consapevole che Ida gli ha raccontato tutto.
Assillato dal dubbio e dalla preoccupazione, a Francesco nel pomeriggio viene in mente di andare a cercare il cugino e dargli delle spiegazioni, cercando così di mettere davvero la parola fine al guaio che ha combinato. Mentre sta tornando dalla campagna con un altro lavorante, vede il cugino che ancora sta zappando e gli dice:
– Aspettami ché parliamo. – Vincenzo gli fa un cenno d’intesa e Francesco continua il suo cammino, poi lascia il compagno di lavoro e torna indietro dal cugino.
– Allora, che mi devi dire?
– Tua moglie mi ha accusato innocente perché, avendo io un giorno visto che un tale si era trattenuto lungamente con lei nella casa coniugale, l’ho rimproverata e minacciata di riferirti tutto!
Filomena Conforti sta facendo pascolare alcune capre poco distante, vede i due confabulare, senza avere la possibilità di ascoltare ciò che si dicono, però vede distintamente Vincenzo con le mani giunte mentre le muove dall’alto in basso come per dire al cugino, il quale tiene le mani alzate in atto di diniego: “che mi vai raccontando?”. Poi, all’improvviso, nelle mani di Vincenzo appare una pistola automatica con la quale spara due colpi al cugino e poi scappa. A questo punto la donna, senza distinguere a chi appartenga la voce, sente urlare:
– Va piglialu ‘nculu!
Francesco muore quasi subito dissanguato perché uno dei due proiettili gli trancia l’arteria carotide sinistra, provocando una inarrestabile emorragia, e l’altro gli centra l’addome, perforando più volte l’intestino.
Vincenzo resta latitante una notte e la mattina del 14 si presenta al carcere di Cosenza e si costituisce nelle mani del Capo Guardia, proprio negli stessi istanti in cui Pasquale Vena, il padre adottivo di Ida, si presenta dai Carabinieri di Rende e consegna la pistola usata per l’omicidio e racconta al Maresciallo Stanislao Liguorano ciò che ormai emerge prepotentemente: Francesco concupiva Ida.
Interrogata, la giovane racconta delle ripetute, insistenti proposte oscene che il cugino del marito le faceva, delle insinuazioni sulla salute, soprattutto sessuale, del marito e del racconto che di tutto questo fece al marito.
A Cosenza invece viene interrogato Vincenzo:
– Avantieri mia moglie mi raccontò delle proposte oscene che mio cugino da circa un mese le faceva. Ieri mattina sono andato a parlare con i miei zii, che mi hanno tranquillizzato, così gli ho detto che non ne avremmo parlato più, ma poi nel pomeriggio è venuto in campagna Francesco e ha cominciato a raccontarmi che mia moglie aveva ricevuto in casa uno sconosciuto e lui la rimproverò e fu per questo che mia moglie, per vendicarsi del rimprovero, inventò la storia delle sue proposte oscene. Io gliel’ho detto che non ci potevo credere, che tutte quelle giustificazioni erano inutili perché la storia dello sconosciuto, invece, dimostrava che le proposte a mia moglie le aveva fatte davvero e che non mi andava proprio bene quella presa in giro, che era una merda per pensare di portare il disonore a me, suo cugino, a mia moglie e a tutta la nostra famiglia, ma lui ha alzato le mani sulla testa come se volesse colpirmi e mi ha chiamato cornuto di merda. Io, ripensando al grave affronto che mi aveva fatto, gli ho sparato con l’intenzione di ucciderlo…
Ahi, questo non avrebbe dovuto dirlo perché si è dato la zappa sui piedi, infatti l’accusa che gli viene contestata è omicidio premeditato e sia il fatto che avesse con sé una pistola illegittimamente detenuta, sia le deposizioni che gli inquirenti raccolgono sembrano andare in questa direzione:
– Nel pomeriggio del 12 maggio – racconta Maria Palermo, cognata della madre di Ida – il Napoli aveva avvicinato la Chiappone, che lo aveva invitato ad andarsene e a non molestarla. Udii che il Napoli, contrariato, le rispose: “va fricate”.
– Nel pomeriggio del 13 maggio Napoli mi pregò più volte di accompagnarlo fino alla propria abitazione temendo del Vincenzo Infusino, che era già consapevole delle proposte oscene ch’egli aveva fatto alla Chiappone perché costei ne lo aveva informato – ricorda Carmine Palermo.
Dall’altro lato, però, c’è la deposizione di Filomena Conforti, che durante l’ultimo, drammatico incontro tra Francesco e Vincenzo vide quest’ultimo gesticolare con le mani come per dire “che mi vai raccontando?”. Il che potrebbe far pensare che se le parole di Francesco fossero state di distensione, forse l’omicidio non sarebbe stato commesso. E poi c’è quella frase, “va piglialu’nculu!”, che assumerebbe significati diversi a seconda da chi dei due la pronunciò. In ogni caso gli inquirenti sono convinti che Vincenzo Infusino premeditò il delitto e con questa accusa ne chiedono e ottengono il rinvio a giudizio. Ad occuparsi del caso sarà la Corte d’Assise di Cosenza il 4 marzo 1946.
La Pubblica Accusa e la parte civile chiedono che l’imputato sia riconosciuto responsabile di omicidio premeditato, mentre la difesa chiede che il reato venga derubricato in omicidio preterintenzionale, asserendo che Infusino sparò i due colpi alla cieca, senza mirare.
La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: stando alla narrativa dei fatti, si opina che Infusino non commise il reato di omicidio con premeditazione e che egli agì per motivo di particolare valore morale e sociale, reagendo in stato d’ira determinato dal fatto ingiusto del Napoli. E spiega: per vero, non è risultato con certezza assoluta che in epoca precedente al delitto sia sorto nell’Infusino il disegno criminoso, che tale disegno sia stato in lui costante, che abbia predisposto i mezzi per eseguirlo e che dopo averlo maturato lo abbia eseguito. Al contrario è irrefragabile che l’azione dell’Infusino riveste il carattere di una rivendicazione del principio di moralità e socialità offeso dal Napoli, giacché questi, per giunta suo cugino, non avrebbe dovuto circuire la moglie di esso Infusino al fine di congiungersi carnalmente, cosa che costituiva, anche di fronte al sentimento del paese di Marano Marchesato, gravissima offesa morale alla sua famiglia, restandone compromessa la reputazione. Dunque, a favore dell’imputato esiste l’attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale e sociale e pure l’altra di avere agito in stato d’ira per il fatto ingiusto della vittima perché è innegabile che il Napoli, prendendo appuntamento con l’Infusino (mentre costui aveva già detto, dopo l’abboccamento coi genitori del Napoli, che del fatto non si sarebbe più discusso), ne provocò l’ira o negandogli che aveva attentato all’onore della moglie o affermandogli, per scagionarsi, che la Chiappone lo accusava avendola egli rimproverata per aver ricevuto un uomo in casa e minacciata di riferirgli ciò. Poi, per rafforzare l’insussistenza della premeditazione, ricorda la deposizione di Filomena Conforti, la quale scorse Napoli che confabulando con Infusino gesticolava con le mani in atto di diniego mentre Infusino muoveva dall’alto in basso le mani giunte in atto di dire “che mi vai raccontando?”.
Per la Corte è da questo gesto che ha origine il momento decisivo, quello che portò alla reazione di Vincenzo Infusino: ad un tratto, ripensando al profondo affronto arrecatogli dal comportamento del Napoli verso la moglie di lui, gli esplose contro, con l’intenzione di ucciderlo, i due colpi di pistola, reagendo, altresì, in stato d’ira determinato dalle inconsistenti proteste d’innocenza del Napoli o dalle affermazioni del medesimo che la moglie, profittando della sua assenza, aveva ricevuto in casa un uomo.
E con questo La Corte afferma la volontà omicida di Vincenzo Infusino, peraltro ammessa da egli stesso nel suo interrogatorio, e aggiunge: l’intenzione di uccidere il Napoli risulta dalla natura dell’arma, dalla breve distanza dalla quale esplose i colpi, dal numero di essi, nonché dalle regioni del corpo della vittima prese di mira.
Di conseguenza la richiesta della difesa di derubricare il reato viene respinta, adducendo come ulteriore motivo che Infusino sparò dopo che Napoli lo avrebbe apostrofato con le parole cornuto di merda, cosa che non è stata affatto provata, ma la Corte, considerando che Napoli aveva narrato sia al padre, sia al testimone Orrico che Ida Chiappone aveva ricevuto un uomo in casa, ritiene che Infusino non ha mentito nell’affermazione che la vittima gli diede del cornuto.
Prima di passare alla determinazione della pena da infliggere a Vincenzo Infusino, la Corte fa un’ultima affermazione: tenuto presente che l’imputato non ha riportato alcuna precedente condanna e avuto riguardo alle circostanze della scarsa capacità di delinquere, dei motivi a delinquere e del carattere del reo, ritiene giusto concedergli anche le attenuanti generiche.
È tutto. Partendo da anni 21 di reclusione, che si diminuiscono di 1/3 per l’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, ossia ad anni 14, che si diminuiscono per l’attenuante della provocazione ad anni 9 e mesi 4, che si diminuiscono di anni 2 e mesi 4 per le attenuanti generiche, la pena da infliggere a Vincenzo Infusino in ordine al delitto di omicidio risulta, in concreto, di anni 7 di reclusione e a mesi 3 di arresti per il porto abusivo di pistola, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.
La Corte di Appello di Catanzaro, il 23 febbraio 1950, condona anni 3 della pena e Vincenzo Infusino torna in libertà.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte di Assise di Cosenza.