Sono le quattro di pomeriggio del 19 giugno 1892 quando Giuseppe Salatino, Vincenzo Scarcella, Serafino Curcio e Michele Salatino si mettono a giocare a tressette nella cantina di Giuseppe Serra a Scalzati, frazione del comune di Casole Bruzio. Dopo aver giocato quattro partite e bevuto insieme mezzo litro di rosso alla fine di ogni partita, quindi mezzo litro ciascuno, danno le carte per la quinta partita. Vincenzo Scarcella, compagno di Michele Salatino, gioca una carta di denari, Scarcella risponde al palo e Michele, che a denari ha una longata, con un’esclamazione di vittoria mette le carte sul tavolo per dimostrare che lui ed il compagno hanno vinto.
– Tu c’ha fattu signu! – protesta Serafino Curcio, cugino carnale di Michele.
– Io non ho fatto segni, né ne sarei capace! – risponde.
– ‘U sapìa, perciò con te non ci volevo giocare, vuoi vincere a forza!
– E spicciala, come la fai lunga! Per una cosa da nulla non la finisci mai! – i toni si alzano pericolosamente dopo la risposta di Michele e Serafino gli butta le carte in faccia dicendo:
– Vai a farti fottere ed a pigliarla in culo tu e quanto sei!
– Non mi ci hai mandato mai a far fottere e mi ci mandi ora? – fa Michele che, da seduto come si trova, tira uno schiaffo al cugino, ma riesce solo a sfiorarlo perché Giuseppe Salatino è pronto a deviargli la mano. A quest’onta Serafino risponde a sua volta con uno schiaffo, ma Giuseppe devia anche la sua mano e non succede niente. Poi tutto sembra calmarsi. Vengono mischiate e distribuite di nuovo le carte e terminata la partita viene ordinato il solito mezzo litro, diviso come sempre tra i quattro giocatori, ma Serafino rifiuta il suo bicchiere, si alza per lasciare il posto ad un altro e si siede per conto suo ad osservare mentre fuma un sigaro. Alla fine della partita tutti si alzano e vanno via.
Michele avanti, più indietro Vincenzo Scarcella, che si ferma per spandere acqua, e ancora più indietro Serafino, col cappello calato sugli occhi sempre più triste e taciturno, si avviano verso il rione di San Pietro dove abitano. Arrivati al largo di San Pietro, Michele, Vincenzo ed altri si fermano a chiacchierare di cose futili, mentre Serafino sale l’erta per la chiesa di San Pietro e si mette a guardare gli altri. Poi arriva Giovanni Vitelli che ha delle piantine in mano ed il gruppo che stava chiacchierando lo ferma per chiedere di cosa si tratti. Serafino abbandona la sua postazione e si avvicina agli altri, cercando di tenersi dalla parte di Michele. All’improvviso gli si avvicina, gli mette la mano sinistra su una spalla per tenerlo fermo e toglie la destra armata di un coltello a serramanico, vibrandogli tre colpi all’addome, poi scappa.
– Madonna mia… pigliatelo! Pigliatelo che Serafino mi ha ammazzato! – urla Michele tenendosi le mani sul ventre.
Vincenzo Scarcella riesce a mettergli le mani addosso per fermarlo e togliergli l’arma, ma nel far ciò rimane ferito ad una mano e molla la presa, lasciando che Serafino scappi verso la campagna, dalla quale sta tornando il giovanotto Leonardo Salatino che, vedendolo correre con il coltello in mano, lo ferma:
– Dove vai, che hai fatto?
– Lasciami, lasciami se no meno pure a te! – lo minaccia sventolandogli il coltello sotto il naso, poi sparisce nelle prime ombre della sera.
Michele viene portato a casa e i medici che lo visitano temono per la sua vita, anche se le ferite non sembrano essere penetranti in cavità ed hanno ragione perché le sue condizioni peggiorano di giorno in giorno e purtroppo il 26 giugno muore per la peritonite settica sopravvenuta in seguito alle ferite.
Le ricerche per arrestare Serafino non danno esito e nemmeno sortisce effetti la pressione delle decine di perquisizioni che giornalmente vengono fatte nelle case di parenti ed amici del feritore, che sembra essersi volatilizzato. Secondo i familiari di Michele Salatino si sarebbe nascosto in Sila ed insistono perché le ricerche si dirigano in quella direzione, ma secondo i paesani starebbe per imbarcarsi clandestinamente per l’America. Un bel grattacapo ed un altro grattacapo è costituito dal movente dell’accoltellamento perché, nonostante sembri del tutto evidente che l’accaduto sia stato originato dalla discussione avvenuta nella cantina durante la partita a tressette, esce fuori che da qualche mese i rapporti tra la famiglia Salatino e la famiglia Curcio siano molto tesi per la casa che Michele aveva cominciato a costruire su di un pezzo di terra vendutogli da Serafino, spingendosi proprio sul confine, e forse oltrepassandolo, tra le proprietà delle due famiglie e che nello stesso giorno del fatto tra Rachele Salatino, la madre di Serafino e zia diretta di Michele, ed un figlio di questi avvenne una discussione per certa acqua che la prima pretendeva che l’altro avesse deviato. In più Rachele, dopo aver dato un forte spintone al ragazzo, avrebbe esclamato: “Oggi deve avvenire qualche disgrazia!”, il che suonerebbe come una preordinazione familiare del delitto per eliminare Michele. Qualcosa potrebbe essere chiarito quando si viene a conoscenza delle non poche preoccupazioni dei paesani che in passato hanno litigato con Serafino Curcio, i quali temono, recandosi in montagna a lavorare, di diventare bersagli della sua possibile furia omicida, timori che sono manifestati da Luigi Mancuso a Fortunato Salatino, cognato dell’omicida e cugino del morto, durante un incontro in casa di Maria Giuseppa Salatino, cugina carnale sia di Michele che di Serafino, mentre si parla dell’omicidio e di dove potrebbe essersi nascosto Curcio:
– Avrei intenzione di andarmene alla Sila per lavorare, ma temo Serafino, siccome si dice che colà si è rifugiato, lo sai che anni addietro ho avuto una quistione con lui per i confini delle nostre rispettive proprietà… e ho pure sentito dalla voce pubblica che lui vuole ammazzare altri dopo Michele – dice Luigi Mancuso a Fortunato Salatino, che risponde:
– Vai pur sicuro alla Sila, ti garentisco io la vita perché scopo di Serafino era di cacellare (ammazzare. Nda) Michele. L’ha fatto e statti bene!
– Dunque l’omicidio fu premeditato?” – gli chiede Maria Giuseppa.
– Premeditatissimo! – le risponde.
Quando dopo qualche giorno Fortunato viene interrogato in proposito, dichiara:
– Sì, ho detto premeditatissimo, ma ciò era un semplice mio apprezzamento personale, fondato sul fatto che parevami impossibile come degli schiaffi soltanto avessero potuto indurre mio cognato a commettere un omicidio in persona di suo cugino Michele, da cui era stato beneficato diverse volte.
– La donna, quando l’abbiamo interrogata, ha detto anche che le avete riferito come Serafino Curcio fosse stato costretto all’omicidio perché inquietato con Michele Salatino, oltre che per la lite in cantina, soprattutto per i confini della proprietà e perché, quando vendette la terra a Salatino, questi gli diede due o tre lire in meno. È così?
– Non ricordo di aver riferito alla Maria Giuseppa Salatino queste cose…
Del fatto che l’accoltellamento non sia dipeso dalla lite in cantina, che c’era una volontà precedente, dipendente dal fatto della casa, sembra non essere convinta Mariantonia Rogato, vedova di Michele, che però offre un’altra chiave di lettura legata alla lite in cantina:
– Non potendo trovare una causa che spiegasse la condotta del Curcio, dissi a mio marito che forse Serafino era rimasto indispettito dal fatto della cantina e perciò aveva agito in quel modo, egli rispose: “no, ciò non è possibile, fu una cosa da nulla, finì tutto subito, si continuò a stare assieme e siamo usciti assieme con Serafino parlandoci e se uno dei due doveva rimanere offeso, quello ero io”. Quando dissi a mio marito perché si era fatto menare così facilmente da Curcio senza opporre nessuna resistenza o difesa, mi rispose: “eravamo tutti assieme e quando meno me lo potevo aspettare, così a tradimento… come un fulmine mi tirò le tre coltellate e scappò. Io e tutti quelli che eravamo lì rimasimo storditi, meravigliati, senza sapere che pensare”. Ed ecco perché anche io mi spiego come Curcio abbia potuto affrontare impunemente mio marito, per il quale ce ne volevano tre o quattro come Curcio per abbatterlo, perché mio marito era un uomo alto, robusto e di valida salute, mentre Curcio è di poca buona salute e poco robusto. Questo Curcio fu quasi cresciuto da me e da mio marito e non potrei mai ridire i benefici fattigli. Ogni bisogno che aveva, fatto grande, si rivolgeva a mio marito, il quale persino lo mandò ai bagni con suo denaro. Sia per questi rapporti e sia perché mio marito avanzava circa venti anni a Curcio, il quale era un ragazzo di fronte a lui, pretendeva un certo rispetto reverenziale. A tutto questo bisogna aggiungere che Curcio veniva cugino a mio marito. Quest’inverno mio marito fece costruire una casa e la mamma di Curcio credette che si era occupata una porzione di terreno suo, però si ricredettero subito e non ci furono né questioni, né parole, né nulla. Ricordo che lungo la brevissima malattia, mio marito disse a Giovanni Scarcella, fratello di Vincenzo: “salutami a don Maceno, così è chiamato Vincenzo Scarcella, è lui che ha colpa alla mia morte!”. Non aggiunse altro e né Giovanni Scarcella né io badammo a chiedere la spiegazione di queste parole. Ora si danno due spiegazioni: una è che si crede che Vincenzo Scarcella abbia aizzato, spinto all’omicidio Curcio, dicendogli tra l’altro: “non sei buono per Michele Salatino, un altro lo ammazzerebbe, ma non tu”, l’altra interpretazione è che si crede che mio marito voleva avvisato o, meglio, prevenuto da Scarcella, il quale necessariamente si era dovuto accorgere dei tristi propositi di Curcio.
Ma il 16 ottobre successivo, dopo quattro mesi dall’omicidio, Mariantonia Rogato si presenta dal Pretore di Spezzano Sila per fare nuove dichiarazioni, perché adesso si è convinta che l’omicidio del marito fu premeditato e che il movente fu la costruzione della casa:
– Avendo sentito dalla voce pubblica avere un tal De Luca Michele, detto Zingarello, portato un’imbasciata a Serafino Curcio nell’inverno scorso per incarico della madre di costui e di avere sentito dalla bocca di costui delle parole di minaccia, per accertarmene mandai a chiamare lo Zingarello. Venne costui ed alla mia presenza, nonché di Tommaso Salatino e di Pasquale Salatino, confermò di avere eseguita l’imbasciata e riportò le seguenti testuali parole espresse da Curcio in quella circostanza: “non voglio perdere una mezza vernata di lavoro, io con la Corte non posso perché son povero e lui è ricco, quando me ne vado, se son rotti i termini, l’ammazzo!”. A questa frase De Luca gli soggiunse che esso Curcio non era uomo per Michele Salatino poiché per la sua forza avrebbe potuto pigliare in braccio entrambi essi, nonché tutti quelli della squadra di operai e gittarli tutti nel fiume Cardone. Mi ricordo anche che lo Zingarello allora uscì in questa frase: “allora penso che tu mi metti come testimonio”, al che io risposi che difatti egli sarebbe stato il primo e lui nelle sue risposte e nel suo contegno dimostravasi dispiaciuto di tal fatto perché affermava di non voler perdere tempo per lavoro –. Poi conferma le accuse contro Vincenzo Scarcella come istigatore di Serafino Curcio.
Tommaso Salatino e Pasquale Curcio confermano il racconto della vedova e aggiungono di sapere che lo Zingarello ha ripetuto le stesse parole anche a Gabriele Salatino, che conferma a sua volta e precisa:
– Nel pagliaio in cui dormivamo a Corigliano, lo Zingarello mi disse che Serafino Curcio pronunciò la seguente frase: “se Michele Salatino fabbrica nella terra mia, forse vuole essere ucciso!”. Dopo che Curcio commise l’omicidio, in presenza di Maria Raffaela Vitelli ed in riferimento a quanto raccolsi dalla bocca dello Zingarello, pronunciai le seguenti parole: “l’ha detto e l’ha fatto!”.
– Conoscete bene Serafino Curcio?
– Lo conobbi a Corigliano nell’inverno passato perché si lavorava alle dipendenze dello stesso padrone ed un giorno lo interrogai su come avesse assestato la vertenza con Michele Salatino. Mi rispose che non si era fatto niente perché quest’ultimo non aveva punto fatto usurpazione in suo danno.
È il momento di interrogare Michele De Luca lo Zingarello, che deve spiegare alcune cose:
– Verso la fine di gennaio di quest’anno fui incaricato con insistenza, e piuttosto vivacemente, dalla madre di Serafino Curcio di riferire a costui come Michele Salatino avesse usurpato parte del loro fondo. Io assicurai la donna di compiere l’imbasciata e, recatomi un giorno a Corigliano, trovato Serafino gli feci l’imbasciata al che costui, alquanto irritato, rispose: “pé mò minne staju a buscarmi il pane, poi se ne parla se rompe il termine!”. Circa un mese dopo, trovandomi a lavorare in compagnia di Serafino, scherzando scherzando, e volendo aver la pruova se lo stesso si irritasse per la questione dei termini col Salatino, gli dissi queste parole: “ora Michela ha scasciatu lu termine…” ed egli, continuando a lavorare, rispose: “lo scasciasse che poi ce la vedremo!”. Avendo io soggiunto che Michele Salatino era più forte di lui, egli replicò: “poi ce la vedremo se mi può o non mi può!”.
– È vero che la vedova di Salatino vi ha chiamato in casa sua per raccontarle quello che avete appena detto?
– Sono stato chiamato dalla vedova di Salatino che voleva sapere quale fosse stata la frase pronunciata da Curcio e se lo stesso, nell’inverno passato, si fosse litigato con qualcuno ed io, in presenza di Pasquale Curcio e di Tommaso Salatino, riportai la frase espressa da Serafino Curcio con queste parole: “rompesse il termine, poi se ne parla, poi ce la vedremo”.
– Avete riferito queste parole a qualcun altro?
– Questa medesima frase replicai a Gabriele Salatino la sera che mi trovai a dormire con lui in un pagliaio.
– In realtà la vedova di Salatino ci ha detto che la frase che le avete riferito era diversa e cioè: “se son rotti i termini, l’ammazzo!”. E anche Gabriele Salatino ci ha riferito una frase simile. Che cosa le avete detto veramente?
– Non è vero! Non dissi a Gabriele Salatino che Curcio voleva ammazzare Michele se avesse rotto il termine!
Tra certezze espresse e “non ricordo” il movente resta incerto, anche se tutto lascia pensare che la lite in cantina sia stata la scintilla che riaccese il risentimento per il confine violato e quindi l’omicidio di impeto, ma resta il macigno della latitanza di Serafino Curcio che, al contrario, depone a favore della premeditazione del delitto. Certo, se si riuscisse ad arrestarlo si potrebbe capire meglio e valutare il movente che lo spinse ad uccidere, ma di lui non si hanno notizie e le voci di un suo espatrio clandestino sono sempre più insistenti, così gli inquirenti devono fare i conti con questa sempre più probabile eventualità. Si potrebbe indagare per capire come si è procurato i soldi e chi gli ha fornito il passaporto, ma nessuno ci pensa e si continua a perquisire case e battere le campagne nella speranza di trovare quello che sembra essere ormai un fantasma. In queste condizioni cosa si può fare se non mettere lo Zingarello a confronto con chi dice di avere ascoltato frasi che lui sostiene di non aver mai pronunciato? Il risultato è che le posizioni di ognuno si cristallizzano e si torna punto e a capo.
In questa situazione, siccome il movente del risentimento per la lite nella cantina appare troppo debole, resta in piedi quello dello sconfinamento nel terreno della famiglia Curcio da parte di Michele Salatino durante la costruzione della casa, ma per esserne certi bisognerebbe ordinare una perizia per stabilire con esattezza i confini, cosa che non viene fatta, probabilmente perché, anche in assenza dell’ufficialità, c’è la certezza che Serafino Curcio è ormai al sicuro oltre oceano.
Serafino non verrà mai trovato.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.