Manca poco alle 19,30 del primo novembre 1935 quando una donna bassina ed esile, con i capelli castani arruffati, si presenta alla caserma dei Carabinieri di San Lucido e chiede di parlare col comandante. Il Maresciallo Capo Giovanni Carini la fa sedere davanti a lui e la invita a dire il motivo della visita. La ventisettenne Adelina Franzese, così si chiama la donna, passandosi una mano sulla gola, dove sono evidenti dei graffi, gli dice:
– Più o meno un’ora e mezza fa, in contrada Acquabianca, in casa mia ho colpito mio marito Antonio Garibaldi con diversi colpi di scure, ma non so se sia rimasto morto… posso solo dire che nel momento in cui mi sono allontanata da casa con i miei tre bambini, ho visto mio marito in piedi sulla soglia della porta…
Carini appunta su un foglio le parole della donna e aggiunge che la dichiarazione è stata fatta cinicamente. Poi le chiede di raccontargli come sono andati i fatti e sul foglio scrive: la malvagia dichiara:
– Sono stata presa prima a schiaffi da mio marito, che poi mi ha afferrato per il collo con l’intenzione di strangolarmi. Sono riuscita a svincolarmi, mi è venuta sotto mano la scure che stava sul baule e ho sferrato, pazzescamente, all’indirizzo di mio marito svariati colpi…
Dopo questa confessione Carini fa chiudere in guardina la prava donna ed insieme al dottor Giuseppe Buscaino va sul luogo del delitto.
Il ferito è adagiato sul letto in una pozza di sangue con la testa fasciata. Il dottor Buscaino rimuove le bende e riscontra ben sei ferite sul capo, prodotte con certezza da una scure: una al parietale destro con frattura della volta cranica che rende visibile la massa cerebrale; una alla regione auricolare destra con asportazione della metà del padiglione; una al vertice del capo interessante l’osso, ma non profonda; una all’occipite con lesione dell’osso; una ferita escoriata all’angolo dell’occhio sinistro; una alla parte posteriore del collo, al di sotto dell’occipite, con lesione di tendini e vasi.
– È molto grave, bisogna portarlo in ospedale – Subito viene ordinato di requisire un’automobile, ma nel frattempo Garibaldi riesce a raccontare la sua versione dei fatti:
– Mentre mi accingevo ad accendere il lume, proditoriamente mia moglie mi sferrò diversi colpi alla testa ed il primo, il più tremendo, al collo mi stordì facendomi stramazzare al suolo, fra un baule ed il tavolino…
– Avete avuto qualche alterco con vostra moglie? Lei ci ha detto che l’avete presa per il collo…
– No, non le ho usato alcuna violenza – poi viene caricato in macchina e portato all’ospedale di Cosenza.
Intanto il Maresciallo Carini prosegue le indagini e trova come testimone Antonio Colonna, il proprietario dello stabile che abita al primo piano, il quale racconta:
– Verso le quattro e mezza ero a casa e vidi Antonio Garibaldi che tornava da Roseto Capo Spulico, dove lavorava. Trovò la porta di casa chiusa e mi chiese se sua moglie mi aveva lasciato la chiave. Io risposi di no e sedette davanti casa. Dopo poco arrivarono la moglie e i figli ed entrarono. La moglie si mise a preparare da mangiare. In questo frattempo io ero sulle scale di casa, quando sentii forti colpi, seguiti dal rumore provocato dalla rottura di un vetro, ma non sentendo grida di soccorso non mi preoccupai, se non che, subito dopo, sentii gridare i bambini e Adelina disse: “Antonio Colonna, vedi che è venuto per ammazzarmi!”. Fu allora che accorsi e appena scese le scale vidi la donna allontanarsi con i bambini, mentre il marito era fuori barcollante e subito dopo cadde riverso a terra. Gli chiesi cosa fosse accaduto e lui mi diede il suo portafoglio – termina consegnando l’oggetto al Maresciallo, che lo ispeziona, rinvenendo 150 lire ed alcune fotografie di giovanotti, ritenuti ganzi di Adelina, che sequestra.
– Quelle in abito militare raffigurano Antonio Lenti, partito sotto le armi il 15 maggio di quest’anno; le altre in abito civile, fotografato con la mia bambina, è Santo Frangella, abitante in contrada San Giovanni – dice Adelina al Maresciallo che le mostra le fotografie.
– E chi sono?
– Antonio Lenti è un nipote di mio marito. Mi aveva mandato la fotografia per darla alla sua fidanzata, ma io non gliela recapitai perché quest’ultima si era trovata un altro innamorato a Paola; Santo Frangella è nella fotografia perché quando portai la mia bambina dal fotografo per farle un ritratto, la piccola non voleva stare ferma e siccome Frangella doveva farsi un ritratto, il fotografo lo pregò di sedere e tenere in braccio la bambina.
– Perché non l’avete tenuta voi che siete la madre?
– Che ero… la bambina è morta. Io non avevo vestiti per farmi il ritratto…
Forse è il caso, prima di continuare ad arzigogolare sulle fotografie, di cercare di ricostruire la dinamica del delitto ed il Pretore di Paola interroga Adelina, che ricostruisce la sua storia:
– Mio marito non mi ha mai amata. Fin dal giorno delle mie malaugurate nozze spesso mi maltrattava, specie con parolacce. Un giorno mi ha percosso e trovandosi presente mia madre, che volle intervenire, percosse anche lei. Dopo la nascita dei primi due nostri figliuoli, senza alcun motivo mi ha sempre ripetuto che non erano figli suoi. Partì per l’America dopo 15 mesi dalle nozze, nel 1927, e ne ritornò dopo quattro anni. Appena giunto all’estero inviò un po’ di moneta e poi, per tre anni consecutivi, più nulla. Tornò all’improvviso pieno di malanimo verso di me a causa delle lettere calunniatrici inviategli dai suoi parenti. Incominciò col domandarmi se durante la sua assenza avessi contratto dei debiti e appena risposi che ne avevo contratto, forzatamente, per circa tremila lire, mi tirò contro due bicchieri. Poi cominciarono le liti ed i maltrattamenti finché trovò lavoro a Roseto Capo Spulico, donde tornava a casa di tanto in tanto, inviandomi a tratti cinquanta lire in seguito alle mie insistenti lettere, cui non ha mai risposto. Intanto io avevo la nostra prima bambina colpita da paralisi infantile all’età di tre mesi, che la tenne paralizzata per nove anni, fino al giorno di Pasqua dell’anno scorso in cui venne a morte. Mio marito mi minacciava di morte ripetendomi che non si affrettava ad uccidermi appunto per non far venir meno alla eventuale figlia la mia assistenza. Finalmente un giorno, dopo la morte della bambina, trovò la scusa che da tempo cercava: una fotografia di un suo nipote, Antonio Lenti, di cui ho già detto. Vide il ritratto ma non mi chiese alcuna spiegazione, altrimenti gliel’avrei data, appunto perché era la scusa che cercava. Ripartì per Roseto senza fiatare, lasciando un suo vestito nero nel baule a cui, qualche giorno dopo, volli far prendere aria al sole. Nel taschino del gilet trovai un preservativo ravvolto in un pezzo di carta; lo presi e lo conservai attendendo il suo prossimo ritorno per dirgli il fatto suo! Ritornò all’improvviso venerdì scorso. Tornavo dall’aver lavorato alla raccolta delle olive e giunta a casa lo trovai seduto avanti la porta; portavo con me un po’ di pesci che avevo avuto da una mia comare. Egli non disse nulla, non baciò i bambini, non mi rivolse la parola. Pensai allora al preservativo e ad una ragazza di Roseto, tale Antonietta, di cui egli spesso aveva vantato con me i suoi sensi fisici, confrontandoli con la miseria delle mie carni. Entrai in casa, mi accinsi a friggere i pesci e poi ad accendere il lume. Allora egli parlò: “Sono venuto per ammazzarti”. Me lo aveva detto tante volte e adesso non aveva portato nemmeno la valigia. Tenevo in mano il fiammifero e con l’altra il tubo del lume allorché egli mi diede il primo schiaffo. Volli protestare ma egli mi tirò un secondo schiaffo ed un calcio alla gamba, afferrandomi subito per la gola e gettandomi attraverso un baule, dicendomi: “Devo ammazzarti con le mani, senza armi!”. Cercai di liberare la mia gola afferrandogli le mani, ma non vi riuscii, mentre egli intensificava la stretta. Fu allora che, istintivamente, brancolando mi venne in mano la scure che stava sul baule.
– Come mai la scure stava sul baule? – la interrompe il Pretore.
– Forse vi era rimasta prima di uscire di casa, forse ve l’avevano messa i ragazzi…
– O forse l’avevate messa lì apposta per ammazzare vostro marito quando sarebbe ritornato a casa! – tuona il Pretore.
– No! Come potevo io prevedere il suo ritorno? Come potevo prevedere le sue intenzioni? E poi quando sono arrivata a casa sono entrata con mio marito, senza più tornare fuori!
– Vedremo… vedremo… Adesso continuate.
– Presi l’accetta e ne tirai un colpo all’impazzata contro il forsennato che voleva strangolarmi. Lo vidi cadere tra il baule ed il tavolo, ma non mi lasciò, trascinandomi seco nella caduta, sempre avvinghiato alle mie braccia e facendomi cadere sopra di lui; mi sollevai un po’, liberai il braccio armato della scure e continuai a menare colpi alla cieca, fintantoché mi liberai da lui. Pensavo che non mi avrebbe lasciato mai se prima non avesse sentito veramente male e così avvenne. Ciò malgrado si rialzò e venne fino alla porta, ma io, gridando e piangendo, buttata l’arma, afferrai i miei due figli più piccoli e seguita dal più grandicello mi allontanai, dirigendomi dai Carabinieri – poi si interrompe, tira su col naso, si passa le mani sul viso e aggiunge – mio marito mi diceva sempre che mi avrebbe uccisa e che poi sarebbe andato via coi bambini maschi, dato che la femmina, a suo dire, non gli apparteneva. Pensavo che mi avrebbe ammazzata di notte e quando era a casa di notte non sono mai riuscita a prendere sonno, sempre ossessionata dal pensiero di essere trucidata nel sonno.
Le crederanno? I Carabinieri, il Pretore ed il Pubblico Ministero no, soprattutto quando Antonio migliora ed è in grado di raccontare la sua versione in modo più particolareggiato e in modo totalmente opposto alla versione di Adelina:
– Sono sposato dal 1926 e mia moglie, ch’è dedita ai facili amori, mi tradiva da tempo. Tre o quattro anni fa appresi della sua infedeltà coniugale e da allora i nostri rapporti divennero freddi perché, pur non avendo avuto nessun litigio a causa del suo comportamento, io sentivo di non poterle portare amore e mi sono spiritualmente allontanato da lei. Dal 1933 dimoravo a Roseto Capo Spulico per ragioni di lavoro ed usavo ritornare in famiglia ogni tre o quattro mesi. Fu durante la mia assenza che mia moglie, per rapporti illeciti avuti con altre persone, restò incinta e partorì nel luglio 1934 una bambina di cui io, naturalmente a ragione della mia assenza all’epoca del concepimento, non posso essere il padre. Aggiungo che durante le visite che ho fatto negli ultimi tempi a San Lucido, ho avuto occasione di notare che la bambina era tenuta in braccio da un uomo, che non so se sia il padre. Trentacinque giorni fa tornai, come di consueto, da Roseto a San Lucido e con mia sorpresa rinvenni, celate in un paio di mutande di mia moglie, le fotografie di tre giovanotti, che non conoscevo, e dei preservativi. Senza dirle nulla asportai dalla sua biancheria le fotografie e i preservativi e partii dopo avere mostrato le fotografie a due mie sorelle per sapere se conoscevano quei giovanotti. Ritornai a San Lucido ieri alle quattro pomeridiane e mia moglie, vedendomi, mi accolse con queste parole: “Mi avevano detto che non saresti tornato più e adesso ti presenti di nuovo?”. Io le chiesi chi glielo avesse detto e mi rispose che erano stati i miei familiari. Poi le dissi che ero tornato perché avevo da sbrigare, come di consueto, alcune faccende e, senza aggiungere rimproveri, troncai il discorso. Verso l’imbrunire, mentre accendevo il lume, senza apparenti ragioni, mia moglie, che evidentemente pensava le fosse comodo disfarsi di me, mi ha aggredito d’improvviso e mi ha ferito con un formidabile colpo di scure nella regione occipitale. Sono caduto semi svenuto e mia moglie, dominata dalla sua furia sanguinaria, mi ha inferto altri colpi con l’arma, vibrati confusamente nella penombra che regnava nella stanza. Ho sentito distintamente che ella, dopo avermi inferto il primo colpo in seguito al quale mi sono accasciato, ha gridato ad arte invocando la presenza del vicino Antonio Colonna, dicendo che io ero ritornato con l’intenzione di ucciderla. Colonna accorse immediatamente ed è stato quello che mi ha apprestato le prime cure.
– Secondo voi ha agito da sola o qualcuno può averla istigata?
– Non so se nella determinazione omicida di mia moglie fossero concorse altre persone. Certo ella, per il suo carattere è capacissima di aver agito seguendo il suo impulso malvagio.
A parte la ricostruzione del fatto completamente diversa, balza agli occhi una circostanza: secondo Adelina la bambina sarebbe la prima nata dei figli, quindi verso la fine del 1926, e morta nel 1934, cosa confermata dalla fotografia sequestrata, ma secondo Antonio invece sarebbe nata proprio nel 1934 e ciò è impossibile. Nessuno, però, ci bada e l’attenzione si focalizza sui presunti amanti di Adelina, convocati per deporre. Antonio Lenti è in Africa Orientale e non può essere sentito. Santo Frangella dice:
– Nego di essere stato l’amante di Adelina Franzese.
– Come mai avete fatto una fotografia con la figlia dell’imputata?
– Tale fotografia fu occasionata dal seguente fatto: io mi trovavo dal fotografo in San Lucido per fatti miei, quando arrivò Adelina Franzese con la bambina che doveva fotografarsi. Poiché la bambina non stava ferma, Adelina mi pregò di mantenerla. La bambina si muoveva ancora e il fotografo mi pregò di sedere e tenere in braccio la bambina.
Poi vengono sentiti i familiari di Antonio Garibaldi, i quali dimostrano di non sapere quasi niente dei rapporti tra il loro congiunto e la moglie né, tantomeno, sanno per conoscenza diretta come i svolsero i fatti. Solo il fratello Gennaro racconta dei particolari che potrebbero essere interessanti:
– Prima di partire per l’America, mio fratello mi incaricò di sorvegliare la condotta della moglie ed io l’ho avvertita di non frequentare alcuna casa e specialmente la casa di mio cognato Silvestro Lento, il padre di Antonio. Adelina non mi stava a sentire e si recava spesso a lavorare e a mangiare nella casa di Lento, ma non ho mai notato o sospettato che mia cognata Adelina abbia avuto rapporti carnali con chicchessia. Dopo che mio fratello trovò le fotografie, prima di partire per Roseto mi disse: Non so se ci vedremo più perché io non tornerò più a San Lucido”.
Certamente ci furono dei testimoni oculari: i bambini. Così, per cercare di avere una descrizione più imparziale, il 14 dicembre viene sentito il bambino più grande della coppia, 8 anni, che racconta:
– Mia madre mangiava e mio padre, che non aveva voluto mangiare, era seduto ad una sedia, quando io mi recai alla fontana a riempire un orciuolo. Mentre mi avviavo, da fuori notai che mio padre afferrò per il collo mia madre. Mia madre disse: “Tu sei venuto per ammazzarmi?” e prese la scure che si trovava sul portabracere e con questa colpì per ben sei volte mio padre. Io mi recai a prendere l’acqua…
– Sei sicuro che andò così? – il bambino ci pensa un po’ e poi dice:
– Spiego che io notai tali fatti dopo che tornai dalla fontana ove mi ero recato per attingere l’acqua.
No, il Pretore non è convinto della sincerità del bambino. Potrebbe essere stato istruito dai parenti della madre. Verrà ascoltato più in là. E il momento arriva dopo altri quattro mesi e mezzo, il 25 aprile 1936, quando il bambino è tornato a vivere con il padre, nel frattempo dimesso dall’ospedale.
– Rincasando trovai mio padre seduto avanti la porta. Mia madre gli preparava la cena. Dopo cena mia madre disse a mio padre “Com’è che sei venuto? Tu dicevi che non saresti più venuto”. Mio padre rispose: “Sono venuto a cacciare certe carte”. Detto questo prese il lume e disse “C’è olio al lume?”. Mia madre andò dietro mio padre ed aveva una scure fra le mani. Io uscii fuori e non vidi altro. Sentii poi mio padre mormorare… mia madre prese me e mio fratello e tutti e tre abbandonammo la casa.
A questo punto il Pretore gli chiede in cosa consistevano i mormorii e il bambino indica i suoni emessi dal padre con una specie di grugnito.
Ecco, ora va bene, è la prova, secondo i Carabinieri ed il Pretore, che Adelina premeditò il delitto e per questo reato ne viene chiesto il rinvio a giudizio.
Il Giudice Istruttore, chiamato a decidere sul rinvio a giudizio, il 16 giugno 1936, scrive:
Le dichiarazioni contrastanti dell’imputata e della parte lesa non permettono una fedele ricostruzione del fatto, onde la ipotesi del delitto commesso dalla Franzese deve essere inquadrato fra le poche risultanze emerse nel periodo istruttorio. Contro la Franzese è stato originariamente rubricato il delitto di tentato omicidio premeditato, ma si osserva che nel caso non può ravvisarsi il tentativo di omicidio e nemmeno la premeditazione. In ordine alla premeditazione si osserva che Antonio Garibaldi quel giorno fece ritorno a casa sua improvvisamente, senza che fosse atteso da qualcuno e menomamente dalla moglie, la quale ben sapeva che il marito, nel partire da casa qualche mese prima, aveva manifestato il proposito di non voler più fare ritorno in famiglia a causa della di lei infedeltà. Tale improvviso ritorno destò non poca meraviglia nella donna, che non contava più di rivedere il marito e pertanto non è verosimile che lei avesse in precedenza concepito il disegno di sopprimerlo e ne avesse preordinato i mezzi proprio per quel pomeriggio. Comunque, dalle linee del processo non è emersa alcuna circostanza che autorizzi a ritenere che la Franzese coltivasse in precedenza un così insano proposito e ne avesse predisposto i mezzi per l’esecuzione. Si osserva che se la Franzese fosse stata animata da volontà omicida non si sarebbe allontanata senza portare a compimento il criminoso disegno ed ai ripetuti colpi di scure ne avrebbe aggiunti altri fino ad opera compiuta. Infatti dichiarò subito ai Carabinieri che non sapeva se il marito era rimasto morto, ma che, nell’allontanarsi, lo aveva visto in piedi sulla soglia della casa. Non è verosimile, poi, quanto assume Antonio Garibaldi che, cioè, la moglie lo aggredì improvvisamente facendolo stramazzare quasi svenuto con un primo, fortissimo colpo di scure all’occipite ed invocando ad arte la presenza del vicino Colonna. Una ferita di scure che interessa il tavolato osseo della regione occipitale non è una carezza; essa induce tale stordimento da non potere assolutamente percepire quanto avviene intorno. Egli, quindi, non può, se pure è in buona fede, precisare che la moglie, nell’assestargli il primo fortissimo colpo, abbia artatamente invocato l’intervento del vicino, né può dirsi che lei abbia ciò fatto per precostituirsi un mezzo di difesa perché ripugna pensare come una donna, sia pure di pessimi costumi ma di buoni precedenti penali, possa avere tanto cinismo e tanto sangue freddo da simulare proprio nel momento in cui, invasa da furia omicida, colpisce reiteratamente il proprio marito. Deve ritenersi, piuttosto, che fra i due coniugi sia scoppiato prima un alterco, e ben ve ne erano i motivi, poi che siano passati a vie di fatto e che la Franzese, forse per difendersi, si sia armata di scure e abbia colpito ripetutamente il marito.
La conseguenza di questo ragionamento è che Adelina Franzese, modificato il titolo del reato, viene rinviata al giudizio del Tribunale di Cosenza per rispondere di lesioni guarite in giorni 144 in persona del marito con l’aggravante dell’arma e dei vincoli di parentela.
La causa si discute il 17 agosto 1936 e il Collegio Giudicante non ha il minimo dubbio: le affermazioni dell’imputata, che si atteggia a vittima ed al Pretore di Paola fa una lunga storia di sofferenza e di patimenti, sono smentite da quanto i Carabinieri hanno accertato in ordine alla condotta di lei per bocca degli stessi familiari del marito e sono smentite oggettivamente dal fatto incontroverso che il marito trovò le fotografie di due giovani in un baule della moglie ed uno dei due giovani ha in braccio l’ultima figlia di lui. Le spiegazioni dell’imputata non convincono. Ciò che è avvenuto il primo novembre fra i due non è dato sapere con assoluta certezza, ma il Tribunale osserva che è verosimile l’assunto di Antonio Garibaldi, il quale dichiara di essere stato ferito d’improvviso nella regione posteriore del collo perché, data la gravità delle ferite riportate, immediatamente interrogato dai Carabinieri non era in grado di conoscere la ubicazione precisa delle singole lesioni, che già di per sé avvalora il racconto del leso, ma soprattutto non era in condizione di predisporre delle risposte artificiose, intese a deformare la verità dei fatti. Se una lite vi fu, è a presumere che la prima ad aggredire fu la Franzese, impulsiva e violenta per natura, e non il marito, che ha temperamento remissivo e tranquillo. L’interpretazione logica dei fatti sta ad escludere l’attendibilità della versione dell’imputata, che non è nemmeno confortata da prove.
Esattamente il contrario rispetto alle conclusioni del Giudice Istruttore.
Accertata la responsabilità dell’imputata, il Collegio condanna Adelina Franzese ad anni 4 e mesi 1 di reclusione, oltre alle spese e alle pene accessorie.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.