È il 9 dicembre 1948 ed è quasi buio quando Antonio Riccio, visibilmente turbato, bussa alla porta del posto fisso dei Carabinieri di Terranova da Sibari e chiede di parlare con il comandante. Il Vice Brigadiere Luigi Scerbo lo accoglie nel suo ufficio e l’uomo, passandosi nervosamente le mani sulle cosce, gli dice:
– In località Gabella di questo comune il guardiano del signor Filippo Feraudo ha ammazzato Giuseppe Esposito.
Scerbo fa preparare immediatamente i suoi uomini ed in meno di un’ora sono sul posto. Disteso al suolo trovano il cadavere, accanto al quale stanno alcuni parenti in profondo raccoglimento. Dai primi accertamenti sembrerebbe che verso le due di pomeriggio, mentre Giuseppe Esposito era intento a raccogliere della legna secca nel canale che divide la proprietà di Feraudo da quelle di altri proprietari, era stato sorpreso dal guardiano e ucciso con un colpo di fucile all’addome. La prima cosa da fare è andare a casa del guardiano Angelo Sposato per arrestarlo, ma a casa non c’è ed il figlio quindicenne dice a Scerbo che verso le cinque il padre, accompagnato da lui stesso, si è costituito nella caserma di Spezzano Albanese. In questo frattempo viene perquisita l’abitazione e vengono sequestrati un fucile e sei cartucce.
Il mattino dopo, Scerbo ed un Carabiniere vanno dai colleghi di Spezzano Albanese per tradurre l’omicida a Terranova e vengono informati dai colleghi che Sposato ha dichiarato che il colpo è partito accidentalmente durante una colluttazione con la vittima. Poi Scerbo va ad avvisare il Pretore, che va subito con lui sul luogo del delitto, accompagnati dal medico legale, e con la luce del giorno si possono osservare sia lo stato dei luoghi che le condizioni del cadavere, che giace supino con gli occhi aperti, le braccia distese e aderenti al corpo e la testa, leggermente reclinata verso sinistra e cosparsa di sangue raggrumito, è posta, a guisa di cuscino, sopra un berretto di colore grigio a righe nere. Indosso ha una camicia di colore bigio, rattoppata più volte sull’omero sinistro, sopra la quale veste un gilé di colore azzurro a sei bottoni e ha i pantaloni color kaki fermati con una cinghia di cuoio con fibia di metallo e scarpe alte da contadino con calze di lana. Sul lato sinistro della fronte c’è una ferita, lievemente semicircolare, lunga un paio di centimetri. Nella regione mesogastrica di sinistra appare una ferita dell’intestino da cui fuoriesce materiale fecale. Attorno al foro un alone di colore nerastro, accentuato specialmente nel lato inferiore. Tenuto conto della mancanza di bruciature sul foro di entrata del vestito e delle macchie nerastre a breve distanza dal foro stesso, macchie dipendenti dalla polvere da sparo, posso affermare che il colpo è stato sparato a breve distanza, che si può valutare a circa un metro, conclude il medico.
A circa un metro dal cadavere c’è una piccola scure con la lama sporca di fango, mentre ad una trentina di metri, fra i cespugli, c’è un bastone lungo circa due metri e ad un centinaio di metri, nella proprietà di Pietro Piraino, c’è un asino legato al ramo di un albero, accanto al quale è accatastato un fascio di legna secca, mentre altri rami sembrano disordinatamente raccolti.
– Io c’ero! Io ho visto tutto! – esclama Francesco Esposito, il fratello della vittima.
– E come è andato il fatto? Racconta! – gli fa il Pretore.
– Ieri, mentre ero intento a pascolare i buoi al di là del canale che divide la proprietà di Feraudo da altre, mio fratello stava facendo della legna secca tra la proprietà di Pietro Piraino e quella di Feraudo. Come giunse il guardiano, mio fratello uscì dal canale dirigendosi nel fondo di Feraudo, dove venne ucciso dal guardiano con un colpo di fucile alla distanza di una decina di metri.
– Ma c’è stata una discussione, una colluttazione?
– Non vi fu nessuna colluttazione.
– E come si spiega la ferita alla fronte? Avete rimosso il cadavere?
– Nessuno lo ha toccato e nessuno lo ha rimosso!
– Racconta per bene come sono andati i fatti.
– Mio fratello Giuseppe stava a fare frasche nel canalone e io stavo a una quarantina di metri nella proprietà di Piraino a fare pascolare una vacca ed un vitello. Ad un certo momento vidi uscire dal canalone mio fratello, che evidentemente aveva sentito avvicinarsi Sposato. Questi, infatti, stava a circa dieci metri dal canalone e senza dire una parola tirò contro mio fratello un colpo col fucile di cui era armato. Nego nel modo più assoluto che fra Sposato e mio fratello vi sia stata una colluttazione.
– Prima di sparare, Sposato ha detto qualcosa?
– Sposato non ebbe a dire alcuna parola a mio fratello.
Tornati a Terranova, il Pretore interroga Angelo Sposato, che racconta la sua versione dei fatti:
– Sono guardiano di Feraudo Filippo di Acri e come tale vigilo che i fondi di costui non vengano danneggiati da altri. Ieri, verso le due dopo mangiato, uscii di casa armato di fucile al fine di andare a caccia. Mentre giravo per il fondo mi accorsi che nella zona detta Gabella, e precisamente vicino ai cespugli ed al canale che dividono le proprietà di Feraudo e di Piraino, stavano pascolando alcuni buoi. Mi avvicinai per accertarmi a chi appartenessero e, giunto vicino ai buoi, sentii una voce proveniente dai cespugli che diceva “Ohè, dove vai?”. Mi voltai e vidi che era sbucato dai cespugli Giuseppe Esposito con in mano una piccola scure e gli dissi “Ti ha forse fittato il fondo il mio padrone Feraudo?”, ma Esposito non rispose. Mi avvicinai ai buoi facendo atto di trattenerli nel fondo in cui ci trovavamo al fine di procurarmi una prova per il pascolo avvenuto. Ad un tratto il fratello dell’Esposito a nome Francesco, che lì si trovava presente, cercò di mettere in fuga i buoi. Intervenne Giuseppe, sempre armato di scure, e giunto vicino a me, alzando il braccio destro fece l’atto di colpirmi. Per evitare il colpo afferrai la scure con la mano sinistra e con la destra cercai di trattenere per il petto l’Esposito. Venimmo così a colluttazione. Così facendo, il fucile che era sulla mia spalla destra scivolò lungo il mio braccio e colpì con la canna la testa di Esposito a poca distanza dal sopracciglio, provocando una fuoriuscita di sangue. Esposito, allora, afferrò la canna del fucile e cercava di tirarlo a sé, senza badare che così facendo lo premeva sulla parte sinistra del basso ventre. Io trattenni il fucile dall’impugnatura onde non farmelo togliere, senonché, per il movimento che si venne a determinare tra me che cercavo di trattenere il fucile e l’altro di togliermelo, io, nel timore che il fucile potesse esplodere, mi misi a gridare rivolto all’Esposito di non continuare a scuotere il fucile perché lo avrebbe potuto colpire, ma proprio in quel mentre il fucile esplose e colpì Esposito nella parte del basso ventre, su cui la canna era tenuta premuta. Esposito, ricevuto il colpo, si accasciò sul terreno, prima seduto e poi disteso supino. Per la caduta, il berretto che Esposito aveva sul capo cadde a terra vicino ai piedi del ferito. A tutta la scena assistette Francesco Esposito il quale, avendo visto il fratello cadere per terra, si mise a piangere e poi prese il berretto e lo pose vicino alla testa di lui, ma non so se sotto la testa, quindi menò fuori gli animali ed andò via. Preciso che durante la colluttazione Giuseppe Esposito disse al fratello di picchiarmi con un bastone, cosa che fece, picchiandomi sulle spalle. Io mi diressi verso casa e lungo il tragitto incontrai Vincenzo Oliva al quale raccontai l’accaduto, rammaricandomi della disgrazia e lo invitai ad andare insieme a me sul posto al fine di poter testimoniare sulla posizione del cadavere. Avvicinatici a circa trenta metri dal cadavere, vedemmo ch’erano giunti sul posto due fratelli del morto, che gridavano a testimoni, al che intervennero due persone, le quali dissero di non aver visto nulla, ma di aver sentito soltanto il colpo di fucile, cosa che pure Oliva ha sentito. Dopo aver fatto constatare ad Oliva la disgrazia, facemmo insieme il ritorno verso casa e a metà strada Oliva restò nel posto in cui stavano pascolando i suoi agnelli, mentre io, giunto a casa, depositai il fucile e mi diressi a Spezzano insieme a mio figlio per costituirmi. Prima di recarmi dai Carabinieri passai dall’avvocato Luigi Cucci che, trascorsi circa dieci minuti, mi accompagnò dai Carabinieri.
No, c’è almeno una circostanza che non quadra nel racconto di Sposato: il colpo non è stato esploso accidentalmente con le canne poggiate sul basso ventre di Esposito, lo dice il perito nella prima osservazione del cadavere e lo conferma l’autopsia, quindi Sposato cerca di nascondere qualcosa che potrebbe aggravare la sua posizione. Ma non convince nemmeno il racconto dell’adolescente Francesco Esposito, che ha dichiarato di avere visto Sposato sparare da una distanza di una decina di metri e viene interrogato di nuovo per spiegare l’incongruenza:
– Insisto nel dire che Sposato stava a circa dieci metri. Questa è la sincera verità, io non dico bugie. Aggiungo che quando Sposato vide mio fratello nel canalone gli chiese cosa stesse facendo e mio fratello rispose che stava facendo un po’ di frasche secche. Sposato gli disse “Ora ti sparo” e mio fratello replicò dicendo “E che sono fatto, un uccello?”. Subito dopo Sposato sparò. Questa è la santa verità e sempre questa dirò.
– E perché prima hai detto che tra i due non ci fu uno scambio di parole?
– Forse lo avevo dimenticato…
Anche Angelo Sposato, nuovamente interrogato per spiegare il “particolare” del colpo di fucile, dice di aver dimenticato di riferire qualcosa nel primo interrogatorio:
– Avevo dimenticato di dire che quando i due fratelli Esposito si avvicinarono, io tolsi il fucile e lo puntai contro di loro dicendo “Allargatevi!”.
Dalle indagini che il Vice Brigadiere Scerbo continua a praticare per accertare come veramente andarono i fatti, emerge da numerose testimonianze un lato oscuro del carattere di Angelo Sposato: rigido nel proprio servizio e prepotente. “Circa due anni fa, solo per aver attraversato un sentiero di proprietà di Feraudo, venni minacciato col fucile spianato da Sposato. È un tipo violento e dai modi inurbani”, racconta Raffaele Donadio. “Molti anni or sono, recatomi con mia moglie a bere dell’acqua in una fontana sita nella proprietà di Feraudo, sopraggiunto il guardiano Sposato, mi spianò il fucile al petto e mi intimò di andarcene, nonostante mia moglie fosse incinta e avesse sete”, ricorda Giuseppe Pisana. “Ebbi una colluttazione con Sposato, che mi minacciò” dice Luigi Oliva. “Fui minacciato col fucile spianato, è un tipo violento”, sostiene Adolfo Patitucci.
A questo punto deve accadere qualcosa al di fuori dell’ambito investigativo, magari un intervento “informale” di qualcuno con aderenze nelle stanze del Ministero della Giustizia, perché agli atti c’è una nota dell’Ufficio III A.P., Prot. 8.2/94/49 in risposta al foglio del 3.1.49, attribuibile direttamente al Ministro Giuseppe Grassi (firmata con la dicitura “D’Ordine del Ministro”) datata 24 giugno 1949, indirizzata al Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Catanzaro, protocollata il primo luglio 1949 col numero 3269, con oggetto SPOSATO Angelo, che recita:
Si è presa conoscenza di quanto è stato riferito col rapporto suindicato relativamente al procedimento penale di cui all’oggetto.
Appena in grado, si prega di fornire ulteriori notizie sullo svolgimento del processo e di comunicarne, a suo tempo, l’esito.
D’Ordine del Ministro (firma illeggibile)
A margine figura un appunto non firmato:
A 1/7/49 chiesto rapporto in duplice esemplare e, a suo tempo, esito processo.
Il 15 luglio successivo la Procura invia la relazione richiesta, nella quale ribadisce gli esiti delle indagini e di questa parte oscura del processo non si hanno più notizie.
Intanto Scerbo continua le indagini ed è sicuro che tra Giuseppe Esposito e Angelo Sposato non vi fu alcuna colluttazione per una semplice e logica constatazione, mettendo tutto nero su bianco: il cadavere fu rinvenuto disteso supino con gli indumenti aderenti al corpo, senza nessuna manomissione o strappo, circostanza che dimostra e testimonia da sola l’inesistenza della colluttazione, mentre se fosse avvenuta, la camicia del morto (in modo speciale) più volte e in più parti rattoppata, avrebbe dovuta essere strappata nelle maniche o al collo; nessuna scalfitura si rinvenne nelle mani o nel viso dell’omicida, come nessun indumento di quest’ultimo era strappato. Se Sposato, quando si diresse per portarsi nella località Gabella, effettivamente aveva in animo di richiamare l’Esposito per la legna tagliata e per il pascolo in loco avvenuto, prima di ogni cosa avrebbe dovuto abbassare i grilletti del suo fucile per evitare disgrazie. Sposato è un violento e dai modi inurbani, pronto ad imbracciare l’arma per minacciare e offendere senza giustificato motivo. Certamente ha potuto richiamare Esposito, ma certamente con modi e con tatto poco urbani atti a provocare un giusto risentimento nell’Esposito, da indurlo a difendersi con parole, adirando maggiormente l’animo di Sposato, già per istinto portato all’offesa, sparando con freddo proposito nella persona di Esposito Giuseppe. A tal punto riteniamo utile fare presente che una eventuale ipotesi di legittima difesa che l’omicida potrebbe avanzare non sarebbe, a nostro modesto giudizio, da prendere in considerazione in quanto in simili casi la difesa deve essere paragonata all’offesa. Poi, per rafforzare il suo convincimento, elenca i precedenti penali dell’imputato per lesioni volontarie e minaccia a mano armata e le denunce che nel corso del tempo Sposato aveva fatto nei confronti della famiglia Esposito.
La Procura sposa la tesi del Vice Brigadiere Scerbo e chiede il rinvio a giudizio dell’imputato per rispondere di omicidio volontario, suscitando la reazione della difesa che protesta vivacemente: Anzitutto, bisogna far presente che i verbalizzanti prima ed il Procuratore Generale poi, hanno voluto soffermarsi (certo in mancanza di argomenti a sostegno della loro tesi) sulla personalità dello Sposato, nel tentativo – riuscito vano! – di dimostrarne il carattere violento e prepotente. Ed hanno citato, per quella che a loro giudizio dovrebbe essere la logica premessa del delitto, episodi specifici che, esattamente interpretati, vengono invece a dimostrarci che Sposato, il quale fin dal 1922 aveva scrupolosamente vigilato sulle proprietà del signor Feraudo, è stato sempre paziente e riflessivo con tutti. Una colluttazione dovette esserci fra i due, secondo l’assunto dell’imputato, ma non si trattò di una colluttazione lunga e violenta: solo in questo caso i Carabinieri avrebbero potuto riscontrare, così come avrebbero voluto, sul cadavere del povero Esposito, i segni della lotta. Fu cosa di pochi istanti: l’Esposito avanzò con la scure in mano per colpire; lo Sposato cercò di evitare il colpo afferrando la scure per il manico mentre, contemporaneamente, l’Esposito afferrò il fucile dello Sposato per la canna. Nei momenti incomposti partì accidentalmente un colpo dal fucile in posizione di sparo che attinse Esposito, uccidendolo. Il Procuratore Generale, pur ammettendo tante cose, ha voluto concludere con una richiesta in pieno contrasto con tutte le risultanze processuali.
Ma la protesta della difesa non sortisce effetti perché la Sezione Istruttoria della Corte d’Appello di Catanzaro, il 17 dicembre 1949 accoglie la richiesta della Procura e rinvia Angelo Sposato al giudizio della Corte d’Assise di Castrovillari per rispondere di omicidio volontario.
La causa si discute l’11 maggio 1950 ed il giorno dopo la Corte emette la sentenza che riconosce Angelo Sposato colpevole del delitto ascrittogli e lo condanna, dopo avergli concesso le attenuanti generiche e quella dello stato d’ira per fatto ingiusto della vittima, ad anni 9 e mesi 4 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie. Nello stesso tempo, applicando il D.P. 23 dicembre 1949, N. 930, dichiara condonati anni 3 della pena.
Per discutere l’appello presentato dalla difesa ci vorrà il 17 aprile 1952 in quanto per un errore formale la causa è stata assegnata alla Corte d’Appello di Reggio Calabria anziché a quella di Catanzaro che, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riconosce a Sposato anche l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale e riduce la condanna ad anni 7 di reclusione, restando sempre fermi i tre anni condonati, e la pena definitiva resta così fissata in anni 4. Ciò significa che ad Angelo Sposato restano ancora da scontare poco meno di otto mesi di reclusione.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.