IL PADRE IMMORALE

Teodoro Manfredi, contadino di Laino Borgo, dopo aver maritato le prime due figlie e fatto donazione di una proprietà al figlio Francesco dopo il suo matrimonio, è rimasto con la moglie Domenica Laino e le tre figlie minori, ancora in attesa di un buon partito. Sembrerebbe tutto perfetto, se non fosse che Teodoro è poco attaccato ai doveri coniugali e poco curante del decoro e della moralità della famiglia. Si ubriaca in cantina come tanti altri? No, Teodoro si è fatto una seconda famiglia con Rosina, donna di facili costumi, dalla quale ha avuto due figli, dei quali uno è purtroppo morto. Uno scandalo non da poco, specialmente in una piccola comunità. Ma forse la cosa che desta ancora più scandalo è che Teodoro dimostra grande affetto per il superstite figlio illegittimo, tanto che diverse volte ha manifestato il proposito di provvedere all’avvenire di lui, assegnando a lui o a Rosina una quota di terreno, ovvero facendo loro una donazione in denaro e nel frattempo la sostiene con continue donazioni di denaro o di derrate alimentari (grano, olio eccetera), sicché Rosina gli si presenta frequentemente in casa e si trova ad avere a che fare con la moglie e con le figlie di lui. Ovviamente la moglie e le figlie di Teodoro mal sopportano le visite di Rosina e non mancano di manifestargli in ogni occasione il loro risentimento, provocando frequenti liti e scenate, con Teodoro che, mosso dal suo temperamento prepotente e impulsivo, esige ad ogni costo che Rosina sia ricevuta in tutta regola e trattata come donna onesta. Altrettanto ovviamente liti e scenate si concludono con una robusta razione di botte per moglie e figlie, che sentono aumentare di giorno in giorno il proprio risentimento nei suoi confronti e accrescono il disordine della famiglia.

A questa brutta situazione non può restare estraneo il figlio Francesco, che viene informato dalla madre e dalle sorelle dei maltrattamenti quasi quotidiani subiti da parte del padre.

Arrivate ad un certo punto, però, Domenica e le sue figlie, convinte dell’impossibilità di continuare in un sistema di vita pesante e pericoloso, si rassegnano, almeno in apparenza, a tollerare la presenza in casa di Rosina, essendo questo l’unico mezzo per evitare le botte, ma in segreto covano il loro odio nei confronti di Teodoro e di questo ne rendono partecipe Francesco che, da parte sua, è anche preoccupato per il proposito del padre di provvedere all’avvenire del figlio adulterino.

In queste condizioni si arriva al 21 settembre 1932. Domenica Laino ha necessità di parlare col figlio Francesco per raccontargli le ultime fasi del dissidio col marito e dopo aver cercato invano di convincere un ragazzino ad andare a chiamarlo, approfitta della visita inaspettata del genero Teodoro Rimola e manda lui dal figlio con la scusa di dovergli parlare di alcuni lavori da fare.

– Tua madre vuole parlarti della pulizia di una vasca, dice che è urgente e che devi andare subito.

– Non posso lavorare a causa di alcuni foruncoli che mi fanno soffrire, ma vado a sentire cosa vuole. Vieni, andiamo insieme – gli risponde e così i due cognati tornano da Domenica che, davanti al genero parla dei lavori, ma non appena questi si allontana per qualche minuto, racconta al figlio gli ultimi avvenimenti e Francesco ne resta alquanto turbato.

Tornato il cognato, i due giovani se ne vanno insieme in silenzio, ma dopo un breve tratto di strada, Francesco prende sottobraccio il cognato e gli sussurra:

Io e te dobbiamo andare ad ammazzare mio padre

– Ma sei impazzito? A me non ha fatto niente! – risponde più volte alle insistenze del cognato che, per convincerlo, adesso tocca le corde giuste.

– A te non ha fatto niente? Ti sei dimenticato di quando ha fatto arrestare tuo fratello? Ti sei dimenticato di quando ha danneggiato la vostra fornace di calce e di quando ti ha minacciato?

Sì, questi sono i tasti giusti per far riaffiorare in Teodoro Rimola il vecchio rancore verso il suocero e, sciaguratamente, accetta. I due vanno a casa di Francesco per prendere un vecchio fucile ad avancarica a due canne, lo caricano e vanno ad appostare la vittima designata presso un viottolo nel bosco “Gaio”, che Teodoro Manfredi deve necessariamente percorrere per riportare a casa il gregge di capre e pecore. Lo attendono per un’ora e quando sentono i belati del gregge che si avvicina, Francesco, nascosto dietro un cespuglio, arma i cani del fucile, poggia le canne dell’arma nella biforcazione di un ramo e quando suo padre, che porta un tronchetto di legno sulle spalle, è ad una decina di metri da lui gli spara un colpo e la rosa di pallini lo centra tra la testa, il collo e la spalla, facendolo stramazzare al suolo praticamente morto. Poi Francesco passa il fucile al cognato per fargli completare l’opera sparandogli l’altro colpo, quindi se ne vanno camminando senza fretta per non destare sospetti in qualcuno che potrebbe trovarsi nelle vicinanze.

I Carabinieri vengono informati solo il mattino successivo e si mettono subito all’opera per scoprire l’identità dell’uccisore assumendo ogni specie di notizie da quante persone incontrano e l’impresa sembra davvero ardua, ma poi si imbattono in un ragazzino, un pastorello che dice di aver visto nei pressi del bosco “Gaio”, un paio di ore prima del tramonto, Teodoro Rimola percorrere la campagna armato di fucile. Siccome due più due fa sempre quattro, i Carabinieri arrestano Rimola e lo interrogano a lungo, senza ottenere alcun risultato e nessun risultato ottengono quando lo mettono a confronto col pastorello. Poi lo riportano in cella e il calar della sera in quel piccolo e buio antro fa effetto. Teodoro Rimola chiede di parlare col Maresciallo e confessa tutto nei minimi particolari, affermando di essere stato costretto dal cognato a partecipare all’omicidio con minacce sulla vita. La conseguenza è che in cella finisce anche Francesco Manfredi, che nega ostinatamente anche dopo essere stato messo a confronto col cognato. A lui il buio e la solitudine della cella non fa nessun effetto e continua a dichiararsi estraneo ai fatti.

– Sì, sono andato da mia madre ma da solo, poi verso le due del pomeriggio sono tornato a casa dove c’erano mia moglie, mia suocera e mio cognato e non sono più uscito.

Ma tutti e tre i congiunti depongono di essere tornati a casa verso l’imbrunire e sono guai. Guai che peggiorano quando, subito dopo il suo arresto, dal Maresciallo si presenta di nuovo il pastorello e gli dice che deve aggiungere qualcosa a ciò che ha già deposto:

– Rimola, quando l’ho visto, non era da solo ma con lui c’era Francesco Manfredi che portava il fucile

– E perché me lo dici adesso?

Perché essendo ancora libero temevo che esercitasse su di me sanguinosa vendetta

Può bastare per chiudere l’istruttoria ed il 18 dicembre 1932 i due imputati vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Castrovillari con l’accusa per Francesco Manfredi di omicidio premeditato in persona del proprio padre e per Teodoro Rimola di concorso in omicidio premeditato.

La causa si discute un anno dopo, il primo dicembre 1933. Rimola conferma la sua confessione, mentre Francesco Manfredi continua a respingere ogni addebito e la Corte decide di metterli a confronto.

Rimola: Scusami Francesco se ho confessato tutto, ma è ingiusto che a sopportare il peso del delitto sia solo io.

Manfredi: (a voce bassa e capo chino) La mia coscienza è netta

L’atteggiamento di Francesco impressiona la Corte, giacché qualunque altra persona, anche di mediocre levatura intellettuale e di scarso sentimento, non avrebbe mancato di reagire, con tutta energia e massimo sdegno, ad un sì grave addebito se questo fosse stato, anche in minima parte, calunnioso.

Quindi la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva che la responsabilità del Manfredi è stata dimostrata in modo non dubbio. A lui non mancava la causale che lo determinasse a volere la morte del proprio genitore. La condotta immorale serbata da costui non solo aveva distrutto la pace domestica, ma offendeva il pudore e la verecondia delle tre figlie nubili che gli rimanevano in casa. La moglie mal tollerava che la propria abitazione fosse frequentata dall’amante del marito e dal figlio e alle rimostranze che ella di ciò faceva, il marito rispondeva con le percosse; le figlie prendevano, com’era giusto, le parti della madre e lo stesso Francesco, sebbene facesse economia separata, non era indifferente a quanto avveniva nella casa paterna sia per materiale sentimento di aiuto e protezione verso le donne, sia perché costoro lo tenevano al corrente delle loro angustie e cercavano conforto nel suo appoggio. Nella lotta tra il padre immorale e la madre che lamentava continuamente di essere maltrattata, e lo era infatti, il risentimento del giovane non poteva indugiare a manifestarsi, rinfocolato dalla dichiarazione del padre nei riguardi del figlio adulterino, al quale i figli legittimi mal sopportavano di essere posposti. Anche per quanto attiene alla donazione che Teodoro Manfredi si proponeva di fare in favore del figlio adulterino, il risentimento di Francesco poteva apparire giustificato perché a suo padre incombeva, come primo dovere, il collocamento delle tre figlie nubili, dopo il quale soltanto sarebbe stato opportuno provvedere al figlio adulterino anche, ben s’intende, serbando la giusta proporzione tra le persone da beneficare.

Il ragionamento della Corte sul risentimento che Francesco provava nei confronti del padre potrebbe sembrare come l’introduzione al riconoscimento dell’aggravante della premeditazione, argomento che viene subito affrontato: il malanimo di Francesco Manfredi si riaccese il mattino del 21 settembre per la chiamata della madre, la quale mostrò tanta premura di conferire con lui, da fargli comprendere che il lavoro di ripulitura di una vasca era un semplice pretesto e infatti sfogò ancora una volta il suo animo lacerato per i maltrattamenti che dal marito riceveva. Fu allora che Francesco Manfredi si determinò ad uccidere il padre, per cui non concorre per gli imputati l’aggravante della premeditazione. L’incubo della pena di morte è scongiurato.

Chiarita la posizione di Francesco Manfredi ed eliminata la premeditazione, la Corte esamina la posizione di Teodoro Rimola e osserva che l’imputato non aveva motivi personali che lo spingessero ad uccidere il suocero giacché, a totale soddisfazione delle lire quattromila che questi aveva promesso in dote alla figlia Francesca, moglie di esso imputato, avevagli assegnato un appezzamento di terra di egual valore e l’affare era stato così definitivamente liquidato, né eventuale atto di donazione in favore del figlio adulterino poteva pregiudicare gli interessi economici dell’imputato, giacché il patrimonio del suocero sarebbe stato quasi interamente assorbito dalle doti da assegnare alle tre figlie ancora nubili. Comunque non risulta in alcun modo che Rimola si fosse mai preoccupato dell’affetto che il suocero nutriva pel figlio adulterino, né l’età a cui egli era giunto – aveva da poco compiuto i diciotto anni –, né l’indole sua piuttosto spensierata lo inducevano a guardare, con tanta sottigliezza, ad un lontano avvenire. E allora perché ha accettato di andare ad uccidere il suocero? Secondo la difesa di Rimola per effetto di pressioni morali esercitate su di lui dal cognato per le quali, di conseguenza si trovava, nel momento del fatto, in stato d’incapacità di intendere e di volere, quindi non punibile. La Corte non la pensa così e contesta alla difesa che il suo assistito ha dichiarato nel suo interrogatorio di aver accettato di uccidere il suocero quando il cognato gli ricordò le offese che gli aveva fatto e questo concorre a dimostrare l’infondatezza dell’intimidazione, in quanto accerta che costui, essendo anch’egli nemico della vittima designata, desiderava vendicarsi. Ma l’argomento principale per escludere l’intimidazione, continua la Corte, è quello che, se Rimola avesse voluto tenersi estraneo al fatto, avrebbe potuto, senza ombra di pericolo, abbandonare la compagnia del cognato appena questi gli parlò del criminoso proposito concepito, appena usciti dalla casa della suocera, quando ancora il cognato era disarmato. Al contrario, Rimola accompagnò Francesco Manfredi per tutto il tratto di via che conduce al bosco “Gaio” e rimase con lui in agguato per circa un’ora senza mai tentare di allontanarsi. Non basta? La Corte ha constatato de visu che Rimola non è un soggetto capace di subire coazione di qualsiasi specie per pusillanimità o altra deficienza intellettuale o morale e, d’altro canto, il suo sviluppo corporeo gli infondeva piena coscienza e fiducia di poter resistere a violenze da parte del cognato, ond’è che l’addotta incapacità di intendere e di volere si chiarisce come scusa puerile.

Resta un ultimo dubbio: perché Francesco Manfredi ha pensato di coinvolgere Teodoro Rimola nell’omicidio del padre, visto che, per come si sono svolti i fatti, avrebbe potuto benissimo ucciderlo da solo? La Corte chiarisce: il Manfredi volle essere accompagnato dal cognato perché temeva di affrontare da solo il proprio genitore il quale, essendo persona assai robusta, lo avrebbe aggredito e ridotto a mal partito se non fosse stato attinto mortalmente dal primo colpo.

Ora si può passare alle considerazioni finali e alla entità delle pene da infliggere agli imputati. Avuto riguardo al carattere essenziale del delitto, non può disconoscersi che l’opera del Rimola abbia avuto importanza di gran lunga minore di quella del Manfredi, anzi non abbia avuto che minima importanza in quanto di essa l’autore principale avrebbe potuto fare a meno, se gli fosse riuscito in sua malvagità, di superare la ripugnanza che avrebbe provato nello spianare il fucile contro il proprio genitore e vincere il timore di potere essere da lui sopraffatto, se al primo colpo quegli non fosse stato mortalmente ferito. Degna di speciale considerazione è anche la circostanza che Rimola aveva solo da qualche mese superato la minore età. Avendo l’opera del Rimola avuto nel fatto minima importanza, la pena da infliggergli deve essere diminuita. Considerando che i suoi precedenti penali sono buoni, che il fatto da lui commesso è grave e notevole è il grado di pericolosità da lui dimostrato e che egli era da poco uscito dalla minore età, sembra giusto infliggere la pena della reclusione per anni 16, oltre alle spese e alle pene accessorie.

In favore del Manfredi sembra giusto ammettere l’attenuante dello stato d’ira, giacché egli agì in un momento in cui il suo animo era pervaso da risentimento pel fatto ingiusto del padre, il quale non solo aveva serbato condotta immorale procreando due figli adulterini con la sua mantenuta, ma pretendeva che costei venisse, dalla moglie e dalle figlie nubili, accolta in casa come donna onesta e quando la moglie a ciò si rifiutava egli la bastonava senza pietà, distruggendo così la pace della famiglia e producendo scandalo nella famiglia stessa e nel vicinato. Scendendo all’applicazione della pena da infliggere a Francesco Manfredi è giusto tener presente i suoi precedenti penali, che sono buoni, l’entità del fatto, che è grave, il motivo del delitto, il grado di pericolosità da lui dimostrato. Tenuto conto di tutto ciò ed essendo il parricidio punibile con la pena dell’ergastolo, applicando l’attenuante dello stato d’ira sembra giusto infliggere al Manfredi la reclusione per anni 24, oltre alle spese e alle pene accessorie.

Il 15 marzo 1935, in applicazione del R.D. 25 settembre 1934 N. 1511, ad entrambi gli imputati vengono condonati anni 2 della pena.

Il 14 marzo 1938, in applicazione del R.D. 15 febbraio 1937 N. 77, la Corte d’Assise di Castrovillari dichiara condonati anni 4 della pena a Teodoro Rimola.

Il 17 marzo 1938, in applicazione del R.D. 15 febbraio 1937 N. 77, la Corte d’Assise di Castrovillari dichiara condonati anni 4 della pena a Francesco Manfredi.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.