Maria Gullace da Bruzzano Zeffirio in provincia di Reggio Calabria, ha sette anni ed è un’orfana bianca. Cioè i genitori li avrebbe, ma se ne sono andati in America e l’hanno abbandonata a sé stessa. Maria ha una sorella più grande, Francesca, che è già sposata ma abita a Sapri perché il marito, Vincenzo Vigliante, è ferroviere e l’hanno trasferito lì. Francesca accoglie in casa la sorellina con soddisfazione anche del marito perché così le tiene compagnia quando è lontano per lavoro e l’aiuta, tenendo presente che è una bambina, nelle faccende domestiche.
In queste condizioni ogni umana previsione induce a ritenere che la fanciulla sarebbe stata considerata dal cognato Vincenzo come figlia ed allevata con amorevolezza, ma ciò che comincia ad accadere non corrisponde alle rosee previsioni.
Sotto la spinta evidente di psicopatie sessuali, Vincenzo, che pure potrebbe sentirsi soddisfatto degli amplessi coniugali, concentra le sue concupiscenze sul tenero corpicino della piccola cognata e comincia ad esercitare su di esso una serie di atti di libidine immondi, più che bastevoli ad indurre nell’animo della bambina la più profonda corruzione. Disgustata dalle oscene manovre, Maria se ne lamenta con la sorella ma costei, o per timore d’incontrare le ire del marito o per desiderio di non turbare l’apparente ordine stabilitosi nell’azienda domestica (ed in cui la fanciulla, col crescere, rappresenta una risorsa sempre più pregevole) non mostra di impressionarsi dei lamenti della sorella, anzi più volte la esorta a non dare importanza alla cosa:
– Non te ne incaricare perché ci penserò io a rimproverarlo – le dice, ma il rimprovero non sarà mai fatto.
E siccome nessuno gli dice niente, Vincenzo continua imperterrito nella sua immonda condotta con Maria che, divenuta ormai giovinetta, continua a subire a malincuore le pratiche oscene e Francesca, sempre avvertita di quanto continua ad accadere e sempre pregata di interporsi per fare cessare l’immondo trattamento, continua a dire alla sorella:
– Non te ne incaricare, tira avanti come se nulla fosse…
Intanto Vincenzo ottiene il trasferimento a Villa San Giovanni e la famiglia si stabilisce di nuovo a Bruzzano.
Un giorno a Vincenzo viene in mente di voler portare la moglie e Maria, che è ormai una bella ragazza, a Messina sulla nave traghetto e quando sono a metà del traghettamento, afferra la cognata per un braccio, la porta vicino al parapetto e la minaccia:
– Ti voglio sverginare e se mi dici no ti butto a mare!
Maria è terrorizzata e resta muta. Quando arrivano a Messina, reputando che il frutto dell’amore sia giunto a maturità, si decide a coglierlo ed in un momento in cui rimane da solo con Maria la violenta.
Dopo qualche tempo, Maria, ormai di forme piuttosto attraenti, viene chiesta in moglie da Francesco Martino e la richiesta viene accolta per le buone qualità del giovane; il matrimonio viene celebrato, ma Francesca e Vincenzo non partecipano alla cerimonia perché dicono di non aver fatto in tempo a comprare il regalo e non vogliono fare brutta figura con gli altri invitati. Lo sposo e gli invitati li perdonano, convinti che Vincenzo sia per Maria un padre amorevole e non sospettando minimamente che la giovane si è presentata impura all’altare per opera del cognato.
Il giovane sposo scopre l’impurità la notte stessa rimanendone ovviamente sorpreso e amareggiato e chiede alla moglie di spiegargli cosa è successo, esortandola a dire la verità, con la promessa che la perdonerà. Maria si fida e piangendo gli racconta il suo calvario. Francesco ascolta in silenzio senza apparentemente scomporsi e la perdona mantenendo la promessa fatta, ma i suoi amplessi sono rari e freddi e la casa coniugale gli appare non già come oasi di felicità, ma come luogo da evitare, tanto che si fa vedere solo per desinare e dormire, passando il resto della giornata ad attendere alle sue faccende ed a trattenersi nelle bettole con amici.
Maria però è serena lo stesso perché finalmente il cognato sembra che la stia lasciando in pace, anche se non si è mostrato soddisfatto del matrimonio. Anzi, a proposito di matrimonio, la ragione per cui lui e Francesca non parteciparono alla cerimonia e alla festa, non fuperché non avevano fatto in tempo a comprare il regalo, ma fu dovuto al fastidio che gli provocava, e gli provoca ancora, l’impossibilità di continuare a violentare Maria che, dopo aver confessato al marito ciò che ha dovuto subire, adesso viene tenuta discretamente d’occhio per evitare altre brutte sorprese. Ed è solo per questo che Vincenzo la sta lasciando in pace. Oltretutto c’è da considerare che Maria e sua sorella Francesca non si parlano più e che Vincenzo ha detto espressamente al cognato Francesco che l’indifferenza tra le due sorelle porta come conseguenza la rottura di ogni rapporto anche tra loro due, il che equivale ad una dichiarazione di ostilità.
Ma ben presto lo smanioso desiderio di Maria prende il sopravvento nella mente di Vincenzo e, con ripetute minacce ricomincia a molestarla, pretendendo di riprendere le relazioni carnali. Maria, per evitare ulteriori molestie, convince il marito ad abbandonare la casa in Via Monte Grappa, dove abitano dal giorno del matrimonio, per trasferirsi a casa della suocera, in due stanzette anguste, nelle quali si rassegna ad abitare con la speranza che lì non sarebbe stata molestata.
Ma si sbaglia. Dopo un mesetto dal trasferimento, Vincenzo comincia a camminare avanti e indietro lungo un viottolo che passa vicino alla nuova casa e finalmente riesce ad incontrarla.
– Noi dobbiamo ricominciare, hai capito? Noi dobbiamo ricominciare se no ti ammazzo!
– No, mi devi lasciare in pace e se così non può essere, preferisco la morte!
Passano due settimane, è il primo aprile 1938. Verso le tre di pomeriggio Vincenzo incontra di nuovo Maria e le ripete le stesse cose, poi aggiunge:
– Se ti ostini a rifiutarmi, i tuoi giorni sono contati!
Maria non risponde e prosegue oltre, ma ha capito che adesso le cose si stanno mettendo davvero male per lei. Poco dopo torna indietro verso casa e vede Vincenzo, che tiene per le zampe un piccolo tacchino, in compagnia del figlio.
Affretta il passo, quasi corre, e quando incrocia il cognato, questi, come se stesse parlando col tacchino, dice:
– Eh… i tuoi giorni sono contati…
Maria adesso ha davvero paura e corre a casa. Entra e si mette a frugare in un baule. Si, la pistola automatica che poco tempo prima suo marito ha comprato è lì. La prende ed esce. “Se lo incontro di nuovo e di nuovo ripete quelle parole, lo ammazzo”, pensa. Vincenzo è ancora sul viottolo col tacchino in mano e quando la vede ripete le stesse parole guardando il tacchino con un sorriso beffardo. Maria adesso ha la certezza che Vincenzo la ucciderà e quando gli passa accanto e lo sorpassa caccia fuori la pistola automatica e, tenendola con tutte e due le mani per essere sicura di non sbagliare, gli spara quattro colpi alle spalle e comincia a correre verso la caserma dei Carabinieri per costituirsi, ma viene fermata dal marito, accorso sul posto.
– Ma che hai fatto? – e le tira un calcio.
– Ho dovuto fare quello che ho fatto. Lasciami ché altrimenti son capace di colpirmi da me! – gli risponde con disperazione. Francesco la lascia e Maria corre verso la caserma.
In caserma i Carabinieri sono tutti fuori per servizio e viene accolta dalla domestica, alla quale confessa di avere ucciso il cognato per motivi di onore.
Quando sul posto arrivano i Carabinieri, il Pretore ed il medico legale, osservano che Vigliante ha riportato tre lesioni da arma da fuoco all’emitorace sinistro, di cui una in corrispondenza della regione interscapolare – vertebrale all’altezza della terza vertebra dorsale, un’altra a qualche centimetro della colonna vertebrale toracica e la terza all’interno della linea angolo – scapolare. Tutte e tre penetranti in cavità. Un quarto proiettile ha attraversato l’emitorace sinistro penetrando in corrispondenza dell’areola mammaria sinistra, con foro di uscita all’altezza dell’undicesima vertebra toracica. Dalla sede e molteplicità delle lesioni, dal sangue che ancora ne sgorga, dal colorito intensamente pallido del cadavere, il perito è indotto a giudicare che causa unica della morte è stata la profusa emorragia interna ed esterna prodotta dai quattro proiettili, tirati da brevissima distanza.
Maria viene interrogata e, tenendo gli occhi a terra per la vergogna mentre tormenta tra le mani un fazzoletto col quale continuamente si asciuga le lacrime che quasi le impediscono di parlare, racconta la sua disgraziata vita e la decisione di uccidere il cognato, avendo capito che era l’unica strada per salvare la propria vita. Non ci vuole molto a scoprire che la pistola automatica usata da Maria era stata acquistata poco tempo prima da suo marito, perfettamente a conoscenza di tutte le porcherie che Maria aveva dovuto subire fin da bambina, così i Carabinieri sospettano che l’uomo abbia avuto un ruolo importante nel concepimento, nella preparazione ed esecuzione del delitto e lo arrestano. Siccome concepimento, preparazione ed esecuzione sono elementi che caratterizzano l’aggravante della premeditazione, l’accusa contro Maria e Francesco è di omicidio premeditato. Ad accreditare questa ipotesi c’è soprattutto la testimonianza di tale Antonino Vadalà, sollecitata da un esposto di Francesca Gullace, il quale riferisce:
– Il 22 o 23 marzo, mentre ero nel fondo Vigna, da me tenuto in colonia, intento a dissodare la terra, ho visto Maria Gullace sparare dei colpi di pistola contro un albero di ulivo e con lei c’era suo marito…
Quindi Maria si sarebbe esercitata a sparare con la supervisione del marito. Dopo tre mesi, il 3 agosto 1938, moglie e marito vengono rinviati al giudizio della Corte di Assise di Locri.
La causa si discute il 14 gennaio 1939 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, crede opportuno interrogare Maria a porte chiuse per capire meglio tutto il contesto, dal momento che nei lunghi interrogatori resi nel periodo istruttorio non ha mai specificato quali fossero gli atti di libidine subiti. Ma Maria non può vincere gli ostacoli del pudore, sebbene sottoposta ad atti di corruzione sin da tenera età e riesce solo a dichiarare tra le lacrime e l’imbarazzo generale:
– Gli atti osceni che ho subito furono di varia natura e possono più facilmente immaginarsi che descriversi…
Poi la Corte torna ad occuparsi delle carte processuali acquisite sia in istruttoria che durante il dibattimento e osserva: se il fatto materiale dell’esplosione dei quattro colpi da lei diretti contro Vigliardi è fuori contestazione, è del pari certo che ella fu animata da intenzione omicida, come risulta da tutti gli elementi della causa. Non può, però, ritenersi che ella abbia agito con premeditazione. E spiega: se la causale del fatto risaliva ad epoca alquanto remota, cioè alla fanciullezza di lei, nulla può dirsi circa il momento in cui l’idea criminosa sorse nella sua mente, né può affermarsi ch’ella avesse formato un qualsiasi disegno criminoso con determinatezza delle circostanze di tempo, luogo, persona, modo, eccetera in cui il reato avrebbe dovuto commettersi e tanto meno che l’idea del delitto fosse rimasta nella sua mente e nel suo sentimento per un periodo di tempo di apprezzabile durata (con che si sarebbe avuta la prova dell’esistenza, in lei, di una speciale raffinatezza di malignità), come non può dirsi ch’ella avesse preventivamente avvisato mezzi ed espedienti necessari per sfuggire alle ricerche della Polizia Giudiziaria e per assicurarsi l’impunità. Manca, nella specie, il concorso degli elementi necessari per l’integrazione dell’aggravante e questa, dev’essere, per conseguenza, esclusa.
E allora la pistola automatica comprata dal marito poco tempo prima? E la testimonianza di Vadalà? Questi due elementi non valgono niente per dimostrare la premeditazione?
Interrogato il teste Vadalà in aula, si contraddice grossolanamente per rispondere ad una osservazione della difesa circa l’impossibilità di poter vedere dalla zona del fondo Vigna adibita a coltura le persone che erano ferme nel limitrofo fondo Chiusa.
– È vero, da lì non potevo vedere, ma ricordo che in quel momento non stavo dissodando il terreno. Ero, invece, intento a guardare un asino ed una capra al pascolo, nelle vicinanze di un alto ciglione che sorge sulla linea di confine.
Per di più la difesa di Maria fornisce alla Corte una lista di testimoni che, ascoltati, fan dubitare della serietà e sincerità del teste, avendolo qualificato come intrigante, a causa del suo gusto di intromettersi negli affari penali per portarvi il peso delle sue deposizioni.
E poi, osserva la Corte, o la Gullace era esperta nel maneggio della pistola e allora i due colpi erano inutili o non aveva abilità nel servirsi dell’arma ed allora due soli colpi non sarebbero stati sufficienti ad addestrarla.
E la pistola? La Corte ha gli elementi per smontare questa contestazione: è dimostrato che Francesco Martino, dopo avere acquistato per lire 100 la pistola la portò a casa e la ripose in un baule ove venivano custodite alcune coperte di lana e da ciò non ne deriva che la Gullace, alla sola vista dell’arma, avesse concepito senz’altro il disegno di uccidere il cognato, essendo sempre ammissibile che la determinazione criminosa si fosse in lei ingenerata il pomeriggio del primo aprile 1938 quando ella, visto il cognato ed udite le minacce da lui profferite, si armò della pistola ed uscì di casa.
Smontata la premeditazione, la Corte passa ad esaminare la questione se ci possano essere una o più attenuanti da applicare: all’imputata non può negarsi l’attenuante dello stato d’ira in quanto agì in un momento in cui il suo animo era esacerbato per le offese ricevute dal cognato in quale, non contento di averla sottoposta ad una interminabile serie di atti innominabili e di averle tolto il fiore della verginità, continuava a minacciarla di morte al fine di costringerla a sottostare alle sue voglie libidinose. L’antico corruttore e seduttore, spintosi audacemente sino alla soglia della casa matrimoniale di Francesco Martino, avrebbe dovuto a quel punto arrestare la sua condotta tracotante. Sono poi inviscerati nel fatto i motivi di particolare valore morale che indussero Maria Gullace all’azione, giacché è chiaro che ella, nel momento del fatto, si trovò sotto l’impulso dell’onore violato e della dignità e onestà di madre di famiglia contaminata dai tentativi della vittima ed ebbe in mira di tutelare il suo patrimonio morale, la pace del focolare domestico, la rispettabilità del marito, tutti sentimenti moralmente e socialmente apprezzabili.
Ma la Corte si spinge oltre e ritiene di poter concedere anche una terza attenuante, il vizio parziale di mente a causa di malattia, e motiva così: come risulta da varie deposizioni, ella, prima e dopo il fatto, fu attaccata da accessi isterici. Soffriva d’isterismo, che il dottor Sicari faceva dipendere da disfunzioni sessuali e veniva da lui curata con soluzioni di valeriana e di bromuro e con iniezioni arsenobromatiche Zambelletti, che sono ricostituenti e sedativi del sistema nervoso. È nota l’influenza di tali malattia sulla formazione delle idee e sulla determinazione della volontà. Stretti rapporti corrono tra la sfera sessuale femminile ed il sistema nervoso e mentre le influenze psichiche provocano disfunzioni sessuali (uno spavento all’improvviso fa talvolta cessare troppo presto o troppo tardi mestruazioni prima regolari), dall’altro lato le alterazioni psicologiche e patologiche della sfera genitale son causa di disordini nervosi, che giungono fino alla formazione di idee coatte e di vere psicosi, specialmente quando preesisteva un certo disordine psichico. L’apparato genitale delle donne ha sulla sfera psichica influenza maggiore di quella di altri organi. Le moderne concezioni dell’endocrinologia delle glandole sessuali e delle gonadi giustificano il concetto che la cura della malattia mentale delle donne debbano essere precedute dalla cura ginecologica. Il meccanismo fisiologico dei rapporti tra funzioni sessuali e fisiche è complesso al pari di quello tra disfunzioni e psicosi ed è basato sulle correlazioni armoniche della follicolina e luteina con l’equilibrio prefetto delle altre ghiandole e del sistema neurovegetativo. Nella Gullace tale equilibrio era manifestamente turbato in modo sensibile e pertanto è giusto ritenere che nel momento del fatto la sua capacità di intendere e volere era grandemente scemata.
Adesso la Corte si occupa del marito di Maria, accusato di concorso in omicidio, e osserva: l’addebito mosso al Martino non trova, nei risultati delle prove sufficientemente dimostrazione. Si dice, innanzi tutto, che egli aveva o poteva avere una forte ragione di odio contro Vigliante e ciò è vero o può esser vero, ma la possibilità di commettere un delitto non equivale al fatto di essere spinti all’azione da tale motivo (le eccitazioni di sentimento agiscono diversamente nei diversi soggetti), mentre il nutrire odio o risentimento contro un avversario non equivale a determinazione a reagire contro di lui. Se Martino aveva perdonato l’inganno alla moglie, aveva dimostrato con ciò tanta remissività da essere capace di non curarsi della persona del seduttore. La Gullace ha sempre dichiarato di non aver avuto correi nell’esecuzione del delitto e, tenuto conto dei precedenti del fatto, della speciale natura di esso, dell’indole dell’imputato, della rapidità con cui l’omicidio fu commesso, non v’è ragione di ritenere indispensabile il concorso di un’altra persona per l’esecuzione del delitto. La sua responsabilità non è provata, onde è giusto che egli venga prosciolto, sia pure per insufficienza di prove.
È il momento di determinare la pena da infliggere a Maria Gullace. Tenuto conto dei suoi precedenti morali e penali, che sono buoni, alla speciale natura del fatto, alla causale a delinquere, alla specie dell’arma adoperata e soprattutto al grado non elevato di pericolosità da lei dimostrato, la Corte ritiene di partire da anni 21 di reclusione, dai quali vanno detratte le tre attenuanti concesse e la pena viene fissata in anni 6, mesi 2 e giorni 20 di reclusione, più giorni 25 di arresti per il porto abusivo della pistola, oltre ai danni alle spese e alle pene accessorie.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Locri.