L’OSTE

Ad un certo punto della strada provinciale che da Gimigliano conduce a Cicala, precisamente nella zona dov’è il Santuario della Vergine di Porto, a sinistra da chi venga da Gimigliano si apre una stradella comunale di modica larghezza e assai breve. Lungo questa stradella c’è il fabbricato di Saverio Paonessa nel quale a pian terreno si trova un locale adibito a mescita di vini e a spaccio di sale e tabacchi, mentre al piano superiore si trova l’abitazione dell’oste. La stradella poi continua a scendere, divenendo sempre più scomoda, sino a ridursi, nell’ultimo tratto, ad un angusto e malagevole viottolo scavato nel masso, che porta a un piano sottostante dove corre il binario delle Ferrovie Calabro-Lucane. Alla stessa stradella, tra l’imbocco e il fabbricato, corre parallela per pochi metri, sottostante ad essa di un paio di metri, una striscia di terreno larga poco più di un metro. Dall’estremo margine di questa striscia, dove vegetano rigogliosi roveti, comincia a svolgersi, con pauroso andamento quasi perpendicolare a picco, un precipizio che in linea verticale misura 18 metri sino al suo piede, che è sullo stesso piano del binario, dal quale è separato dal brecciame delle rotaie e da una cunetta, larga meno di 50 centimetri e profonda da 5 a 10 centimetri. Nel suo ultimo tratto inferiore il precipizio è costituito da un muro di sostegno alto circa 2 metri ed è appunto in questo muro che la cunetta ha uno dei suoi margini, vale a dire il suo margine a monte.

Vi chiederete il perché di questa particolareggiata descrizione, bene: la mattina del 14 aprile 1947 alcuni operai che stanno andando al lavoro rinvengono, sulla stretta striscia di terreno sottostante alla stradella comunale, un cappello poggiato a terra con la cupola in alto e vicino a questo un fiasco, senza turacciolo, quasi pieno di vino. Strano. Arrivati alla linea ferrata, nella cunetta ai piedi del precipizio trovano il cadavere di Giuseppe Paonessa, che giace supino con la testa scoperta ed in parte immersa nella melma causata dalle recenti piogge. Ben composto, le braccia in avanti adagiate sul petto, le gambe distese. Gli operai corrono in paese ad avvisare i Carabinieri e quando sul posto arriva il Maresciallo Golia trova la posizione del cadavere molto strana, quasi come se fosse stato ricomposto per essere messo in una bara. Ma ci sono il cappello ed il fiasco di vino che fanno pensare che il morto potesse essere stato nella cantina ed essere ubriaco. E ovviamente, il primo ad essere ascoltato è l’oste:

Ieri sera verso le otto e mezza Giuseppe Paonessa, proveniente da Gimigliano, è entrato e mi ha chiesto due litri di vino da portare in famiglia e siccome non lo aveva, gli ho prestato anche il fiasco. Nel frattempo si è trattenuto circa un quarto d’ora con Pietro Paonessa, Saverino Paonessa e Giuseppe Fragiacomo bevendo anche un quarto di vino. Poi ho chiuso e sono usciti tutti. I due giovani Paonessa e Fragiacomo sono andati verso la ferrovia, Giuseppe Paonessa è andato verso la strada provinciale per tornare a casa.

Interrogati anche i tre avventori nominati dall’oste, tutti confermano sostanzialmente la sua versione e quindi se ne dovrebbe desumere che Giuseppe, forse per soddisfare un bisogno corporale, è sceso nella striscia di terreno, ha posato a terra il cappello ed il fiasco, ha fatto quello che doveva fare e nel rialzarsi è precipitato accidentalmente giù restandoci secco. Ma al Maresciallo Golia i conti continuano a non tornare: perché Giuseppe si sarebbe tolto il cappello di notte per accovacciarsi? Come mai il cadavere, dopo un volo di 18 metri, è stato trovato composto e per giunta nella cunetta, che aderisce al piede del precipizio? E se Giuseppe è sceso nella striscia di terra per soddisfare un bisogno corporale, come mai non ci sono tracce di sterco umano evacuato di fresco? E se Giuseppe fosse caduto mentre si rialzava, come mai i suoi calzoni sono abbottonati? E come mai, cosa più incredibile delle altre, il dottor Francesco Bisantis, che ha ispezionato il cadavere, ha trovato la base del cranio fratturata e nessun’altra traccia di lesioni traumatiche, salvo piccoli e insignificanti graffi sul dorso delle mani e un gemizio di sangue in parte già aggrumato dalle orecchie, dalle narici e dalla bocca? Semplice, gli fanno osservare, se non è caduto accidentalmente, cosa probabilissima, è stato ucciso a scopo di rapina. No, addosso al cadavere trovano 5.800 lire, parte nel portafoglio e parte in un taschino del panciotto.

Il Maresciallo Golia, però, non riesce a trovare riscontri ai suoi dubbi e pur rimanendo intimamente assai perplesso, è costretto ad accreditare in un verbale l’ipotesi della caduta accidentale: l’infelice Giuseppe Paonessa, avendo bevuto del vino, aveva perduto l’equilibrio ed era caduto dalla stradella sulla striscia di terreno sottostante e da qui, avendo deposto il fiasco ed avendo tentato di aggrapparsi ad un debole cespuglio di erica – del quale si vede spezzato qualche rametto – aveva continuato nella precipitazione mortale sino al piede del pauroso dirupo. Caso chiuso.

Però tre mesi dopo, il 24 luglio 1947, Maria Teresa Critelli, la vedova di Giuseppe Paonessa, presenta in Procura un esposto nel quale pone l’attenzione su varie circostanze che dovrebbero portare ad escludere la morte accidentale e dimostrare, invece, l’omicidio di suo marito. In particolare sostiene che il cadavere del povero Giuseppe presentava una contusione alla tempia destra con fuoriuscita di sangue, che potrebbe benissimo essere stata causata, per esempio, da un colpo vibrato da una spranga di ferro; poi riferisce che, secondo voci incontrollabili correnti a Gimigliano, la sera del 13 aprile, cioè la sera in cui suo marito morì, nella cantina vi era stato un alterco tra l’oste Saverio Paonessa e suo marito. In seguito all’esposto il Maresciallo Golia viene sollecitato ad eseguire nuovi accertamenti e riferisce al Procuratore della Repubblica di essere già a conoscenza delle doglianze della vedova, che ha indagato e gli è risultato che intorno al 10 luglio un fratello del morto si era recato a Maida per appurare qualche cosa per mezzo dei poteri magici di un’indovina chiamata Maria d’u spirdu – Maria dello spirito –. Interrogato, il fratello del morto gli ha confermato la circostanza, narrandogli che lo spirito del fratello Giuseppe gli aveva parlato attraverso la bocca della maga e gli aveva detto che era stato ucciso non sul luogo dove erano state trovate le spoglie, ma sotto la quercia e con un colpo alla regione parietale destra. Altro non ha voluto aggiungere per timore che, non potendo dimostrare con dati certi quant’altro avrebbe potuto dire, non gli tocchi di andare in galera per calunnia. Il Maresciallo Golia non approfondisce le indagini perché gli è arrivato il trasferimento e il suo posto viene preso dal Brigadiere Pietro Amedeo che comincia subito ad indagare a fondo interrogando di nuovo le persone presenti nella cantina la sera fatale. Pietro Paonessa non dice niente di nuovo; il giovane Saverio Paonessa invece racconta che Giuseppe aveva chiesto ed avuto dall’oste un primo ed un secondo bicchiere di vino e poi i due litri nel fiasco senza pagare, dicendo di non avere soldi, ma promettendo di pagare l’indomani, restituendo anche il fiasco. Poi erano usciti ma l’oste aveva trattenuto Giuseppe sulla soglia dicendogli: “Giuseppe, fermati che ti debbo parlare”. Poi interroga l’oste Saverio Paonessa che, dopo un’ora e cinque minuti che il Brigadiere gli ha rivolto la domanda, ammette di avere trattenuto Giuseppe nell’osteria, a porta chiusa, per parlargli di cose familiari e di avere fatto ciò per sottrarlo alla compagnia degli altri tre i quali, così pensò, potevano fargli del male. Ottenute queste parziali, contrastanti modifiche alle prime dichiarazioni, il Brigadiere Amedeo continua, nei giorni successivi, in molteplici riprese e in varie ore del giorno e della notte, a torchiare i quattro. Il primo ad aprire un po’ di più la bocca è il giovane Saverio Paonessa che dichiara innanzi tutto di avere appreso da Pietro come costui, alle ore sei del 14 aprile, nei pressi del punto della linea ferrata dove si trovava il cadavere, era stato avvicinato dall’oste, il quale gli aveva ingiunto che lui e gli altri due, se interrogati, avrebbero dovuto dire che la sera prima erano usciti dalla cantina alle ore venti e non alle ventuno. Poi il giovanotto parla dei fatti ai quali ha assistito e dichiara che la sera del 13 aprile nell’osteria erano presenti anche i figli dell’oste, Francesco e Casimiro. Quindi aggiunge che Giuseppe, dopo i due bicchieri ed il fiasco di vino avuti a credito, chiese un altro bicchiere di vino; l’oste cominciò ad adirarsi e tra i due ebbe inizio un certo alterco. A questo punto lui e gli altri due amici pensarono di andarsene, impressionati dall’atteggiamento dell’oste, divenuto infuocato in volto e tale da far paura. Furono seguiti a breve distanza da Giuseppe, cui venivano vicini l’oste e i due figli. Percorsi una trentina di metri sentirono un urlo e si voltarono: Giuseppe era a terra e l’oste accanto a lui con un ferro in mano. Al trasporto del cadavere nel punto in cui fu trovato provvidero i figli dell’oste che, però, impose a lui e a Pietro di aiutarli. Fragiacomo, il terzo amico, era così ubriaco da non reggersi in piedi e fu lasciato stare. In un altro interrogatorio il giovane aggiunge che dopo una settimana dal fatto, l’oste gli dette duemila lire e gli promise di dargliene altre diecimila se avesse taciuto.

Anche Pietro cede e sostanzialmente conferma che i fatti sono andati come ha raccontato il giovane Saverio. Ammette di avere ricevuto dall’oste, e di averlo comunicato agli altri due, quel tale ordine concernente l’orario di chiusura. Ammette anche di avere ricevuto dall’oste, otto giorni dopo, la promessa di diecimila lire perché non parlasse.

Davanti a queste contestazioni, Saverio Paonessa, l’oste, comincia ad ammettere che tra lui e Giuseppe vi era stata una vivace discussione, che gli aveva dato il fiasco e che erano usciti insieme sulla stradella, verso la strada provinciale, ma che lungo il percorso Giuseppe gli parlò inurbanamente e, anzi, tentò di dargli il fiasco in testa. Allora lo disarmò e gli dette una spinta e Giuseppe, ubriaco, perse l’equilibrio e ruzzolò andando a finire in fondo al burrone. Non ci siamo. Il Brigadiere continua con gli estenuanti interrogatori e in due riprese successive l’oste confessa di avere colpito Giuseppe, senza però volerlo uccidere, alla regione occipitale destra con una un ferro a forma di scalpello o di bastone, sotto una quercia a circa 50 metri dal suo fabbricato, scendendo verso la ferrovia. Dice di avere agito da solo e di avere trasportato il cadavere da solo. In un altro interrogatorio modifica quello precedente e dichiara che al delitto parteciparono anche Pietro ed il giovane Saverio con calci e pugni a Giuseppe e che al trasporto del cadavere parteciparono anche Pietro, il giovane Saverio e Fragiacomo. Quest’ultimo, interrogato, dice di ricordare soltanto di aver visto Giuseppe entrare nella bettola. I figli dell’oste, interrogati a loro volta, si dichiarano estranei ai fatti. Francesco dice che la sera del 13, rincasando, era passato dalla bettola ed aveva visto Giuseppe, ma non si era fermato ed era salito a casa mettendosi a letto. Casimiro dichiara che quella sera era stato a Gimigliano ed era tornato a casa molto tardi. Il risultato è che tutti e sei, cioè l’oste, i suoi due figli ed i tre amici, finiscono in carcere. Trasmesse le carte al Giudice Istruttore, tutti e sei sostengono di essere stati, in vari modi, maltrattati dai Carabinieri e l’oste, Pietro e d il giovane Saverio ritrattano tutto sostenendo di essere stati costretti dalla violenza o col mezzo di bevande stupefacenti o che, addirittura, sono stati costretti a firmare dichiarazioni mai fatte. Ma nonostante ciò qualcosa continuano ad ammetterla.

Le accuse ai Carabinieri non reggono e addirittura viene fuori che l’oste, per ben due volte, in presenza dei figli e del Tenente dei Carabinieri Nardelli aveva confessato il delitto; che avendo visto in caserma la guardia municipale Tavano, gli gettò le braccia al collo pregandolo di perdonarlo se aveva mancato e che al Carabiniere Cesareo che, arrivato da poco in caserma, gli chiese familiarmente: “Beh, Paonessa, che c’è, che cosa hai combinato?”, rispose “Beh, l’ho fatto e lo debbo pagare!”. Sì, però oltre la confessione ritrattata ancora non c’è una prova certa. Secondo i Carabinieri, tutti questi balletti di confessioni e ritrattazioni nascondono il vero movente del delitto: l’oste e Giuseppe si contendevano la supremazia nella mafia locale. Tuttavia non riescono a trovare nessuna prova concreta che a Gimigliano esista o esistesse la mafia e, d’altra parte, Giuseppe era un buon padre di famiglia.

Poi il primo dicembre 1947 un certo Francesco Lupis, internato nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, scrive una lettera al Giudice Istruttore informandolo che tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre era stato, in transito, per una decina di giorni nel carcere di Catanzaro, nella stessa cella dove era detenuto Casimiro Paonessa e costui gli aveva detto, in confidenza, che era innocente e che colpevoli dell’omicidio, avvenuto durante un gioco di carte, erano suo padre, suo fratello Francesco e i tre amici, che il cadavere era stato trasportato e buttato in un burrone, che il fratello aveva deposto un fiasco di vino per terra vicino al burrone e che in un primo tempo il delitto era rimasto impunito non avendo potuto il Maresciallo trovare i colpevoli, ma poi al Maresciallo era succeduto un Brigadiere e questi aveva arrestato tutta la sua famiglia. Come fa Lupis a sapere tutte queste cose se non gliele ha davvero raccontate Casimiro? Interrogato, Lupis conferma tutto e i guai adesso cominciano a farsi seri, anche perché viene fuori che Pietro, ancora prima che il Brigadiere Amedeo riprendesse le indagini, aveva raccontato a suo cognato della lite tra l’oste e Giuseppe, che lui, il giovane Saverio e Fragiacomo, per evitare il peggio, se ne erano usciti conducendo con loro Giuseppe, ma dopo trenta metri in direzione della ferrovia l’oste li aveva raggiunti e aveva colpito Giuseppe alla testa con un palo di ferro. Sopraggiunto Francesco, il figlio dell’oste, aveva detto al padre “Brigante, lo hai ammazzato!”. Poi l’oste aveva fatto due iniezioni di morfina a Giuseppe, che morì subito e il cadavere era stato trasportato dal luogo del delitto alla sottostante cunetta ferroviaria da tutti e cinque i presenti al fatto e da Casimiro, nel frattempo tornato da Gimigliano. Il cognato di Pietro però raccontò tutto ad una sua conoscente, che a sua volta aveva raccontato tutto ad un’altra amica e che quest’ultima aveva riportato il tutto alla vedova di Giuseppe, provocando, così, l’esposto in Procura. Interrogato, il cognato di Pietro nega di aver raccontato il fatto e le altre persone interrogate si contraddicono fornendo versioni contrastanti.

Probabilmente tutto si sarebbe potuto chiarire mesi prima se il dottor Bisantis si fosse accorto della ferita alla testa e adesso si deve procedere all’esumazione del cadavere per eseguire una nuova perizia. Dopo aver rasato i capelli e lavata per bene la testa, la lesione alla regione parieto – occipitale destra risulta evidente, come risulta evidente che l’osso della zona colpita è completamente frantumato. La morte fu istantanea per emorragia cerebrale conseguente a frattura della volta cranica e i periti concludono che la lesione fu prodotta da colpo contundente e non da caduta dall’alto su una superficie piana. Dovrebbe essere tutto risolto, ma il consulente di parte, professor Cesare Gerin, insorge contestando, a ragione, che i periti d’ufficio, pur dovendo rispondere al quesito se nel caso vi fosse stata caduta o ferimento, non si sono preoccupati di procedere ad una autopsia completa per rilevare, eventualmente, l’esistenza di altre lesioni ossee o viscerali. Niente di fatto, occorre un’altra perizia e siamo arrivati ormai al 19 maggio 1949, due anni dopo il fatto.

La nuova perizia accerta che anche la base del cranio è fratturata e riscontrano, inoltre, che le vertebre – che nelle precipitazioni, e specialmente nelle precipitazioni in vita, possono presentare fratture – sono integre. Infine, riscontrano una stranezza anatomica: Giuseppe aveva tredici costole per lato anziché dodici. Delle tredici costole di destra ben nove risultano fratturate, mentre a sinistra ne risulta fratturata una. Questo, dicono i periti, vuol dire che precipitazione del corpo di Giuseppe ci fu, ma la presenza del fiasco e del cappello fa pensare che essa non fu accidentale ma provocata, probabilmente in vita, come ha confessato all’inizio l’oste. Ma, continuano, potrebbe essere anche possibile, seppur con meno probabilità, che la precipitazione fu effettuata post mortem per dissimulare l’omicidio che, in questo caso, poté essere consumato con la frattura del cranio per mezzo di un agente contundente. Insomma, non si è risolto niente e questa ambiguità potrebbe essere la salvezza dell’oste.

La Sezione Istruttoria, che deve decidere se e chi rinviare a giudizio, non tiene conto dell’ultima perizia e sostiene che si è trattato di un delitto d’impeto e l’unico responsabile è l’oste sessantatreenne Saverio Paonessa, che viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro per rispondere di omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Casimiro Paonessa viene prosciolto da ogni accusa perché riesce a provare che, realmente, quella sera rientrò da Gimigliano molto tardi; Francesco Paonessa, l’altro figlio dell’oste, viene prosciolto perché ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto; il giovane Saverio Paonessa, Pietro Paonessa e Giuseppe Fragiacomo vengono prosciolti dall’accusa di concorso in omicidio, ma vengono rinviati a giudizio per rispondere di favoreggiamento personale.

Il dibattimento si tiene il 14 ottobre 1950 e la Corte dichiara di avere una certezza intorno a queste due cose: che Giuseppe Paonessa fu ucciso dall’oste Saverio Paonessa e che, dopo l’omicidio, il cadavere fu precipitato e furono simulate le tracce di una caduta accidentale.

Dopo aver a lungo confutato la posizione della difesa che mira a ritenere nulle le confessioni degli imputati perché estorte con la violenza e i maltrattamenti usati dai Carabinieri, la Corte chiude l’argomento osservando che non si vuol dire che le confessioni dei giudicabili siano state spontanee, nel senso genuino e rigoroso di questa parola. Furono confessioni provocate, come il Brigadiere Amedeo ha tenuto lealmente a dichiarare, dai lunghi, abili, ripetuti, estenuanti interrogatori. Ma qui ben s’intende che la questione da proporsi non è quella se le confessioni furono spontanee, ovvero provocate nella maniera di cui sopra, sebbene l’altra se le confessioni provocate nella maniera di cui sopra furono veritiere oppure no. E per la veridicità di tali confessioni c’è tutto un complesso, davvero incontrovertibile, di positive e precise argomentazioni.

L’ammissione dell’oste nel secondo interrogatorio reso ai Carabinieri di aver colpito Giuseppe senza l’intenzione di ucciderlo, fa ragionare la Corte se questa affermazione sia vera o no. Secondo la Corte tutto fu causato perché l’oste interpretò malignamente ed erratamente il comportamento di Giuseppe quando gli disse di non avere il denaro per pagare subito il vino. In realtà Giuseppe il denaro lo aveva e infatti gli fu trovato in tasca quando i Carabinieri ne perquisirono il cadavere, ma non volle cacciarlo per non farlo vedere ai presenti, comportamento, questo, ispirato dalla nota prudenza della gente rurale, ma che fu dall’oste, maligno ed anche alticcio, interpretato come irriguardoso e provocatorio verso di lui. È un movente debole, ma per la Corte è un argomento che induce fortemente a dubitare della volontà omicida, giacché nei fatti umani l’adeguatezza del motivo è la regola, l’inadeguatezza è la rarissima eccezione e non viceversa. Può darsi che l’oste abbia semplicemente inteso stordire l’avversario, fisicamente tanto più vigoroso di lui, per poi malmenarlo, oppure abbia voluto lasciargli un segno in ricordo della sua reazione. Si potrebbe ragionare sull’eccessiva forza adoperata per tirare il colpo con il palo di ferro sulla testa dell’avversario per confutare la tesi della Corte, ma la Corte stessa anticipa la possibile contestazione affermando che bisognerebbe aver provato che questo grado di forza, in sé stesso sufficiente a produrre la morte, fu anche calcolato e voluto come tale nella coscienza e nella volontà dell’oste, ma questa prova è proprio quella che manca, mentre l’oste nega la volontà omicida. Quindi il reato va derubricato in omicidio preterintenzionale. Nel determinare la pena va tenuto presente l’atteggiamento della vittima, assolutamente incolpevole, che fu uccisa proditoriamente e che la pericolosità sociale dell’imputato ebbe a dimostrarsi notevole e pel suo carattere impulsivo, irragionevole, privo di senso sociale e pel suo contegno di persona male intenzionata e malevola prima del delitto e pel suo contegno di frode e senza pietà né rimorsi dopo il delitto. La Corte ritiene giusto condannare l’imputato ad una pena superiore al minimo di legge e cioè ad anni 13 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie, dichiarando nel contempo condonati anni 3 della pena.

Quanto agli altri imputati, la Corte riconosce che Giuseppe Fragiacomo, molto ubriaco, non poté prestare agli altri alcun aiuto e pertanto va assolto per non aver partecipato al fatto. Riguardo a Pietro e Saverio Paonessa è questione se essi aiutarono l’oste con sufficiente libertà di determinazione oppure perché costretti da lui. Poiché non è ragionevole escludere che l’ingiunzione e la minaccia di un uomo arrabbiato e premuto dalla necessità di salvarsi, con le mani lorde di sangue e spalleggiato dal figlio, potessero far senso e incutere terrore ai due giovani in quella tragica notte, è chiaro che essi debbano essere assolti per insufficienza di prove.

La Corte di Cassazione, con ordinanza del 15 ottobre 1951, dispone la conversione del ricorso in Appello, designando la Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria che, con sentenza del 29 febbraio 1952, dichiara inammissibile il ricorso per Cassazione proposto dal Pubblico Ministero.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.