UNA SINISTRA FIGURA DI DELINQUENTE

È il pomeriggio del 15 agosto 1935. Francesco Puntillo e, con una chitarra in mano, Pietro Conforti, giovani contadini di Castiglione Cosentino, stanno passando davanti alla casa del calzolaio Olindo Sisto Turboli – una sinistra figura di delinquente da tutti temuto in Castiglione – quando si sentono chiamare:

– Salite a casa mia ché vi offro un bicchiere! – è Olindo che li chiama.

I due giovani, anche in virtù del fatto che il padre di Pietro Conforti ha tenuto a battesimo il primo figlio di Olindo, accettano l’invito e si fermano a bere del vino e a mangiare del salame mandato a comprare da Pietro Conforti. Poi escono e Pietro lascia la chitarra in casa del compare. Dopo aver fatto una breve sosta in una bettola dove Olindo e Pietro bevono ancora, tutti e tre si avviano lungo la via nazionale a fare una passeggiata. Giunti al bivio di Castiglione, Olindo, vedendo passare da lì un certo Eugenio Le Piane a cavallo di una motocicletta, lo ferma e, anche se lo conosce superficialmente appena da qualche giorno, lo prega di prenderlo con sé per fargli fare qualche giro. Le Piane accetta e partono rombando ma tornano quasi subito dove li stanno aspettando Francesco Puntillo e Pietro Conforti, ai quali nel frattempo si sono aggiunti altri due amici, Luigi Bruni e Gaspare Storino.

Probabilmente Olindo ha detto qualcosa a Le Piane, forse per ingraziarselo, fatto sta che, mentre Le Piane si ferma ad una cinquantina di metri dai giovanotti, Olindo si avvicina a Pietro e gli dice:

Compare, questa sera ci devi condurre dalla tua fidanzata! – sconcerto generale.

Compare, non ci penso nemmeno!

Compare, questa sera ci devi portare dalla tua fidanzata se no ci buschi! – poi gira le spalle e torna da Le Piane e tutti e due ripartono rombando sulla motocicletta.

Fatto qualche altro giro, Le Piane se ne va dopo aver fatto scendere Olindo, che torna dagli amici, nel frattempo arrivati al ponte di Surdo.

Compare, questa sera dobbiamo andare dalla tua fidanzata – ricomincia Olindo.

Compare, ritirati, stasera dalla mia fidanzata ci vado io! – gli risponde seccato.

Carogna! – gli urla Olindo che estrae fulmineamente un trincetto da calzolaio e, fatto un salto in avanti mentre con le braccia fa un ampio gesto circolare, secondo le norme della scherma teppistica, gli vibra un colpo che, per fortuna, riesce solo a tagliargli i pantaloni all’altezza della coscia sinistra, mentre egli stesso rimane leggermente ferito dalla punta del trincetto al dito indice della mano sinistra.

Se ti vuoi battere con me devi farlo con le mani, senza coltello – lo sfida Pietro.

Carogna chi si pente! – urla Olindo gettando a terra il trincetto, prontamente e prudentemente recuperato da Francesco Puntillo.

Pietro si mette in posizione da pugilatore e Olindo, vedendo che l’avversario non lo teme affatto, si pente e, con tono conciliante, dice:

Non è il caso di continuare la quistione, siamo tutti e due ubriachi… accompagnami al fiume e aiutami a lavarmi e fasciarmi il dito

No, non ci vengo, come compare non avresti dovuto agire così con me!

Olindo va da solo e quando torna si avvia tranquillamente con gli altri verso Castiglione. Ma lungo la strada la discussione si riaccende quando Olindo chiede a Pietro la restituzione del trincetto, che Puntillo gli aveva consegnato.

Te lo darò solo quando mi restituirai la chitarra che ho lasciato a casa tua! – gli risponde Pietro. Poi sembra tornare la calma.

Quando la comitiva giunge a Castiglione, nei pressi della casa di Fazio Malcarni, Francesco Puntillo si avvicina a Pietro e gli sussurra in un orecchio:

Olindo tiene imbrandito dietro la schiena, nella mano destra, un altro trincetto

Pietro, con gesto generoso, toglie dalla tasca il trincetto che gli aveva dato Puntillo e lo restituisce ad Olindo, dicendogli:

Eccoti il tuo coltello così ora ne hai due… fai quello che vuoi.

Olindo, appena entra in possesso del trincetto, gli fa:

Prima ti ho tirato per ischerzo, ma ora ti tiro per tenerti! – e contemporaneamente gli vibra un colpo all’inguine sinistro, così violento che la lama affonda nelle carni per dodici centimetri, recidendogli i grossi vasi femorali.

A tale nuovo vigliacco atto, gli altri della comitiva accennano ad accorrere in soccorso del ferito, ma se la danno subito a gambe levate perché Olindo oltre ai due trincetti, caccia anche una rivoltella e comincia ad inseguirli.

Pietro ne approfitta per allontanarsi e bussa a casa di Malcarni, che lo fa entrare e barrica la porta di casa, ben conoscendo il pericolo soprastante per lo scatenarsi dell’ira sanguinaria di Olindo, che, infatti, non tarda a picchiare alla porta per sapere dove sia andato a finire Pietro.

– E che ne so io? Stavo dormendo e mi hai svegliato! – gli risponde. Olindo gli crede e se ne va dicendo:

Gli ho menato e l’ho tenuto… lo saluto!

Scampato il pericolo, a Malcarni non serve che qualche istante per accorgersi della gravità della ferita riportata da Pietro e ne informa subito i familiari, coi quali si adopera per trasportarlo all’ospedale di Cosenza, dove però, qualche ora dopo, Pietro muore per la profusa emorragia consecutiva alla tremenda ferita da trincetto.

Olindo Turboli, intanto, si dà alla latitanza e ancora prima che nei suoi confronti venga emesso un mandato di cattura, entra nella casa di Gaetano D’Andrea col pretesto di chiedere qualcosa da bere e da mangiare e poi, approfittando della distrazione della padrona di casa, si impadronisce di due coperte, una tovaglia e una guarnizione da letto, che riesce subito a vendere a due ignare donne.

Il 5 settembre successivo, il latitante viene avvistato nelle campagne di Rende e, dopo un lungo e difficile inseguimento, viene catturato e interrogato.

– Si, ho colpito Pietro Conforti con un colpo di trincetto – confessa. Poi racconta la sua versione dei fatti –. Conforti, dopo aver quistionato con Le Piane, perché giorni prima questi si era permesso di condurre sulla motocicletta la sua fidanzata, se l’è presa con me per essermi intromesso fra loro come paciere, giungendo al punto di avanzare verso di me armato di coltello. A tale vista io, per calmarlo, ho buttato per terra in segno di pace uno dei miei due trincetti che, per puro caso, si trovava in tasca ma, nel lanciare l’arma, la punta di questa era andata a colpire involontariamente Conforti al calzone, perforandolo. Dopo questo incidente Conforti si è inferocito di più ed io ho ritenuto prudente allontanarmi e fare ritorno a casa. Però, mentre stavo seduto davanti la porta della mia abitazione, sopraggiunse ancora Conforti il quale mi si fece di nuovo incontro tenendo aperto un coltello tra le mani. Ciò vedendo, lo scongiurai ancora di non volermi cimentare con lui ma Conforti, anziché allontanarsi cercava di farsi a me dappresso. Allora io, conoscendo Conforti come un tipo violento, sapendo che un di lui fratello qualche mese prima aveva ammazzato una sua cognata a colpi di rivoltella ed egli stesso tempo prima aveva vibrato un colpo di scure ad un suo cognato, non avendo più dubbi sulla intenzione di lui, estratto un secondo trincetto che avevo in tasca, ne vibrai un sol colpo alla coscia di Conforti, senza intenzione di ucciderlo, ma al solo scopo di difendermi

– Si? Davvero? E del furto ai danni di D’Andrea che ci racconti?

– Furto? Non sono stato io!

Senonché questa storiella, architettata nel corso non breve della sua latitanza rimane, manco a dirlo, smentita dalle numerose e concordi deposizioni di tutti i presenti al fatto e finanche dallo stesso Le Piane nella parte che lo riguarda. Quanto al furto, non solo la derubata, ma anche le donne cui Turboli vendette la refurtiva lo riconoscono come autore del furto.

Il rinvio a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario, porto abusivo di pistola, porto ingiustificato di trincetto e furto aggravato è scontato e la causa viene discussa il 9 luglio 1936.

La Corte, letti gli atti, ascoltati i testimoni e le parti, osserva: occorre appena dire che le discolpe dell’imputato, secondo cui egli avrebbe commesso il delitto in stato di legittima difesa o quanto meno in stato d’ira determinato da ingiusta provocazione della sua vittima, non ha ombra di fondamento, talché lo stesso suo autorevole difensore ha ritenuto di non poter far sua tale stolta tesi difensiva, puntando invece sulla derubricazione del reato in omicidio preterintenzionale. Dalle concordi deposizioni dei testi presenti allo svolgersi del bestiale episodio di sangue, balza fuori evidente che si è trattato di un tipico delitto d’ambiente di malavita, che a volta a volta s’illumina di bagliori sanguigni ed ove, a un tratto, si medita e si attua il delitto di sangue contro il proprio simile per sola libidine di sopraffazione dell’uomo sull’uomo e perché si ha bisogno di misurare le forze e di fare abbassare una pupilla. E questo, indubbiamente, e non altro è stato il malvagio motivo che ha spinto al delitto l’imputato, il quale per ben 14 volte ha riportato condanne per delitti contro la persona e contro il patrimonio, oltre che per altri reati. Egli infatti, avendo davanti il Conforti, sia pure giovane anch’egli poco di buono, come dicono i Carabinieri, ma che comunque a suo carico ha soltanto una condanna a mesi 3 di reclusione per il delitto di lesioni coll’attenuante della provocazione, tenta dapprima d’imporgli in presenza d’altri l’audace desiderio di essere condotto in casa della di lui fidanzata: pretesa, questa, quanto mai offensiva dell’amor proprio del Conforti, anche quando fosse vera la non dimostrata asserzione dell’imputato che si trattasse di una fidanzata alquanto avariata.

Poi la Corte descrive tutte le fasi della lite, per arrivare all’atto finale: Turboli pianta una nuova grana prendendo a pretesto la restituzione del trincetto che aveva buttato per terra e che Puntillo, dopo averlo raccolto, ha consegnato a Conforti. E poiché ad un certo punto costui, giovanilmente fiducioso nella cavalleria dell’avversario, gli consegna l’arma, Turboli ne profitta vigliaccamente per vibrare all’infelice giovane altro colpo energico, deciso, a fondo alla stessa regione della radice della coscia, ossia il colpo di scuola da lui prediletto. Poscia, scatenatasi la sua fame di sangue, si scaglia contro gli altri amici di Conforti e suoi fino a pochi momenti prima, li sbaraglia e li insegue minaccioso come il turbine. Altro che stato di legittima difesa, dunque, o stato di provocazione ingiusta da parte della povera vittima! In quella sera ci fu un provocato e fu precisamente il povero Conforti il quale, anzi, diede prova verso l’imputato di moderazione e a volte anche di soverchia mansuetudine.

Parole durissime che lasciano presagire una durissima condanna, ma la Corte dichiara di concordare con la richiesta della difesa di derubricare il reato in omicidio preterintenzionale e spiega: sebbene l’intenzione omicida sembri in apparenza dimostrata dalla dimostrata capacità dell’imputato a prorompere per un nonnulla al delitto di sangue verso il proprio simile, dalla estrema energia e decisione con cui vibrò il colpo di trincetto contro la sua vittima, nonché dalle sue stesse manifestazioni verbali rivelatrici di propositi gravi ch’egli fece prima e dopo il delitto contro Conforti e contro gli altri suoi compagni. Tuttavia, l’unicità del colpo, la direzione di questo in regione non vitale e la stessa mancanza di una causale adeguata ad un proposito estremo, lasciano fortemente dubitare ch’egli avesse avuto la precisa intenzione di sopprimere il Conforti anziché, come par più verosimile, quella soltanto di ferirlo per dargli, con una sanguinosa lezione di scherma teppistica, la prova della sua superiorità su di lui. L’imputazione va perciò degradata in quella di omicidio preterintenzionale con l’aggravante dell’arma.

Adesso c’è da esaminare il reato di furto e qui bastano poche parole: la prova della colpevolezza dell’imputato sorge manifesta e categorica dal riconoscimento esplicito e sicuro che han fatto, quale autore del furto, non soltanto la derubata, ma anche le due donne cui egli vendette la refurtiva. La Corte non ritiene né giusto, né equo accordare al giudicabile, che è un ladro incorreggibile, l’attenuante di aver cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di speciale tenuità, giacché tale non può dirsi un danno di circa 400 lire, quale quello cagionato al derubato, che è un povero contadino.

Anche per le accuse minori, relative al porto delle armi, la Corte riconosce la responsabilità di Turboli, ma adesso affronta un argomento molto contrastato dalla difesa, cioè l’applicazione dell’aggravante della recidiva. Per la Corte, documenti alla mano, non ci sono dubbi: risulta dal certificato penale dell’imputato ch’egli, non solo era recidivo reiterato sia in delitti contro la persona che in delitti contro il patrimonio, ancora prima del quinquennio antecedente la consumazione dei reati per cui è causa, ma entro il detto quinquennio dall’ultima condanna (16/1/1930) ha ancora subito ben altre sei condanne, tra cui tre per furto, una per oltraggio ed altra per evasione. Onde non può cader dubbio che ricorra in termini nei suoi riguardi l’applicazione dell’aggravio della pena dalla metà ai due terzi.

Non resta che determinare la pena da infliggere e il conteggio è abbastanza complicato: la Corte, con riguardo alle modalità del fatto, stima giusto ed equo partire dalla pena di anni 12 di reclusione che, aumentata di un solo sesto per l’aggravante dell’arma, assomma ad anni 14 e il risultato viene aumentato della metà per l’aggravante della recidiva, restando così definitivamente fissato in anni 21 di reclusione. Quanto al reato di furto, partendo dal minimo di anni 1 di reclusione e da lire 1.200 di multa, aumentando la pena detentiva della metà e quella pecuniaria di due terzi, la pena viene stabilita in anni 1 e mesi 6 di reclusione ed in lire 2.000 di multa. Quanto, infine, alle due contravvenzioni per porto di trincetto e di pistola, ritienesi congrua pena quella di mesi 3 di arresto per ciascun reato. La pena resta, pertanto, stabilita in complesso in anni 22 e mesi 6 di reclusione, in lire 2.000 di multa ed in mesi 6 di arresto, oltra alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

Il 24 febbraio 1937 la Corte di Cassazione rigetta il ricorso dell’imputato.[1]

[1] ASCZ. Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.