L’ULTIMO BRIGANTE, UNO SPIETATO ASSASSINO

Nel 1905 tra Giuseppe Gareri, alias Calenda, nato nel 1845, già capo di una banda di briganti e condannato una prima volta a trent’anni di reclusione per omicidio e poi ad altri anni di carcere (senza avere scontato nemmeno un giorno di carcere per essere riuscito a non farsi mai arrestare, emigrando clandestinamente in America e poi sempre clandestinamente ritornando, riprendendo a vivere alla macchia nei boschi), e Giuseppe Macrì da parecchio tempo esiste odio profondo perché quest’ultimo andava vantandosi di avere goduto i favori carnali di una nipote di Gareri e, il giorno in cui il brigante gli aveva chiesto conto a mano armata della vanteria, di essersi permesso di disarmarlo.

A causa di questo odio profondo che Gareri nutriva nei confronti di Macrì, il 25 giugno 1905, incurante dei mandati di cattura che pendono sulla sua testa, gironzola col fucile in spalla nel pieno centro di Chiaravalle e incontra l’avversario. Non perde tempo, imbraccia il suo fido fucile e gli spara alle spalle, centrando la regione occipitale del cranio, e procurandogli la frattura dell’osso con conseguente pericolo di vita. Miracolosamente Macrì si salva e dopo due mesi e mezzo può tornare a vivere una vita normale. Gareri, intanto, è ritornato ad essere un fantasma che appare e scompare all’improvviso, senza disdegnare di lasciare alle persone che incontra nei boschi messaggi di vendetta contro Macrì e a niente valgono i rinnovati sforzi dei Carabinieri per arrestarlo.

Sono ormai passati due anni senza che per fortuna sia accaduto nulla e il procedimento contro Gareri per il tentato omicidio di Macrì è ancora in fase istruttoria.

La mattina del 12 giugno 1907 Macrì sta andando alla masseria di un suo cugino in contrada Forni di Chiaravalle per comprare capretti quando, giunto in un sito dove la via è stretta ed incassata fra due sentieri altissimi, viene fatto segno ad un colpo di fucile, esploso da un individuo in agguato dietro un cespuglio fiancheggiante la strada. Macrì, raggiunto dai proiettili al braccio sinistro, si dà alla fuga e sente alle sue spalle una voce che gli urla:

Ancora sei vivo?

A Macrì le gambe stanno per cedere, non per il dolore che la ferita gli provoca, ma perché ha riconosciuto quella voce, la voce di Giuseppe Gareri Calenda!

– È stato Calenda a spararmi! – dice subito ai Carabinieri.

Per fortuna anche questa volta Macrì se la cava ed in un mesetto può tornare al lavoro ed il vecchio brigante, sempre uccel di bosco, il 13 novembre 1907 viene rinviato in contumacia al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro per rispondere di tentato omicidio premeditato. La causa si discute un anno dopo, il 18 novembre 1904, e la Corte non ha dubbi: la responsabilità dell’accusato risulta pienamente assodata dalle risultanze generiche e specifiche raccolte a suo carico. A sparare altri non poteva essere stato che costui, dati i gravi precedenti che esistevano tra lui e la vittima, le ulteriori minacce alla vita del Macrì fatte dal Gareri con alcuni testimoni e la circostanza che Macrì non aveva altri nemici se non il Gareri il quale, avido di vendetta, ne desiderava la strage. Il fine di uccidere è assodato dalla natura dell’arma scelta dall’accusato per eseguire il delitto, dalla breve distanza dalla quale il colpo fu esploso, dalla parte vitale presa di mira, non essendo dubbio che Gareri, per colpire il braccio sinistro e cagionargli la grave lesione, dovette indirizzare il colpo al cuore del Macrì. Come non può dubitarsi dell’aggravante della premeditazione perché essa si rileva da tutti gli atti processuali. Riguardo alla pena, visti i pessimi precedenti del prevenuto, la sua indole proclive ai delitti di sangue, la gravità del fatto da lui commesso, la Corte stima giusto applicare la pena della reclusione per anni 20.

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Alla fine dell’estate del 1908 Antonio Pitaro e Vincenzo Gareri, contadini di Chiaravalle, arrivati a Napoli per imbarcarsi su un piroscafo che li porterà in America, nonostante siano provvisti di regolare passaporto, vengono respinti all’atto dell’imbarco perché affetti da difetti fisici. Delusi, ma non rassegnati, tornano in paese e pensano a chi potrebbero rivolgersi per emigrare clandestinamente. La scelta è presto fatta: chi meglio del pericoloso latitante Giuseppe Gareri, alias Calenda, da poco ritornato clandestinamente dalle Americhe, che si aggira sulle montagne di Cenadi?

Riusciti a stabilire un contatto con Calenda, lo incontrano e gli spiegano il loro problema.

– E che problema c’è? – risponde loro – io sono pratico di questo affare e so con chi parlare; vi faccio imbarcare alla marina di Soverato. Ci diamo appuntamento qui la sera del primo dicembre, attraversiamo la montagna e la mattina dopo, o al massimo entro pochi giorni, vi imbarcherete. Mi raccomando, portate qualcosa per il comandante e non dite niente a nessuno…

I due sono al settimo cielo, finalmente coroneranno il loro sogno e potranno dare un calcio alla miseria. Intanto, però, hanno bisogno di soldi per affrontare il viaggio e racimolano, prendendole in prestito da varie persone, ottocento lire ciascuno.

– Ma siete sicuri che vi fanno partire? – i familiari dei due sono, giustamente, preoccupati.

– Sicurissimi, ce lo ha garantito Calenda!

– Calenda? Ma…

– Statevi tranquilli ché la cosa è fatta, ma non dite niente a nessuno se no lo compromettete e compromettete anche noi!

Il primo dicembre del 1908 Antonio e Vincenzo salutano i familiari e lasciano il loro paese pieni di speranza.

La sera del 2 dicembre il padre di Vincenzo Gareri, tornando alla sua casa colonica vede ad un paio di centinaia di metri suo figlio, Antonio Pitaro e Calenda, armato di fucile, che vanno in direzione della strada che mena a San Vito sullo Ionio, da dove poi si accede alle montagne di Cenadi. Li chiama a gran voce, ma nessuno dei tre risponde, forse nemmeno lo hanno sentito.

Passano un paio di settimane e nessuno dei due emigranti ha dato notizie di sé, così i familiari pensano che si siano imbarcati e ora sono in mezzo all’oceano. Ce l’hanno fatta, è ovvio.

È la mattina del 14 dicembre 1908. Vito Bonazza sta percorrendo un sentiero tra le montagne di Cenadi, quando il suo sguardo va ai piedi del burrone che è sotto di lui e scorge, mezzo coperto da arbusti, il corpo di un uomo. Affretta il passo e va ad avvisare il Sindaco di Cenadi, il quale a sua volta avvisa i Carabinieri, che si fanno subito portare sul posto, accompagnati da un medico.

– È morto da circa quattro giorni, gli hanno sparato un colpo di fucile alle spalle da breve distanza – dice il medico dopo aver esaminato il cadavere, che nelle tasche non ha né documenti, né denaro.

La notizia del ritrovamento dello sconosciuto si sparge subito nei paesi vicini, ma nessuno ci bada più di tanto, certamente non può trattarsi di qualcuno della zona perché non è scomparso nessuno, piuttosto sarà qualche profugo di Messina o di Reggio ucciso a scopo di furto.

Intanto, ai primi di gennaio 1909, Francesco Pitaro, il padre di Antonio, recatosi ad Olivadi per affari, incontra Giuseppe Celia che gli chiede se ha avuto notizie del figlio e di Vincenzo Gareri, suo cognato.

– No, ancora niente, lo sai come vanno le lettere…

– Va bene, appena sai qualcosa avvisami.

– Certamente.

– Ah! Qualche giorno fa mi è successa una cosa strana… in montagna ho incontrato Calenda che stava acquistando un loden da mastro Giuseppe il calzolaio e per pagarlo ha messo fuori dalla tasca della giacca tre portafogli, uno grande e due piccoli. Chissà a chi li ha presi…

Francesco Pitaro sbianca in volto quando sente che Calenda aveva tre portafogli perché, visto che né il figlio e né Vincenzo Gareri dopo un mese dalla partenza accompagnati dal latitante, hanno dato notizie, sospetta che due dei tre portafogli possano essere quelli di Antonio e Vincenzo, che dovevano contenere ottocento lire ciascuno. E poi c’è il rinvenimento del cadavere nelle vicinanze della strada che avrebbero dovuto percorrere per arrivare alla marina di Soverato. Tormentato da questo atroce sospetto corre dal Vice Pretore di Chiaravalle, che si era recato sul luogo del rinvenimento, e gli chiede:

– Eccellenza, quando avete visto il cadavere, avete per caso riconosciuto se era mio figlio Antonio?

– No, non era nessuno di mia conoscenza…

Francesco Pitaro se ne va, ma non è affatto rincuorato e, sempre più tormentato dal dubbio, il 10 gennaio torna in Pretura e mostra al Magistrato i residui della stoffa servita per confezionare l’abito che il figlio indossava al momento della partenza. Il Vice Pretore prende il fascicolo e confronta i pezzi di stoffa con le fotografie scattate al cadavere dello sconosciuto. Durante questa operazione, Pitaro gli chiede:

– Eccellenza, avete ritrovato addosso al cadavere un portafoglio con dentro ottocento lire?

– No, non aveva addosso niente – risponde distrattamente, continuando a confrontare stoffa e fotografie.

Questo particolare convince Francesco Pitaro che il cadavere rinvenuto nel burrone è quello di suo figlio Antonio e lo spiega al Vice Pretore che, avendo anche notato la somiglianza del campione di stoffa con l’abito indossato dallo sconosciuto, si convince della fondatezza dell’ipotesi e così ordina che si inizi a cercare l’altro giovane, Vincenzo Gareri, il quale, certamente, aveva dovuto subire l’istessa cruda sorte.

E purtroppo è proprio così. Il 23 gennaio successivo, in un burrone ad appena cento metri da quello dove era stato rinvenuto il primo cadavere, vengono rinvenuti i resti di Vincenzo Gareri, ucciso con le stesse modalità del suo compagno di sventura: un colpo di fucile alle spalle, esploso a breve distanza. Nelle tasche non c’è il portafoglio e adesso è chiaro che entrambi sono stati uccisi per commettere il furto dei loro averi. Che Antonio e Vincenzo siano stati uccisi dalla stessa persona è certo sia per le modalità degli omicidi, la corrispondenza dei proiettili e sia perché entrambi sono stati nascosti dall’assassino in due piccoli burroni tra frustici e coperti con felci secche per sottrarli alla vista di qualcuno che per caso si fosse trovato a passare per quella via solitaria. E l’assassino non può essere che Giuseppe Gareri, alias Calenda, del quale, ovviamente, non ci sono tracce.

Poi, tra la fine di gennaio ed i primi di febbraio, da alcune lettere arrivate dall’America del Nord, si assicura che il terribile assassino si trova già giunto in quelle regioni al sicuro e questo con molta probabilità vuol dire che i due giovani sono morti per permettere a Calenda di tornarsene in America.

Gli esami autoptici eseguiti sui due corpi accertano che i due giovani morirono esclusivamente per i colpi di fucile Vetterli (fucile monocolpo calibro 10,35X47 mm di fabbricazione svizzera, adottato nel 1870 da tutti i reparti di fanteria dell’Esercito, compresi i Bersaglieri) che, esplosi a breve distanza, li raggiunsero nella regione dorsale, attraversarono gli addomi, lesero le anse intestinali e produssero profuse emorragie interne.

Non c’è bisogno di altro. La Sezione d’Accusa rinvia il latitante assassino al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro per gli omicidi premeditati di Antonio Pitaro e Vincenzo Gareri, commessi per consumare i furti ai loro danni.

La causa si discute il 12 novembre 1909 col rito contumaciale. La Corte osserva: gli elementi di prova sono gravi, seri e concordanti contro Giuseppe Gareri Calenda da far ritenere, senza il minimo dubbio, che egli fu l’autore dell’efferata strage di Pitaro Antonio e Gareri Vincenzo e che la compì in seguito ad un disegno precedentemente fatto e meditato ed a scopo di impossessarsi delle somme che le due infelici vittime avevano addosso per emigrare.

Né durante l’istruttoria e né durante il dibattimento si è perso tempo per cercare di ricostruire la dinamica dei fatti, ma sembra evidente che dopo aver sparato al primo dei due che gli venne più facilmente a tiro, Calenda dovette prima ricaricare il fucile Vetterli monocolpo e poi mettersi ad inseguire l’altro, che nel frattempo stava scappando. Il giovane, certamente più veloce di un uomo ormai sessantacinquenne, dovette inciampare e cadere, dando il tempo all’assassino di avvicinarsi e, mentre si rialzava per tentare nuovamente la fuga, di raggiungerlo e freddarlo. Quindi Calenda gli portò via il portafoglio, lo buttò nel burrone, vi discese e lo ricoprì. Poi tornò indietro e ripeté l’operazione sull’altra vittima, quindi tornò a nascondersi in montagna e, una volta acquistato il loden da mastro Giuseppe il calzolaio, partì a piedi per il luogo dell’imbarco clandestino.

Affermata la responsabilità dell’imputato contumace, alla Corte non resta che determinare la pena da comminare: avendo il Giuseppe Gareri Calenda con un medesimo fatto violato diverse disposizioni di legge, deve essere punito secondo la disposizione che stabilisce la pena più grave, cioè con la pena dell’ergastolo, più spese, danni e pene accessorie, alla perdita della patria potestà, alla perdita dell’autorità maritale e della capacità di testare. Deve essere ordinata la stampa per estratto della sentenza di condanna all’ergastolo per l’affissione nel Comune di Catanzaro ed in quello di Cenadi dove i reati furono commessi ed in quello dove il condannato ha avuto l’ultima residenza.[1]

Del terribile assassino, ultimo brigante, non si hanno più notizie.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.