La mattina dell’8 febbraio 1934 la vedova Rosaria Ferraro da Rende va con la sua figlioletta Ida in contrada Cantieri a raccogliere frasche e siccome il lavoro per una donna ed una bambina è troppo duro, le accompagna Pietro Vercillo, il fratello del di lei defunto marito, che ha sempre sostenuto ed aiutato amorevolmente sia la cognata che i nipoti.
Il lavoro va avanti senza intoppi e verso mezzogiorno i tre si fermano per mettere qualcosa sotto i denti, poi riprendono di buona lena per un’oretta quando Pietro, improvvisamente e senza alcun motivo, brandisce la scure e sferra un tremendo colpo alla testa di Rosaria, fratturandole l’osso temporo-parietale destro, dandosi subito alla fuga.
Rosaria è a terra incosciente e la piccola Ida, paralizzata dalla paura, prova ad urlare per chiedere aiuto, ma dalla sua bocca spalancata non esce alcun suono. Solo quando vede la mamma muoversi e socchiudere gli occhi le lacrime le solcano il viso, la tensione si scioglie e corre verso di lei urlando.
Accorrono alcuni contadini che sono nelle vicinanze, trasportano Rosaria a casa e delicatamente la adagiano sul letto, ritornata incosciente.
Pietro fa un largo giro per le campagne, poi va in paese a costituirsi nella caserma dei Carabinieri e racconta:
– Da circa quattro anni era stata acquistata da mia cognata Rosaria la casa ove abita ad un prezzo superiore al suo valore, onde temevo che, un giorno o l’altro, avessero obbligato me a prendermi la casa allo stesso prezzo. Convinto di ciò, chiesi a mia cognata se mi era stato fatto qualche inganno ed avendomi risposto “te la vedi tu”, io alzai la scure e gliene vibrai un colpo col taglio.
Il Maresciallo Giovanni Pedranghelu è perplesso: possibile che una donna sia in fin di vita per questo ragionamento sconclusionato? Comunque non si può omettere di indagare e per primo viene chiamato a deporre Eugenio, il figlio maggiore di Rosaria, che, con documenti alla mano, è categorico:
– Nell’affare della compra della casa, avvenuta col denaro che mio padre mandò dall’America, mio zio non ha avuto nulla a che vedere. Forse come parente ha fatto le trattative, ma poi la compra l’ha fatta mia madre, perciò non so come nella sua testa sia potuto sorgere il sospetto che un imbroglio si era fatto ai suoi danni.
Rosaria ha momenti di lucidità e di uno di questi approfittano gli inquirenti per farsi raccontare come sono andati i fatti:
– Mentre io e mio cognato discutevamo circa l’irrisorio prezzo con cui alcuni macellai volevano acquistare i di lui agnelli, ad un tratto mi sentii un forte colpo alla testa… quando rinvenni Pietro non era più in mia compagnia, il che mi fa supporre che fu precisamente lui a colpirmi con la scure che teneva in mano.
– Sappiamo che eravate in ottimi rapporti, è così?
– Tra me e mio cognato Pietro vi sono stati sempre buoni rapporti e da quando rimasi vedova ha avuto per me fraterne premure, infatti giornalmente si interessava del mio stato economico e della salute dei miei figli…
Ascoltati altri testimoni, la perplessità del Maresciallo è fondata: il movente offerto da Pietro è insufficiente a giustificare tanto orrore e si comincia a scavare nelle vite dei cognati per cercare di scoprire il vero movente, magari passionale.
Intanto, dopo nove giorni di agonia, Rosaria muore e adesso il reato di tentato omicidio sul fascicolo a carico di Pietro Vercillo viene corretto in omicidio volontario.
Ogni sforzo è vano, non emerge assolutamente nulla, tanto meno nell’ambito passionale, che possa giustificare l’atto di Pietro ed il Maresciallo verbalizza: è da escludere che il Vercillo fosse stato spinto al delitto da movente passionale, essendo ogni supposizione in tali sensi assolutamente infondata; il delitto manca di causale e fu compiuto in un momento di aberrazione.
Il codice dice che non c’è bisogno di un movente per procedere e così il Giudice Istruttore, il 7 aprile 1934, appena due mesi dopo il fatto, rinvia Pietro Vercillo al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario.
Durante il dibattimento, però, emergono gravi e fondati indizi sullo stato mentale di Pietro Vercillo e su richiesta sia della difesa che del Pubblico Ministero, il 22 novembre 1934 la Corte dispone la trasmissione degli atti al Giudice Istruttore perché proceda a far sottoporre l’imputato a perizia psichiatrica e il manicomio giudiziario che se ne occuperà è quello di Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina, meglio conosciuto come l’anticamera dell’inferno.
Il 7 marzo 1935 i periti consegnano la relazione con la quale, premesso che dall’anamnesi familiare abbiamo rilevato sul prevenuto parecchie tare psicopatiche, essendo il di lui padre ed uno zio frenastenici, un altro zio si era suicidato; un terzo era stato ricoverato nel manicomio di Nocera Inferiore; premesso che il prevenuto è stato sempre un alcolizzato, di carattere eccentrico, facile ad eccitarsi e a divenire impulsivo; dato valore di sintomo alla circostanza che il delitto era stato commesso senza causa; dato rilievo al fatto che il prevenuto avea sofferto anni prima per un’insolazione per cui rimase diversi mesi sotto cura e che posteriormente cadde da cavallo battendo con la testa a terra e rimanendo per qualche ora stordito; rilevate alcune asimmetrie craniche; accertato che il prevenuto ha disordine del contegno, percezione tarda, confusione nelle idee, disturbi psico-sensoriali, giudichiamo:
- Che egli è affetto da psicosi delirante presenile, onde è da considerarsi un ammalato di mente con delirio persecutorio, assenza di freni inibitori, tendenza agli impulsi ed alle azioni immotivate ed antisociali.
- Ch’egli per le condizioni psichiche menomate – preesistenti al delitto – non avea all’epoca del commesso reato, né l’ha in atto, capacità d’intendere e di volere.
- Che per la permanenza dei fenomeni allucinatori, lasciato libero, sarebbe un pericolo per la società, potendo sempre ricadere in atti antisociali.
Per riprendere il dibattimento bisogna aspettare fino all’11 marzo 1936 e la parte civile dichiara di avere ritirato la sua costituzione perché è stata risarcita dei danni ed il Pubblico Ministero chiede che, visti i risultati della perizia psichiatrica, l’imputato venga assolto per vizio totale di mente.
La Corte osserva che, non avendo elementi per giudicare che gli accertamenti psichiatrici siano erronei o comunque inaccettabili, non può che uniformare il suo giudizio alle conclusioni peritali, dichiarando che il prevenuto, quando commise il fatto, non era imputabile per essersi trovato infermo di mente al segno da non avere capacità di intendere e di volere e deve pronunziarne l’assoluzione.
Poi aggiunge: considerato che l’assoluzione per infermità psichica, come nel caso, importa il ricovero dell’imputato in un manicomio giudiziario per la durata minima di cinque anni, avendo egli commesso il fatto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore a dieci anni.[1]
Per la durata minima di cinque anni. In realtà è una condanna mascherata all’ergastolo da scontare nell’inferno.
[1] ASCS, Processi Penali.