PEPPINUZZU DI MALACAPUZZA

Non manca molto alla mezzanotte del 27 gennaio 1942 quando i Carabinieri di Spezzano Albanese bussano alla porta di casa del dottor Candreva.

– Dov’è il ferito? – chiede il comandante alla persona che apre la porta. Un cenno con la testa gli indica la prima stanza sulla destra. Dentro, oltre al medico, ci sono alcune persone e un uomo steso sul lettino dello studio. Il dottor Candreva si avvicina al Maresciallo e gli dice:

– Si tratta di Attilio Celano da Terranova, è grave. È stato ferito da un colpo di rivoltella al globo oculare sinistro e il proiettile è uscito a due dita traverse superiormente alla intersezione del lobo auricolare sinistro. Quella è la madre – termina, indicando una donna che piange sommessamente seduta accanto al ferito.

– Si sa come sono andati i fatti e chi è stato? – gli chiede ancora il Maresciallo, ma il medico fa spallucce e risponde:

– Non è ancora del tutto incosciente, provate a chiederglielo. Il Maresciallo glielo chiede e il ferito, con un filo di voce, risponde:

Peppinuzzu di Malacapuzza… con una rivoltella…

– Chi?

– Giuseppe Porco, chi se no? È il soprannome! – interviene la madre del ferito con rabbia, che continua – diverse volte Attilio, anche una quindicina di giorni fa, ha questionato con Peppinuzzu per un passaggio che la nostra famiglia intendeva esercitare attraverso un fondo appartenente al nonno di Peppinuzzu, con lui convivente, onde potere arrivare nel nostro fondo in contrada Scure, proprio dove il mio Attilio è stato trovato ferito – poi si rimette a piangere e battersi il viso per la disgrazia di vedere suo figlio ridotto in quello stato.

Attilio Celano, ricevute le cure possibili da parte del medico, viene caricato su di un’automobile e portato a casa a Terranova da Sibari, mentre i Carabinieri vanno ad arrestare il diciottenne Giuseppe Porco e lo interrogano:

– Attilio chi? Io nemmeno lo conosco! Si, sono stato in contrada Scure da mio nonno, ma fino alle cinque di pomeriggio, poi sono andato con mio zio Salvatore a Terranova da Sibari, facendo ritorno in contrada Scure verso le sei

Lo zio, interrogato, potrebbe inguaiarlo:

Sono stato con mio nipote Peppinuzzu fino a verso l’una dopo mangiato, poi sono andato a far legna e l’ho lasciato che ancora mangiava. Malgrado lo invitai a raggiungermi, venne solo verso le tre e lo rimproverai.

Nel fondo del nonno di Giuseppe Porco lavora anche un pastore, Damiano Indrieri, che viene interrogato:

Portavo gli animali al pascolo verso le due dopo mangiato e mentre passavo accanto ad un abbeveratoio sono stato raggiunto da Peppinuzzu, il quale mi ha detto di aspettarlo in quel posto perché egli si allontanava per fare un’”imbasciata” e sarebbe presto ritornato. Mentre lo aspettavo ho sentito l’esplosione di un colpo di arma da fuoco. Ho aspettato ancora il suo ritorno e siccome tardava mi allontanai dall’abbeveratoio portando gli animali al pascolo, poi l’ho trovato alla masseria

Ahi! Guai in vista, anche perché anche altri testimoni dicono di avere sentito alla stessa ora un colpo d’arma da fuoco ed uno di questi aggiunge di avere anche visto, subito dopo la detonazione, fuggire una persona verso la parte bassa della contrada Scure, che indossava indumenti dello stesso colore di quelli indossati da Peppinuzzu al momento del fermo. Adesso il sospettato deve dare spiegazioni convincenti a queste contestazioni, ma non ci riesce e alla fine ammette:

– Sono stato io a sparare ad Attilio Celano…

– Perché?

Quasi un anno addietro acquistai da un pastore di Morano una rivoltella carica di due colpi soltanto, dei quali uno lo sparai al momento dell’acquisto per accertarmi del buon funzionamento dell’arma e mai ho avuto occasione di portare addosso l’arma. Invece il 27 gennaio me la sono messa in tasca e sono andato a trovare Attilio per fargliela vedere e per scherzo gli ho detto che lo avrei sparato e ho fatto il gesto… ma per disgrazia è partito il colpo… quando mi sono accorto che l’avevo colpito sono scappato e ho buttato l’arma nelle vicinanze

– Ma è vero che i Celano vogliono il passaggio nel fondo di tuo nonno e voi non siete d’accordo?

– Si, è così.

Quindi sarebbe stata una tragica fatalità e quindi di un delitto colposo, ma il Maresciallo ha seri dubbi su questa versione perché, contrariamente a quanto dicono i familiari di Peppinuzzu circa i rapporti di cordiale amicizia tra i due giovani e le loro rispettive famiglie che, addirittura, potevano considerarsi come un’unica famiglia, ha raccolto testimonianze che riferiscono di contrasti, sia pure non gravi, verificatisi tra l’imputato e il fratello della vittima. Poi c’è la deposizione di Cherubino D’Amico:

Trovandomi verso il dieci gennaio in un mulino ove si trovavano pure le madri di Attilio Celano e Peppinuzzu Porco, la prima ebbe a dire all’altra: “Perché tuo figlio tormenta i miei figli?”.

Secondo gli inquirenti è evidente che questa domanda non avrebbe avuto significato se non si rapportasse ad angherie che Porco infliggeva ai fratelli Celano. E infine c’è la contraddizione in cui è caduto Peppinuzzu quando ha ammesso i contrasti con i Celano per il diritto di passaggio che vogliono negare perché gli animali della famiglia Celano avevano prodotto dei danni al proprio pastore.

Con questi indizi il Maresciallo lo denuncia all’autorità giudiziaria per tentato omicidio premeditato. Ma il giorno dopo, siamo al 29 gennaio, Attilio muore e l’imputazione diventa omicidio premeditato.

Interrogato dal Giudice Istruttore, Peppinuzzu smentisce quanto ha dichiarato ai Carabinieri, ma ciò viene considerato quale frutto di riflessione sulla importanza che le prime affermazioni avevano per il sistema difensivo adottato. Così, il 25 febbraio 1943, il Giudice Istruttore lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con l’imputazione da ergastolo.

La causa si discute il 2 marzo 1944 e la Corte, letti gli atti, ascoltati i testimoni ed affermata, secondo tutte le risultanze processuali, la responsabilità di Giuseppe Porco quale autore dell’omicidio in persona di Attilio Celano, osserva che l’unico aspetto da verificare è se sussista o meno l’aggravante della premeditazione o se, come sostiene la difesa, si sia trattato di un omicidio colposo. La Corte, enumerate tutte le circostanze portate come prova dall’accusa e quelle a discarico presentate dalla difesa, basa la prpria decisione su un passaggio sfuggito a tutti: un argomento per dedurre che uno stato di attrito doveva essere tra Giuseppe Porco ed i Celano per il fatto del passaggio che questi esercitavano, si desume in modo preciso da questa circostanza: il Giudice Istruttore che si recò sul luogo del delitto per farne la descrizione, rilevò che proprio nel punto in cui il sentiero si biforca, esisteva una siepe che era stata abbattuta da poco tempo e che, come era stata piantata, ostruiva il passaggio. Il che significa che l’imputato ed altri della sua famiglia aveva dimostrato con fatto concreto che i Celano non dovevano servirsi di quella via. E se i rapporti non erano buoni, non può essere vero che l’imputato si recò dall’Attilio Celano per fare con costui quattro chiacchiere, come egli sostiene. La versione data dall’imputato per attribuire a colpa e non a volontà l’esplosione dell’arma non è tale da convincere. Già va detto che egli non fu uniforme nel riferire lo svolgimento del fatto: affermò nell’interrogatorio reso al Maresciallo che, appena estratta la rivoltella, non pensando fosse l’arma carica, scherzando disse a Celano che lo avrebbe sparato ed infatti, così dicendo, fece partire il colpo; nell’interrogatorio reso al Giudice Istruttore spiegò che, avendo detto che egli aveva l’arma, il Celano manifestò il desiderio di vederla, che così l’arma passò di mano in mano e mentre l’aveva lui partì il colpo. Poi ritornò alla versione riferita al Maresciallo e nel dibattimento ha aggiunto che il Celano ebbe in mano la rivoltella e cercò di sparare senza che alcun colpo partisse. Quando egli ebbe l’arma in mano fece l’atto di sparare e questa volta il colpo partì ed attinse Celano. Ora, nessuna di queste versioni, così varie, risulta confermata, né da testimoni, tanto meno dagli atti generici che, anzi, escludono ogni fondamento a tutte le versioni che l’imputato dette del fatto.

Poi spiega: le versioni dell’imputato dovrebbero avere per presupposto che egli ed il Celano dovevano essere a brevissima distanza, sia che l’arma fosse passata dalle mani dell’uno a quelle dell’altro, sia che il Celano avesse cercato, ma inutilmente, di sparare l’arma che invece sparò quando si trovò nelle mani dell’imputato. Di nessuna di quelle tracce si riscontra nelle ferite prodotte da arma da fuoco sparata a breve distanza fu fatta menzione nel referto del dottor Candreva, che per primo osservò il ferito. Di esse non si trova menzione neppure nel verbale di autopsia: esse furono poi del tutto escluse dai periti settori quando furono richiamati per dare chiarimenti. Ad escludere poi ogni ipotesi di colpa basta riferirsi al contegno dell’imputato successivamente al fatto: buttò l’arma con cui aveva ferito il Celano e poscia si dette alla fuga verso valle, senza ritornare presso il pastore Indrieri al quale aveva prima detto di attenderlo presso l’abbeveratoio, ove egli sarebbe ritornato sbrigata l’”imbasciata”. Un contegno rivelatore mantenne poi nei confronti del padre del ferito. Questi, informato che il figlio Attilio, malgrado l’ora tarda, non era ancora rincasato, si avviò verso il fondo di contrada Scure per rintracciarlo. Imboccato quel viottolo su cui si contendevano il passaggio, chiamò a voce alta il figlio pensando che questi fosse ancora nel fondo. Passò avanti la casetta abitata dall’imputato al quale domandò se avesse visto l’Attilio e ne ebbe in risposta le seguenti parole: “non ti capisco”. L’imputato seguì il Celano padre verso la valle e quando questi, non avendo avuto risposta alle chiamate, ritornò sui suoi passi era sempre seguito dall’imputato. Tutte queste circostanze, specialmente queste ultime, sono in contrasto con il contegno che avrebbe serbato chi avesse soltanto per colpa prodotto una lesione al altri, specialmente se con il ferito avesse avuto buoni rapporti d’amicizia, tanto da avere quasi comunanza di vita, di abitudini e di gioco, come l’imputato vuole fare credere.

Potrebbe bastare, ma la Corte vuole togliere ogni appiglio alla difesa e continua: e se ancora fosse necessario indicare altri elementi ad escludere il fatto colposo, basterebbe ricordare quanto affermarono i periti nei chiarimenti dati. Affermarono cioè che il colpo fu ben centrato, il che significa che fu congegnato d’attenzione, circostanza codesta che trova una conferma in una affermazione fatta dall’imputato nell’interrogatorio avanti al Maresciallo, al quale riferì che egli disse “scherzando al Celano che lo sparava” e nell’altra fatta nel dibattimento “ignorando che l’arma fosse carica facevo finta di sparare”.

La circostanza che Peppinuzzu ignorava che l’arma fosse carica anche se con un solo colpo è uno dei punti centrali della sua difesa e sarebbe anche possibile, come purtroppo è avvenuto in tante altri stupidi, tragici giochi. Ma c’è un particolare che smentisce questa tesi e a fornirlo è sempre l’imputato quando, nell’interrogatorio reso al Maresciallo, per giustificare il possesso della rivoltella, ammette che l’arma era originariamente carica con due colpi e che ne sparò uno per verificarne il funzionamento. Quindi era cosciente che un colpo c’era. Ma potrebbe essere possibile che se ne fosse scordato dopo un anno che non la prendeva. E poi la rivoltella era vecchia, anche mezzo arrugginita e non era certo che potesse sparare. No, ribatte la Corte, la perizia ha certificato che risultava abbondantemente lubrificata in data assai recente rispetto alla data del delitto. E questo sgombra il campo da ogni dubbio perché se l’imputato lubrificò l’arma poco tempo prima del delitto dovette accorgersi dell’esistenza del proiettile.

Nuvole nere che minacciano l’ergastolo si addensano sulla testa di Peppinuzzu, ma la Corte le soffia via sostenendo che non pare, però, che abbia rispondenza o realtà ritenere che l’imputato abbia agito con volontà omicida. Un mezzo preciso, idoneo ad accertare nei singoli casi che chi produce con una propria azione la morte di una persona abbia avuto la volontà di uccidere manca: nell’accertare se una tale volontà alcuno abbia avuto è indispensabile fare riferimento a mezzi indiretti dai quali si desume poi quale è stata la vera volontà dell’agente. Si suole dire che per siffatta indagine hanno rilevanza i mezzi adoperati, le parti del corpo colpite, la ripetizione dei colpi. Ora non vi ha dubbio che il mezzo, una rivoltella, è idoneo a produrre la morte di una persona; non vi ha dubbio neppure che colpire alla testa può fare rilevare si abbia avuta volontà omicida; ma non può contestarsi che l’imputato sparò un solo colpo e che nessun altro colpo poteva sparare perché l’arma aveva un solo proiettile. Non può avere volontà di uccidere chi si reca a trovare colui contro cui vuole sparare, portando seco un’arma con un solo proiettile. Bisognerebbe pensare a persona più che pratica nel maneggio delle armi, che si tratti, cioè, di persona che non fallisce colpo e tale non può dirsi l’imputato, anche per la sua giovanissima età. Né è risultato, malgrado le domande rivolte a più di un testimone, che il padre dell’imputato abbia, ritornando dall’America, portato delle armi, in modo da potere ritenere che egli abbia avuto la possibilità di maneggiarle ed usarle. Ed a ritenere l’ipotesi dell’omicidio oltre l’intenzione si è indotti anche dalla non rilevante causale: in sostanza, tra Attilio Celano e Giuseppe Porco nessun fatto grave si era verificato che potesse determinare quest’ultimo a sopprimere il primo; vi erano state delle divergenze a proposito del passaggio che su di un viottolo intendevano esercitare quelli della famiglia Celano e che l’imputato, pur non essendo il proprietario del terreno sul quale il viottolo si svolgeva, contrastava. Vi erano stati altri piccoli fatti, ma nessuno accertato per cui l’imputato volesse l’uccisione di Attilio Celano. Più aderente, pertanto, alla realtà appare ritenere che Giuseppe Porco ebbe la volontà di ledere il Celano e che dall’azione da lui compiuta sia derivato un evento dannoso più grave di quello voluto.

E se per la Corte si tratta di omicidio preterintenzionale, è ovvio che non ha più senso parlare di premeditazione e si può passare a determinare l’entità della pena da irrogare all’imputato per il reato di omicidio preterintenzionale, aggravato dall’arma: valutate le modalità del fatto, l’intensità del dolo, i precedenti dell’imputato, nonché l’età dello stesso; tenuto conto anche dei limiti della pena stabiliti dal legislatore, ritiene la Corte sia equa la reclusione per la durata di anni 12, compresa l’aggravante dell’arma nella misura di anni 1, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

In applicazione del R.D. 17 ottobre 1942, la Corte dichiara condonati anni 3 della pena.

È il 2 marzo 1944.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.