Verso le 21,30 del 15 luglio 1911 un incaricato del Comune di Malito bussa alla porta della caserma dei Carabinieri di Grimaldi ed al militare che apre la porta, porgendo la busta, dice:
– Da parte del Sindaco per il comandante, è urgente! – poi, senza aspettare altro, gira i tacchi e se ne va. Il Carabiniere porta la busta al Vice Brigadiere Ottorino Caligiuri che, dopo averla aperta e letto il foglio che vi è contenuto, gli ordina:
– Preparati in fretta, nelle campagne di Malito qui adiacenti c’è stato un ferimento in rissa.
Il tempo di indossare le giberne e Caligiuri e il Carabiniere Angelo Bruna si avviano a passo svelto. Strada facendo un ripetersi di grida strazianti già annunzia ai due qualcosa di grave e, accelerando quanto più possibile il passo, giungono a Malito alle ore 21,53, accolti dal Sindaco Giacomo Funari.
Più o meno un paio di ore prima del momento in cui è stata consegnata la lettera ai Carabinieri, a Malito il sessantaduenne Francesco Amendola sta chiacchierando in un crocchio di persone, quando un passante, senza rivolgersi a qualcuno in particolare, dice:
– Non sapete niente? Pare che in contrada Padula hanno ammazzato Giuseppe Amendola!
Francesco Amendola, sentendo pronunciare il nome del figlio Giuseppe rimane inorridito e corre a casa per informare la moglie della voce che sta girando in paese e la trova che si sta battendo il viso e strappando i capelli, già informata. L’anziano Francesco allora pensa bene di avviarsi verso la contrada e, ivi giunto, le persone presenti non lo fanno avvicinare al figlio disteso per terra.
– Non parla, gli hanno sparato una fucilata… – gli dicono.
– Ma chi è stato?
– Pare Celestino Stumpo…
Francesco Amendola capisce che suo figlio è grave e torna in paese in cerca del medico, ma dopo un po’ anche lui sente il ripetersi di grida strazianti e capisce.
Torniamo al Vice Brigadiere Caligiuri ed al Sindaco.
– Un colpo d’arma da fuoco… è morto, si chiamava Giuseppe Amendola e aveva vent’anni… – gli comunica il Sindaco – venite, vi accompagno a casa, è qui dietro la piazza.
Giuseppe giace supino, regolarmente disteso sul letto, ravvolto negli indumenti intrisi di sangue; le braccia seminude pendono verso l’addome; sulla bocca e verso il lato destro poco sangue agglomerato. Sulla spalla destra una ferita, penetrante verso il torace, della larghezza di un proiettile calibro 16, leggermente umidiccia del sangue che ancora sgorga.
– Si sa chi è stato? – sussurra Caligiuri all’orecchio del Sindaco.
– Si, il diciottenne Celestino Stumpo, falegname di qui.
Il Vice Brigadiere lascia il sottoposto a piantonare il cadavere e, accompagnato dalla Guardia Municipale Michele Riggitano, da Pasquale Angotti e da un congiunto del morto che spontaneamente si sono offerti di dargli una mano, si mette in cerca del presunto omicida, anzitutto recandosi a Belsito dove si ritiene certo essersi rifugiato in casa di una zia materna. Accompagnati dal Sindaco di Belsito, verso le 3,00 del 16 luglio perquisiscono minuziosamente l’abitazione, ma il ricercato non c’è. Allora proseguono le ricerche nelle campagne prossime e distanti, nelle casette rurali ed in ogni anfratto, ma senza risultato. All’alba le ricerche vengono interrotte ed i quattro vanno in contrada Padula, il luogo del delitto, dove sono ancora evidenti le tracce di sangue, ma non altri indizi. Allora Caligiuri si dedica a raccogliere testimonianze utili a ricostruire tanto il fatto che il movente. Alla fine della giornata, stanco morto, si siede alla sua scrivania e mette giù la ricostruzione della vicenda:
da circa due anni il povero ucciso, delle migliori doti umane, era ufficialmente fidanzato con la giovanetta diciassettenne Adelina Gagliardi, tanto che in questi ultimi giorni, e propriamente il 16 luglio, dovevano stabilire i capitoli matrimoniali. Da due mesi in qua l’omicida andava pure insinuandosi con l’Adelina per lo stesso motivo e più del solito frequentava la casa di un suo parente, attigua a quella della giovane, per tentare di accattivarsi la simpatia di questa, la quale non gli diede mai retta per l’affetto sincero che nutriva pel Giuseppe. Credette opportuno, allora, di scrivere una lettera alla madre di lei chiedendo la mano dell’Adelina, lettera che gli fu restituita col fargli sapere, come già sapeva, che la giovane era di già impegnata con l’Amendola e stavano anche per fare i capitoli relativi, ragione per cui non poteva aderire alla richiesta. Da quell’epoca lo Stumpo pare fece proposito di mettere ostacolo a quella relazione e si andava facendo premure di avvicinare l’Amendola per incutergli timore con delle minacce.
Il povero Giuseppe Amendola, esimio ed onesto lavoratore, dal burrone di contrada Padula trasportava con un quadrupede della sabbia al paese. In quelle vicinanze e nel proprio campicello accudivano alla mietitura la fidanzata di lui e le di costei sorelle. Verso sera, all’ultimo viaggio, Amendola diede l’incarico ad un suo parente di accompagnare al paese la vettura ed egli si recò a tener compagnia alle tre femmine. In quelle contrade si aggirava lo Stumpo, armato di fucile a retrocarica, che si avvide del colloquio degli amanti ed allora, colto da gelosia, alla presenza di Angotti Pasquale, disse “io l’ammazzo!”. Incominciò, difatti, a provocarlo e l’Amendola, d’indole buona e docile, non preoccupandosi degli insulti e per evitare conseguenza, si allontanò da quel luogo, dirigendosi per altra strada verso Malito. S’interpose intanto l’Angotti a pacificare l’ira dello Stumpo, ma l’ira non era sedata ed il proposito di compiere il delitto si accentuava come la più calorosa passione per la giovane e, visto l’Amendola seduto al quadrivio della casa colonica Gagliardi ad attendere le donne che stavano pure per lasciare il lavoro e rincasare insieme, tornò indietro, sostituì ad una cartuccia la carica a piccolo piombo con una pallottola e con tono quasi amichevole lo invitò ad avvicinarsi, andandogli incontro. Lo sventurato si mosse di pochi passi da dove stava seduto e l’altro, che gli stava alla distanza di circa 4 metri, mentre l’Angotti lo seguiva per impedirlo nel delittuoso proposito, spianò il fucile esplodendogli un colpo che lo fece stramazzare al suolo. Erano le ore 19.
Lo Stumpo si diede subito alla fuga, mentre le tre sorelle Gagliardi accorsero insieme all’Angotti per soccorrere il colpito che dava pochi segni di vita. Egli balbettò poche parole incomprensibili, disse poi chiaramente alla fidanzata “son morto per amare te. Mi ha sparato Celestino…” e mentre veniva trasportato a casa dalla gente accorsa, nei pressi della casa colonica Grandinetti in contrada Amarelli, spirò.
Come afferma l’Angotti, si trovava pure presente in ogni particolare del fatto il giovanetto De Marco Francesco, d’anni 13, apprendista calzolaio da Malito, il quale al nostro interrogatorio disse di nulla sapere e ciò perché parente dell’imputato. Oggi alle ore 18,30, mentre ci occupavamo pel rintraccio dell’omicida, siamo stati invitati a recarci in contrada Petrara dove la contadina Muta Fortunata ci ha consegnato il fucile di cui lo Stumpo si servì per compiere il delitto, accertato per suo da persone che lo conoscevano, retrocarica a percussione centrale, calibro 16, ancora con il bossolo del colpo fatale nella canna destra.
Siccome i locali di Amendola Vincenzo, marito della Muta, furono da noi diligentemente perquisiti perché vi sostò l’imputato dopo commesso il fatto, specialmente il fienile ove disse la donna di aver rinvenuto per caso l’arma omicida, questa circostanza di fatto in confronto alla nostra perquisizione infruttuosa e con le affermative dei coniugi Amendola nel nostro interrogatorio, ci fanno convincere come entrambi favorirono l’omicida.
Ma riguardo ai rapporti tra il povero Giuseppe e la fidanzata Adelina, il padre della vittima non la pensa come il Vice Brigadiere Caligiuri e nella sua querela racconta:
– L’amoreggiamento di mio figlio con Adelina datava da circa quindici mesi e pur amandosi reciprocamente v’era disaccordo fra le famiglie rispettive, unicamente per ragioni d’interesse. E siccome mio figlio era disposto a sposarla senza preoccuparsi della quistione economica, così io cercai di dissuaderlo, consigliandolo a interrompere la frequenza in quella casa, per poi ripigliarla appena stabiliti gli accordi. Non vi andò, infatti, per dieci o dodici giorni. Ma essendo andato a lavorare lì vicino, ieri dové sentir ridestarsi gli antichi sentimenti, che d’altra parte non erano mai stati spenti e quindi fu costretto a far visita alla Gagliardi. Non so di certo quali sentimenti nutrisse l’uccisore verso mio figlio e verso Adelina Gagliardi. Certo è che ieri sera in casa mia, da persona che non ricordo, seppi che aveva inviato per mezzo della zia una lettera all’Adelina ed anzi devo dire che qualche giorno fa mio figlio mi fece comprendere che lo Stumpo pretendeva la stessa ragazza. Io gli dissi di non curarsene perché non credetti, ma il fatto è che Giuseppe cercava una certa fretta per riprendere le trattative allo scopo di stringere il legame o di scioglierlo. La voce pubblica intanto dice, e così io ritengo, che lo Stumpo si sia recato in contrada Padula unicamente per uccidere mio figlio, tanto più che in paese, non so se nella mattina o nelle ore pomeridiane, andava in cerca di polvere per andare a caccia.
Poi viene ascoltata Adelina Gagliardi, che racconta:
– Amoreggiavo con Giuseppe Amendola da circa due anni, di cui uno è stato il fidanzamento regolare perché fin dall’anno scorso mi richiese in sposa e la richiesta venne accettata dalla mia famiglia, ma a causa di ragioni economiche avanzate dalla famiglia di lui, la quale chiedeva che la mia mi assegnasse mille lire di dote, alla quale pretesa i miei non volevano sottostare, vi è stato un periodo di raffreddamento fra le famiglie, ma fra noi abbiamo continuato ad amarci, punto preoccupandoci dei dissensi per le ragioni indicate. Una volta mancò da casa mia due mesi, un’altra volta quindici giorni e ciò perché mia madre si opponeva che continuasse uno stato di cose incerto. I quindici giorni di assenza da casa mia avvennero ultimamente e fu proprio ieri che interruppe tale periodo di assenza, in vista dei capitoli matrimoniali che dovevano avvenire proprio oggi. Ieri, mentre io e le mie sorelle eravamo intente a mietere il grano in contrada Padula, vedemmo passare Giuseppe che si recava ad estrarre della sabbia e nel vederci ebbe cura di scendere dal mulo e venirci a trovare. Era appena giunto quando intervenne Francesco Scatrapea, il quale pretendeva me in isposa, e Giuseppe nel vederlo, senza dir nulla, riprese il mulo e andò via. Tornò dopo pochi minuti e rimase contento avendo saputo che mia sorella Teresa aveva mandato via lo Scatrapea. Poi andò via di nuovo e tornò verso sera ed avendoci viste mietere un ultimo pezzo di grano, prese lui la mia falce e disse che avrebbe fatto lui quello che avrei dovuto fare io e mi mandò a prendere dell’acqua. Ero appena tornata quando si avvicinò il ragazzo De Marco Francesco, il quale disse a Giuseppe “Vieni che ti vuole Vincenzo”, alludendo al cugino di Giuseppe che lo aveva adibito al trasporto della sabbia. Giuseppe andò, ma con mia sorpresa notai che la voce era di Celestino Stumpo e non del cugino e quando Giuseppe tornò ed io gli chiesi informazioni, mi disse ridendo che l’aveva chiamato Stumpo ed invitava me, sempre ridendo, di amarlo perché diceva di avergli lo Stumpo riferito che si sarebbe ammazzato se non fossi stata sua. Io invece gli feci capire che amavo lui solo. Essendosi avvicinata l’ora di rincasare, mia sorella Luisa gli disse di andare via perché noi donne saremmo tornate sole, non essendo conveniente essere accompagnate da un uomo. Giuseppe disse che non vi era nulla di strano ma, mentre ciò profferiva, lo Stumpo, che si trovava nella parte superiore a quella ove stavamo noi, in compagnia di Pasquale Angotti e Francesco De Marco, improvvisamente rivolgendosi a Giuseppe gli disse “Meriteresti di essere ammazzato, hai trovato delle donne per fare il gallo perché se avessi trovato un uomo non ne potresti uscir salvo. Tu devi farla con me!”. Giuseppe non vi badò e ridendo, non pensando mai alla serietà di quelle parole, rispose “Sì, e vediamo!”. Lo Stumpo continuò ad insolentire chiamandolo tangone, tamarro ed altre parole ingiuriose. Giuseppe, a tali parole, ripeté la frase “Sì, e allora vediamo!” e si avvicinò a Stumpo, che a sua volta gli andò incontro. Essendo tutti e due un po’ lontani da me non potetti comprendere le parole che si rivolgevano e solo udii Stumpo dire “Me ne vado perché è meglio lasciare andare un tangone di tal genere!”. Giuseppe non ribatté e intervenne Angotti dicendo di andar via e non vidi altro.
Il resto lo ha visto Pasquale Angotti, presente a tutte le fasi:
– Tornando a Malito trovai prima Celestino Stumpo e De Marco, che erano scesi su quella stessa via, e a pochi passi da essi Giuseppe Amendola seduto sopra un gradino. Costui non appena vide Stumpo gli disse “Tu che vieni a fare appresso a me, vai per la tua via”. E Stumpo di rimando “E tu che cazzo vuoi?”. Giuseppe a sua volta disse “O merdusu!” e cercò di avvicinarsi a Stumpo, ma costui, appena vide ciò fare gridò “Fermati ché sei morto!” e senza dire altro gli esplose un colpo di fucile, per cui Giuseppe Amendola cadde subito a terra e Stumpo si dié alla fuga per la campagna, così il ragazzo De Marco per Malito. Io inseguii subito lo Stumpo, ma non riuscii a raggiungerlo… volevo chiedergli spiegazioni del fatto…
Intanto sono passati una ventina di giorni, di Celestino Stumpo si sono perse le tracce e la nonna del ricercato scrive al Procuratore del re per denunciare il comportamento dei familiari di Giuseppe Amendola in quanto a causa del forte parentato del morto, sotto la impressione del fatto i testimoni venivano portati dinanzi il giudice preparati per quello che alla parte lesa interessava che dicessero, senza nessuna garenzia di giustizia e così si è praticato quando dovettero andare i testimoni a Grimaldi, che parenti benestanti del morto li accompagnarono fino alla pretura preparandoli per dire quello che volevano. Il disgraziato mio nipote, invece, orfano di padre, senza mezzi di fortuna, dato a campare la vita lavorando in tenera età non ebbe né riguardi, né aiuto da nessuno. V.S. Ill,ma vorrà esaudire le preghiere e le lagrime di una misera vecchia cadente, accasciata dal dolore, perché il processo venga richiamato da V.S. e sentire i testimoni tutti per avere la verità del fatto, perché la giustizia sia uguale per tutti.
Ma non succede niente, Celestino continua a restare latitante e nel frattempo si esamina la posizione dei coniugi Amendola, accusati di favoreggiamento. Entrambi si dicono estranei fornendo una precisa ricostruzione della visita loro fatta da Celestino e della prima, superficiale perquisizione effettuata dai Carabinieri. Saranno prosciolti in istruttoria per insufficienza di prove.
Passano altri mesi e poi, alla fine di novembre 1911, il Pretore di Grimaldi comunica al Procuratore del re una notizia sconvolgente:
Essendomi risultato da esatte informazioni assunte che Stumpo Celeste, imputato di omicidio premeditato, trovasi in America e precisamente a New York e avendo informato un parente dell’ucciso che si è occupato in precedenza dell’inutile cattura dello Stumpo, tal Ciddio Pasquale, possidente da Malito, costui ha pregato me di promuovere le pratiche per l’estradizione, la quale avverrebbe a sue spese, pronto a depositare la somma necessaria. Comunico il fatto a V.S. Ill.ma allo scopo di compiacersi di dar corso alle pratiche di estradizione, salvo indicare in seguito la persona dalla quale fu visto a New York e che ivi risiede. Non ometto poi di dire che il fatto produsse enorme impressione, ancor viva, in questo mandamento, data l’indole ottima dell’ucciso e la mancanza di movente nel commetterlo.
Ma come è sempre accaduto, nessuna richiesta di estradizione viene inoltrata dal governo, così il 31 gennaio 1912 la Sezione d’Accusa rinvia Celestino Stumpo, sempre latitante a New York, al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio premeditato.
La causa, col rito contumaciale, si discute un anno dopo, il 23 gennaio 1913 e nello stesso giorno viene emessa la sentenza di colpevolezza. Data la brutalità del fatto la pena prevista è l’ergastolo, ma al momento del delitto Celestino Stumpo non aveva ancora compiuto i 18 anni e la Corte ritiene di applicare il massimo previsto in questo caso, cioè anni 20 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.
Il 21 maggio 1929 la Corte d’Assise di Cosenza, su richiesta del Pubblico Ministero, dichiara estinta l’azione penale nei confronti di Stumpo Celestino e revoca il mandato di cattura per decorrenza dei termini.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.