Sono da poco passate le otto di mattina del 31 marzo 1923, quando il pensionato Pietro Ramundo sta uscendo dal negozio di Domenico Cretella in Via Galeazzo da Tarsia a Cosenza dove ha acquistato dei generi alimentari, lasciando il negoziante alle prese con un cliente, il sessantottenne Luigi Albanese.
– Devo pagare cinquanta grammi di anice che ho appena consumato – dice porgendogli una banconota da cento lire.
– Non posso darvi il resto, non ho biglietti di piccolo taglio.
– E come facciamo?
Una detonazione interrompe la discussione. Cretella impreca contro qualche ragazzino che ha fatto esplodere un petardo, mentre Albanese si gira e vede davanti a lui un uomo con una rivoltella in mano che fa fuoco contro di lui altre due volte, ferendolo al fianco destro. Albanese, temendo che l’uomo possa continuare a sparare ed ucciderlo, gli si lancia contro e lo tempesta di pugni sul viso. In questo frattempo Pietro Ramundo ha sentito i colpi, ha visto che ferito e feritore sono avvinghiati l’uno all’altro e si getta nella mischia riuscendo a disarmare l’aggressore.
Mentre nel negozio sta accadendo tutto questo, nelle vicinanze del negozio stanno passando il Vice Brigadiere Nunzio Caragnano e il Carabiniere Domenico Laganà, che sentono i colpi, vedono il fuggifuggi dei passanti e accorrono immediatamente nel negozio, dove trovano l’uomo, Vittorio Cantafora, tenuto fermo per le braccia, mentre Pietro Ramundo consegna loro una rivoltella di tipo americano ancora calda, l’arma del delitto. Mentre Luigi Albanese viene portato in ospedale, Vittorio Cantafora viene portato in caserma e interrogato. Sulle prime resta assolutamente muto, senza volere neppure declinare le proprie generalità, poi, nel pomeriggio racconta:
– Ieri, trenta corrente, mi recai al mercato per vendere una mia capretta, che venne acquistata da un contadino robusto di un paese vicino, per il prezzo di trentacinque lire. Con lo stesso ebbi delle parole e costui si permise di farmi tante scostumatezze, ingiuriandomi financo “cornuto”. Per tale motivo rimasi molto offeso e ho pensato di vendicarmi per l’offesa ricevuta. Stamane verso le ore sei uscii di casa armato di una rivoltella a sei colpi che soglio portare tutte le notti allorché mi reco a sorvegliare la località dove custodisco gli animali, recandomi a Cosenza, armato per aver dimenticato l’arma in tasca. Passando verso le otto dinanzi ad un negozio, mi è parso di vedere in esso il contadino che ieri mi aveva offeso ed essendo nata forte in me la volontà di vendicarmi, estrassi la rivoltella ed esplosi parecchi colpi contro il medesimo, il quale si avventò contro di me dopo ferito e mi diede parecchi pugni sul viso. Intervenute parecchie persone, mi disarmarono e sopraggiunti i Carabinieri mi trassero in arresto.
– Ma l’uomo a cui avete sparato era proprio quello che vi aveva offeso?
– Così mi è parso… Maresciallo, vi raccomando di fare rilevare nel verbale che ho agito in un momento in cui non potevo contare sulle mie facoltà mentali in quanto, alla vista di quell’uomo nel negozio, non ebbi che sete di vendetta e sparai…
Ahi! Questo non doveva dirlo perché ha dato la chiara impressione di avere premeditato il delitto, che per il momento è tentato omicidio, sperando che Luigi Albanese non sia ferito seriamente.
Poi chiede di essere interrogato di nuovo e cambia versione dicendo:
– Ho sparato in uno stato d’incoscienza perché depresso ed abbattuto per gravi sventure di famiglia, che proprio in quei giorni mi avevano afflitto e perché in preda all’alcool, abbondantemente bevuto nella mattinata…
Il Maresciallo Maggiore Lorenzo cavalier Miceli va in ospedale a sentire se il ferito può dare la sua versione dei fatti.
– Stavo aspettando il resto quando venni fatto segno a diversi colpi di rivoltella da parte di quell’uomo che conoscevo solo di vista, poi mi hanno detto che si chiama Cantafora, col quale non ho mai avuto occasione neppure di parlare, per cui ritengo che mi ha scambiato per qualche suo nemico… dopo ferito al fianco destro mi sono avventato contro di lui dandogli dei pugni sul viso, mentre ancora cercava di spararmi. Intromessesi altre persone, lo disarmarono.
– Quindi non lo conoscevate…
– No, sono sicuro che mi ha scambiato per qualcun altro…
Intanto Vittorio è stato portato in carcere e ricoverato in infermeria, dove il medico certifica le lesioni procurategli da Luigi Albanese, ma appare confuso e alle domande del medico risponde:
– Non mi rammento chi mi ha prodotto le contusioni ed abrasioni…
– Con chi avete litigato?
– Non mi sono litigato con alcuno.
I cambi di versione e le risposte date al medico sono il segnale di una sofferenza mentale o, come sostiene l’avvocato di parte civile Pietro Mancini, che sta simulando per cercare di attenuare la sua responsabilità? Prima di prendere una decisione, gli inquirenti incaricano il Maresciallo Maggiore Lorenzo Miceli di indagare sulla vita di Vittorio e di individuare il contadino che lo avrebbe offeso, provocando la sparatoria. Il 13 aprile 1923, Miceli relaziona:
Vane sono riuscite le ulteriori indagini fatte per addivenire all’identificazione del contadino al quale il Cantafora vendé la capretta il mattino del 30 marzo decorso e con cui venne a diverbio, rimanendo offeso, né si è potuto sapere se vi fossero state persone presenti al diverbio.
Sta di fatto che il Cantafora rincasò molto urtato e prova ne sia che la di lui suocera, avendolo incontrato come rincasava in contrada Caricchio, gli domandò quanto vendé la capretta ed egli, senza soffermarsi e gesticolando, non le rispose affatto. La moglie del medesimo ed il genero Fazio Giuseppe confermarono allo scrivente, presente il Brigadiere Caragnano Nunzio, che il loro congiunto ritornò dal mercato, dopo venduta la capretta, molto disturbato e senza scambiare con essi alcuna parola, si allontanò di casa portandosi nel fondo a lavorare. Ciò prova come effettivamente il Cantafora ebbe il diverbio di che è in parola. Dalle verifiche fatte in luogo, ho constatato che la stalla dove Cantafora custodisce gli animali è di fronte alla casa a circa dieci passi, per cui nessuna necessità vi era che egli uscisse di casa armato di rivoltella. Posto ciò, ritengo che, contrariamente a quanto egli affermò, si è recato a Cosenza armato volontariamente.
Risultami altresì che Cantafora è stato sempre ritenuto per un individuo normale. Egli gode fama di buon padre di famiglia, il quale ha saputo sempre fare bene i suoi affari, esercitando anche in piccolo il commercio di animali e degli ortaggi che produceva nel fondo da esso coltivato, che portava a vendere nei paesi viciniori.
Risulta pure che egli, in questi ultimi tempi, rimase molto afflitto a causa che il di lui genero sedusse una sua figliuola, mentre doveva sposare la sorella più grande di questa, con la quale aveva avute già relazioni.
Certamente un colpo durissimo da reggere per chiunque.
La relazione del Maresciallo Miceli e le risposte date al medico del carcere danno lo spunto all’avvocato Tommaso Corigliano, difensore di Vittorio Cantafora, per chiedere al Procuratore del re ed al Giudice Istruttore di sottoporre il suo assistito a perizia psichiatrica, sostenendo che il delitto commesso fu l’effetto di uno stato di follia chiaramente manifestatosi – senza la lontana ombra di dubbio di una simulazione – durante questi giorni di sua detenzione, come il Sig. Giudice ha potuto constatare. Si pregano perciò le SS.VV. Ill.me perché si degnino richiedere un rapporto del Sanitario delle carceri e poi dispongano un esperimento peritale tendente a dimostrare lo stato di infermità mentale dello Cantafora. Un tale esperimento potrebbe essere preceduto da un’indagine testimoniale atta a stabilire le cause prossime che hanno determinato lo squilibrio delle facoltà psichiche del povero uomo. E cioè la terribile depressione morale alla notizia che una sua figliuola era stata sedotta e resa madre da persona che non poteva riparare il disonore, nonché lo smarrimento, il giorno della Fiera di San Giuseppe, di ottomila lire che il Cantafora aveva ritirate dall’Ufficio Postale un giorno prima.
Ovviamente questa mossa viene strenuamente contrastata da Luigi Albanese, che, guarito, si presenta in Procura e rincara la dose:
– Insisto nella punizione del Cantafora, che ha fatto di tutto per togliermi la vita. Egli, molto abilmente, cerca di sfuggire alla responsabilità incorsa fingendosi matto, invece, come la giustizia ha già osservato, egli mi ha confuso con un altro contadino verso il quale voleva vendicarsi di certe ingiurie ricevute il giorno innanzi. Come ho detto, egli non sparò all’impazzata, ma ebbe tempo di mirarmi come a bersaglio preciso e sicuro. Non può dubitarsi della sua volontà omicida, anche perché nell’atto di uscire dall’ospedale trovai un altro proiettile nella fodera della giacca, dove era penetrato in direzione della sacca sinistra della giacca stessa. Quivi – continua mostrando al magistrato il foro sulla giacca ed il proiettile – si riscontra un foro, ma il proiettile non è penetrato, impedito forse dal portafoglio, che avrà opposto resistenza.
– Perché non lo avete detto subito?
– Perché non me ne ero accorto…
La giacca viene sequestrata e sottoposta a perizia. Si, il foro è stato prodotto da proiettile ed i guai per Vittorio Cantafora potrebbero aumentare.
La richiesta di perizia psichiatrica viene respinta, ma vengono ascoltati i testimoni indicati dalla difesa, per lo più vicini di casa.
Giuseppe Spadafora:
– So che Vittorio Cantafora da qualche tempo è stato colpito da diverse sventure: fu anzitutto turbato l’ordine e l’onore della famiglia da parte di Giuseppe Fazio, il quale sedusse due figliuole del Cantafora ed ora ne ha sposato una. A ciò si aggiunga la perdita, nella fiera di San Giuseppe, di ottomila lire, che appresi dai lamenti dei familiari dopo il fatto per cui è causa.
– Ma secondo voi è impazzito?
– Non posso dire che Cantafora abbia smarrita la ragione, ma è certo che versava in uno stato di abbattimento morale. Questo giudizio mi deriva dalle impressioni ricevute incontrandolo nove o dieci giorni prima del ferimento.
Giuseppe Perna:
– So che Vittorio Cantafora, a causa del disonore patito in famiglia ed ancora per la perdita di una discreta somma nella fiera di San Giuseppe, era profondamente costernato; ciò ho potuto rilevare incontrandolo qualche volta, prima del ferimento.
– Va bene, ma tra costernato e pazzo c’è una bella differenza!
– So benissimo che da questo stato di abbattimento allo squilibrio mentale ci corre molto! Non sono in grado però di dare maggiori schiarimenti sulla condizione dello Cantafora e non ho elementi per definirlo addirittura squilibrato.
Domenico Locanto:
– Posso soltanto dire che a causa delle sciagure familiari di recente patite, Vittorio Cantafora era profondamente abbattuto. I familiari sostengono che in casa dava segni di alienazione mentale, ma io non posso, in tutta coscienza, confermarlo.
– Avete notato se ultimamente trascurava le sue normali occupazioni in campagna?
– Ho visto Cantafora qualche giorno prima del ferimento e mi parve molto conturbato, ma per quanto ne sappia, egli ha accudito regolarmente alle sue faccende.
Giovanni Porco:
– Ho incontrato Cantafora qualche giorno prima del ferimento e appariva come intontito. Oltre di ciò non ho elementi per attestare la sua infermità mentale, anche se dai familiari ho appreso che dava segni di alienazione.
Beh, se i testimoni sono stati ascoltati con l’intenzione di ricevere una diagnosi clinica di alienazione mentale, l’obiettivo è stato fallito. Eppure i presupposti per approfondire ci sarebbero stati, ma tant’è.
L’attento esame delle carte processuali porta il Pubblico Ministero, nella trasmissione degli atti al Giudice Istruttore, ad affermare che, dall’assenza di una causale e dalle modalità del fatto, non appare chiaro se l’intenzione del Cantafora era diretta all’esecuzione di un omicidio o ad un attentato all’integrità personale di Albanese Luigi. Valutando, infatti, con serena coscienza il complesso delle risultanze di fatto, appare certo che egli agì in uno stato d’animo anormale, sia che si voglia ritenere conforme al vero la prima versione da lui data del fatto ai Carabinieri, che cioè s’indusse al delitto perché credette di riconoscere in Albanese il contadino che il giorno prima lo aveva offeso atrocemente, sia che si voglia ritenere veritiera la seconda versione di aver sparato perché depresso per le sciagure familiari patite proprio in quei giorni e per l’ubriachezza di quella mattina. Nell’uno o nell’altro caso egli non poteva avere un piano certo e determinato. Né, a determinarlo, può essere d’aiuto il mezzo usato ed i colpi sparati, perché se è vero che esplose tre colpi e quasi a bruciapelo, è pur vero che non mirò a parti vitali del corpo, alla testa o al cuore, se un fine specifico di uccidere voleva conseguire. Non potendosi, perciò con sufficiente esattezza determinare quale sia stata l’intenzione specifica e precisa che animò la mano del Cantafora, nel dubbio si deve ricorrere alla norma generale di adottare, cioè, la soluzione al reo più favorevole di derubricare il reato di mancato omicidio in quello di lesioni personali con arma.
Il Giudice Istruttore, il 27 luglio 1923, accoglie la richiesta del Pubblico Ministero e rinvia l’imputato al giudizio del Tribunale Penale di Cosenza. Dopo un paio di rinvii per malattia di Cantafora e impedimenti degli avvocati, il dibattimento viene fissato per il 7 marzo 1924 e nel frattempo l’avvocato Corigliano presenta istanza di libertà provvisoria in favore di Vittorio Cantafora, padre di una numerosa famiglia, onesto e impregiudicato, tratto al delitto da uno stato di perturbamento psichico, richiesta alla quale si oppongono sia il Pubblico Ministero che il Giudice Istruttore, adducendo a motivo due perizie mediche che attestano, la prima, a firma Marulli, il pericolo di vita in cui versò la vittima; la seconda, a firma Serra, attestante la guarigione clinica avvenuta in 19 o 20 giorni (la differenza tra 19 o 20 giorni per il codice è significativa: 19 andrebbe a favore dell’imputato in quanto la lesione sarebbe semplice, mentre 20 gli andrebbe contro perché la lesione sarebbe grave. Nda). Il 13 agosto 1923 l’istanza viene esaminata in Camera di Consiglio ed i tre Giudici togati bocciano clamorosamente entrambe le perizie mediche a fondamento del parere contrario espresso dal Pubblico Ministero e dal Giudice Istruttore e concede la libertà provvisoria all’imputato.
Durante il dibattimento non accade nulla di rilievo ed in giornata tutto è finito. Il Collegio dei tre Giudici Togati, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva: dal complesso delle prove raccolte risulta che il Cantafora, in dipendenza di gravi disgrazie familiari, in questi ultimi tempi aveva perduto la propria tranquillità. Una sua figliuola era stata vittima di un’onta a cui non potevasi riparare ed il suo disonore al casato era per lui causa di continue amarezze; la parola “cornuto”, che l’acquirente del capretto gli aveva lanciato in faccia il giorno prima, suonò come un rimprovero ed una derisione alla sua condizione e da qui il proposito di reagire. Questo essendo il fatto nelle sue modalità e queste le cause che lo hanno determinato al delitto, stima il Collegio che a favore del Cantafora debba concorrere il beneficio della provocazione, non potendosi dubitare che dal punto di vista soggettivo, ed avuto riguardo allo stato d’animo dell’agente, grande fosse il turbamento generato dall’altrui contegno ingiurioso. La difesa ha chiesto la concessione del vizio parziale di mente, ma il Collegio non può aderire alla richiesta perché gli atti non offrono elementi né per l’affermazione di un vero e proprio stato patologico, né per un’indagine tecnica in questo senso. Le testimonianze dimostrano soltanto quel perturbamento della volontà che è in relazione dell’impeto d’ira e d’intenso dolore e quello stato passionale, che opera sulla libertà dell’azione delittuosa, degradando la pena, nell’applicazione della quale il Collegio crede di essere mite, partendo da mesi 14 di reclusione con l’aumento di un sesto per l’arma e riducendo poscia alla metà per la provocazione grave. Per il porto di rivoltella può fissarsi mesi 1 di arresti. Fatto il cumulo, si ottengono mesi 8 e giorni 10 di detenzione, di cui vanno condonati mesi 3 per effetto del R.D. di amnistia del 9 aprile 1923, N. 719. Oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.
La difesa propone appello ed il 22 maggio 1924 la Corte d’Assise di Catanzaro riduce la condanna a mesi 3 di reclusione, beneficiati dal condono.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.