Nel mese di novembre del 1932 Umile Fata da Regina di Lattarico sposa la compaesana Assunta Pedace con la quale aveva già avuto in precedenza rapporti carnali, ma è da ritenere che le nozze non siano state cementate da sentito affetto, se è vero che il giovane ha acconsentito al matrimonio in seguito a minacce di querela ed alle insistenze e premure dei parenti della giovane sedotta.
Contrariamente a quanto tutti si aspettano, però, il matrimonio tra i due comincia bene e la tranquillità regna nella loro povera casetta.
No, non è così perché la tranquillità coniugale viene turbata, dopo appena due mesi, da un sospetto che tormenta Assunta: Umile ha rapporti carnali con Ippolita, cugina di lei. E il sospetto non appare del tutto infondato vista la reciproca simpatia tra i due, qualche piccolo regalo di Umile ad Ippolita, la vanteria fatta agli amici di essersi divertito con lei con toccamenti lascivi. Ma soprattutto, a turbarla, è quello che è accaduto la notte in cui Ippolita ha dormito nello stesso letto con Umile ed Assunta e gli ha sussurrato, convinta che la cugina stia dormendo e non ascolti:
– Umile… se mi facessi possedere da te mi saresti fedele?
Ma Assunta ha ascoltato continuando a far finta di dormire, salvo la mattina dopo litigare col marito. Ed è solo la prima di una lunga serie di liti con scambi reciproci di ingiurie e forse anche di percosse, fino a che Assunta si allontana dal tetto coniugale e torna nella casa paterna.
Tutte le parole dette e le azioni compiute più o meno a sproposito tra marito e moglie si diffondono in fretta nella frazione di Regina e, passando di bocca in bocca, si ingigantiscono al punto tale che adesso si parla della sicura gravidanza di Ippolita. Ovviamente lei e sua madre, addolorate per tali propalazioni, protestano vivacemente con Umile e Assunta, che viene malmenata.
Il 9 maggio 1934, un anno e mezzo dopo il matrimonio riparatore, Umile va a Cosenza per vendere qualcosa; al ritorno incontra il compaesano Gaetano Massenzio e gli chiede di farlo salire sul suo biroccino e di condurlo in paese. Giunti verso le dieci nei pressi del fondo di Giacinto Pellegrino li ferma la madre di Ippolita, che sta lavorando lì con altri braccianti, e dice ad Umile, senza che nessuno se ne meravigli:
– Ti sto aspettando da stamattina per avere un abboccamento con te e tua moglie…
– Gira per quella strada ché ti raggiungerò col biroccino – le risponde.
Intanto si è fatto mezzogiorno e Umile, anziché aspettare la madre di Ippolita nel punto che le ha indicato, scende dal biroccino e va a casa di sua madre, poi verso le quattro di pomeriggio va a casa dei suoceri e ci trova Assunta da sola:
– Vienitene a casa con me! – il tono non è quello di un invito, ma piuttosto quello di un ordine.
– Nemmeno se mi ammazzi! – gli risponde.
Umile, allora, la prende per un braccio e cerca di trascinarla con la forza, ma Assunta si divincola e va a rifugiarsi in casa della vicina Marietta Massenzio; Umile la raggiunge, riesce ad entrare in casa e questa volta riesce a trascinarla fuori, fino ad un’aia distante un centinaio di metri. Assunta urla, urla anche la vicina e accorrono i suoi parenti, alla vista dei quali Umile caccia uno scannaturu e colpisce ripetutamente Assunta, ferendola seriamente alla regione sopra clavicolare sinistra, alla regione deltoidea sinistra e alla regione scapolare sinistra. Poi viene bloccato e consegnato ai Carabinieri, che lo portano in caserma e lo interrogano.
– L’ho ferita in un momento d’impeto con un coltello che ho trovato in casa dei miei suoceri, in seguito a litigi sorti perché mia moglie mi accusava ingiustamente di avere relazioni con sua cugina Ippolita.
Dopo un paio di giorni, interrogato dal Pretore, cambia versione:
– Il coltello lo presi in casa di mia madre e ferii mia moglie perché impressionato dalle minacce fattemi dalla madre di Ippolita, che mi avrebbe fatto uccidere dal figlio se non avessi dato una buona lezione a mia moglie per le calunniose divulgazioni. Mentre colpivo Assunta, la madre di Ippolita si trovava nascosta dietro una quercia nei pressi dell’aia, in attesa di avere un abboccamento con mia moglie.
Poi cambia ancora versione e dice che il coltello glielo diede la madre di Ippolita e che lo indusse a commettere il delitto.
In seguito alla chiamata in correità, la donna viene arrestata per concorso in tentato omicidio:
– Confessate di avere dato appuntamento ad Umile Fata per uccidere la moglie!
– Io ho detto a Fata, quando l’ho incontrato, che lo stavamo aspettando per avere un abboccamento con la moglie, ma tali parole, dette alla presenza di molte persone senza destare sospetti, significavano che volevamo parlare con Assunta Pedace per indurla a smettere dal propalare dicerie infondate. Poi, non avendo rinvenuto il Fata sul luogo da lui designato, mi sono recata da sola in casa dei genitori della Pedace e siccome non vi ho trovato né questi né altri, sono andata via.
– Fata ha detto che eravate nascosta dietro una quercia mentre lui accoltellava la moglie, che lo avete indotto ad ucciderla e che gli avete anche dato il coltello!
– Non è vero! Se fossi stata nascosta dietro la quercia le persone accorse mi avrebbero vista!
Interrogate le persone accorse per aiutare Assunta mentre veniva colpita dal marito, confermano la versione della madre di Ippolita: dietro la quercia non c’era nascosto nessuno e se qualcuno si fosse trovato dietro l’albero non poteva non essere visto da essi.
Le deposizioni però non vengono prese in considerazione, anzi siccome gli inquirenti sospettano che sia coinvolta anche Ippolita, fanno arrestare anche lei con la stessa accusa addebitata alla madre. Le due donne continuano ad urlare la loro innocenza, ma non sono credute e restano in carcere. Nel frattempo Assunta migliora e dopo una quarantina di giorni guarisce, come attesta il perito, che però non accenna ad eventuali cicatrici deturpanti.
Terminate le indagini, la Procura chiede il rinvio a giudizio per tutti e tre gli imputati, ma il Giudice Istruttore non è dello stesso parere e il 20 aprile 1934 proscioglie Ippolita per insufficienza di prove e manda a processo la madre per concorso in tentato omicidio premeditato e Umile Fata per tentato omicidio premeditato e maltrattamenti.
La causa si discute il 19 ottobre 1934 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva: il Fata ha confermato i precedenti interrogatori e l’imputata ha protestato la sua innocenza, così come aveva fatto in periodo istruttorio. Ciò premesso, la Corte ritiene che l’imputata debba essere assolta per non aver commesso il fatto, giacché la sua innocenza è conclamata da tutte le risultanze dell’istruttoria e del dibattimento, le quali additano il mendacio del Fata nella chiamata di correo. Ella ha ammesso di aver pronunciato, la mattina del 9 maggio allorquando incontrò il Fata, le parole innanzi riferite, ma di tali parole, che erano state dette alla presenza di molte persone e non avevano destato sospetto, ha dato ampia spiegazione e ha detto il vero perché il mendacio del Fata traspare dai suoi interrogatori, i quali attestano che l’accusa contro l’imputata fu una tardiva macchinazione preordinata ad uno sciocco sistema di difesa in quanto, in quegli interrogatori, il Fata ha ripetutamente detto che l’imputata voleva avere un abboccamento con la Pedace. Se pure in altri rincontri, precedentemente al 9 maggio, parole di minaccia l’imputata abbia profferite, tali parole, pronunciate in uno stato d’ira e di risentimento per essere stato compromesso l’onore della sua figliuola, non possono giammai ritenersi il motivo determinante del delitto.
Chiaro. Poi passa ad esaminare la posizione di Umile Fata, cominciando dall’accusa di maltrattamenti: deve assolversi il Fata dalla imputazione di maltrattamenti per insufficienza di prove, perché la moglie, in udienza ha chiarito che con la espressione “maltrattamenti”, usata nelle sue deposizioni in istruttoria, senza precisazione e specificazione di fatti concreti, intese riferirsi ai frequenti litigi che avvenivano col marito. È possibile che la Pedace abbia oggi cercato di attenuare la responsabilità del Fata, spinta dal desiderio di unirsi a lui, ma comunque è certo che mancano elementi sicuri per una pronunzia di colpevolezza.
Poi passa al tentato omicidio: rimane a decidere se il Fata, che ha confessato di avere ferito la moglie e riconosciuto di avere agito con coscienza e volontà, sia stato animato dal proposito di uccidere ovvero di ferire. Ed è quest’ultima ipotesi che la Corte ritiene rispondente alla realtà processuale. La volontà omicida deve escludersi perché l’imputato, se da tale proposito fosse stato animato, avrebbe accoltellato la moglie nella casa dei genitori di lei, dove l’aveva rinvenuta sola; l’avrebbe accoltellata nella casa di Marietta Massenzio dove la Pedace, svincolatasi dalle strette di lui, si era rifugiata senza che la Massenzio, per le sue condizioni fisiche, avesse potuto darle aiuto mentre egli la ferì quando, resistendo ella all’invito, vide accorrere gente; perché, se avesse voluto uccidere, avrebbe fatto uso in modo diverso del coltello di cui era armato (indubbiamente idoneo ad uccidere); perché, comunque, manca una causale adeguata al delitto che gli si addebita. Onde è da ritenere che il Fata abbia agito in un momento di impeto, come dichiarò ai Carabinieri, perché la moglie resistette all’invito di recarsi in casa sua, ove sperava di trovare l’assolta per addivenire ad un abboccamento e perché vide che i suoi sforzi per raggiungere l’intento venivano frustrati dall’accorrere di gente. È ben vero che si era in precedenza armato di coltello, ma la versione ora prospettata fa pensare che di quell’arma egli si fosse munito per minacciare la moglie nell’abboccamento che si prefiggeva di avere con costei e con la madre di Ippolita, onde indurla a smettere una buona volta e non più molestare la cugina. Resta così dimostrato come esuli anche l’aggravante della premeditazione. Rettificata in tal senso la rubrica, rimane da esaminare se le lesioni riportate dalla Pedace siano guarite entro e non oltre il quarantesimo giorno. La perizia fu eseguita il 24 giugno, cioè dopo 45 giorni dal ferimento, ed il perito che visitò la Pedace si limitò a dire che “la guarigione è avvenuta da due o tre giorni, sicché la malattia e l’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni ha avuto la durata di giorni 43”, senza indicare il carattere delle cicatrici residuate e le ragioni del suo giudizio. È, questa, una non encomiabile lacuna che induce la Corte ad accogliere l’ipotesi più favorevole e certa, giacché l’indicazione con approssimazione del tempo cui risaliva la guarigione non può tranquillizzare, non potendosi escludere un difetto di elementi sicuri che la guarigione stessa fosse avvenuta cinque o sei giorni prima della perizia. Non si può accogliere la tesi prospettata dalla pubblica accusa, cioè che debba ritenersi che vi sia stato pericolo di vita, tesi fondata su un referto (inviato all’Autorità Giudiziaria dall’Ospedale di Cosenza, dove la Pedace fu ricoverata) che consiste in un modulo a stampa riempito e nel quale è scritto appena “giudizio riservato” ed a stampa, in seguito a tali prole “è pericolo di vita”. Deve pertanto dubitarsi che quelle parole a stampa possano essere passate inosservate e tale dubbio è confermato dal fatto che nel referto redatto dal dottor Bidone, che per primo visitò l’inferma, dell’esistenza di pericolo di vita non è fatta parola.
Non resta che, in base alla nuova situazione prospettata dalla Corte, qualificare il reato e comminare la pena al reo confesso: Umile Fata deve dichiararsi colpevole di lesioni guarite entro i quaranta giorni, con l’aggravante perché commesse in danno della moglie e con arma. Tenuto conto della entità e natura del reato, dei buoni precedenti dell’imputato e della condotta di lui dopo il reato che denota pentimento, si crede adeguato, partendo da anni 2, aumentati di un terzo perché reato commesso in danno della moglie e di mesi 8 per l’aggravante dell’arma, comminare la pena di anni 3 e mesi 8. Deve inoltre essere dichiarato colpevole anche di porto di coltello vietato e per tale reato si crede adeguata la pena di mesi 2. In tutto fanno anni 3 e mesi 10 di reclusione, ma la Corte, applicando gli articoli 1,3 e 4 del R.D. 25 settembre 1934 N. 1511, dichiara condonati anni 2 della pena.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.