Zumpano, prime ore del mattino del 7 ottobre 1933.
Emilia Spadafora va nel suo pollaio a raccogliere le uova e si accorge subito che manca un pollo. Forse è riuscito, in qualche modo, ad uscire e lo va a cercare nelle vicinanze, ma il pollo è sparito ed Emilia comincia a sbraitare e imprecare ad alta voce, inframmezzando le lamentele al pio pio di richiamo, attirando, così, le attenzioni di qualche vicino che le chiedono cosa sia successo.
– Mi è volato un pollo… forse oggi qualche parente mangerà carne, ma l’ha de venire na cacarella a musica a ssu mmerda! – dice ironicamente, lasciando capire che il pollo le è stato rubato, probabilmente dall’unico parente che abita nelle vicinanze, cioè suo cognato Giovanni Covelli.
Giovanni, la cui casa è contigua a quella di Emilia, sentendosi chiamato in causa perché, come dicevamo, è l’unico parente ad abitare vicino, interviene:
– E finiscila! Non è proprio il caso di scalmanarti tanto e volere il male degli altri per un misero pollo!
Elena non replica, rientra in casa e l’incidente sembra essere finito qui. Poco dopo, però, Giovanni esce davanti casa e incontra suo fratello Giuseppe, il marito di Emilia, e la Guardia di Finanza in licenza Amedeo De Santis. I tre si siedono su un muricciuolo a pochi passi di distanza dalle rispettive case e cominciano a chiacchierare del più e del meno.
Disgrazia vuole che il discorso cada sulla scomparsa del pollo e Giuseppe, nel fare i nomi di tutti i vicini, esclude ogni sospetto nei confronti di costoro, ma il problema è che nell’elenco degli esclusi dai sospetti non fa il nome di suo fratello Giovanni, il quale monta su tutte le furie e lo rimprovera aspramente:
– Ah! Allura ‘u latru signu iu? Ma chi cazzu ti piensi, oi ciuatu fricatu, che io avevo bisogno del tuo pollo? Tu e tua moglie siete due merde!
Tra i due fratelli nasce un vivace diverbio con scambio di invettive e minacce, che non degenera subito a vie di fatto per l’intervento di De Santis, che li riporta alla calma e li convince a rientrare a casa.
Emilia, a questo punto, conoscendo l’indole malvagia del cognato, per essere sicura dell’incolumità del marito, lo spinge in una camera chiudendone la porta a chiave. Poi ricorda che ha lasciato innanzi la porta un suo bambino ed esce per prenderlo e quindi mettersi al sicuro.
Ma Giovanni, il quale ha mal tollerato che si fosse osato sospettare di lui, tornato a casa, si è armato di una rivoltella ed è uscito, esplodendo, senz’altro, due colpi contro sua cognata Emilia, proprio mentre si sta curvando per prendere in braccio il bambino, uno dei quali le produce una lesione alla regione glutea, con foro di uscita nella regione ipogastrica. L’altro colpo, invece, è andato a finire nell’interno della casa del fratello, colpendo la porta dove è nascosto. Emilia, nonostante sia stata abbattuta al suolo e col bambino sotto di lei, per cercare di allontanare il cognato riesce a lanciargli contro la scure poggiata accanto alla porta di casa. Poi urla per chiedere aiuto e subito accorre sua sorella Pasqualina, ma Giovanni, che sbuffa come un toro infuriato, la vede, la riconosce e le spara una revolverata che la colpisce alla coscia destra e le recide l’arteria femorale, con conseguente fatale emorragia.
Giovanni non si calma nemmeno adesso, accecato dall’ira e da una furia giustificata soltanto dal suo carattere bestialmente violento, spara i due colpi rimasti nel tamburo della rivoltella e, malauguratamente, colpisce la giovanetta Nicolina Regno, colpevole solo di essersi trovata a passare dal posto sbagliato nel momento sbagliato, diretta ad attingere acqua nella vicina fontana. Il proiettile le frantuma il ginocchio sinistro, causando un processo suppurativo e sepsi, quindi la morte, che avverrà il 23 novembre successivo, dopo quarantotto giorni di agonia.
Terminati i colpi, Giovanni si allontana e si nasconde. Quando dopo qualche giorno lo arrestano, dichiara:
– Ho sparato tre colpi, senza l’intenzione di uccidere, contro mia cognata Emilia Spadafora, dopo che costei mi aveva aggredito con una scure, producendomi queste due lesioni – e fa vedere due leggere ferite, le quali, sia per la loro natura, sia per la lieve entità non possono essere state prodotte da una scure. Evidentemente si tratta di autolesioni prodottesi durante i giorni di latitanza, allo scopo di precostituirsi una scusante, se non addirittura una discriminante.
– E allora chi ha sparato contro Pasqualina Spadafora e Nicolina Regno? – obietta il Maresciallo.
– Non sono in grado di spiegare come ciò si sia verificato perché non vidi affatto costoro in quel rincontro e pertanto non ho potuto sparare io contro di esse.
Ma Giovanni Covelli viene smentito da Amedeo De Santis e Rosa Lappano che hanno assistito, impietriti, a tutto lo svolgimento della tragedia.
Concluse le indagini, il 16 marzo 1934 il Giudice Istruttore rinvia Giovanni Covelli al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere degli omicidi volontari in danno di Pasqualina Spadafora e Nicolina Regno, dei tentati omicidi di Emilia Spadafora e di Giuseppe Covelli, nonché di porto abusivo di rivoltella.
La causa si discute il 7 luglio 1934 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva: sulla materialità dei fatti, ad eccezione di quello concernente l’esplosione di un colpo contro Covelli Giuseppe, non vi è dubbio che li abbia commessi l’imputato perché lo affermano i testi presenti alla scena, lo hanno affermato le vittime di così triste tragedia, Regno Nicolina e Spadafora Pasqualina, prima di morire e lo ha ammesso egli stesso nell’interrogatorio reso. Tale accertamento, però, non è sufficiente per addivenire senz’altro ad una affermazione di responsabilità, in quanto è necessario che vi sia anche la prova del concorso dell’elemento morale. Occorre, cioè, la dimostrazione che l’imputato, nel momento in cui spiegò l’azione delittuosa, ebbe la precisa e determinata volontà di commettere i reati che a lui si addebitano. Questa indagine è quanto mai difficile perché due delle vittime dell’azione violenta dell’imputato, Spadafora Pasqualina e Regno Nicolina, erano completamente estranee al motivo che diede origine al fatto e non avevano mai avuto nessun rapporto con Covelli Giovanni. Nei confronti di sua cognata Emilia il fatto si spiega agevolmente in quanto, a parte che le relazioni dell’imputato con costei non erano state mai molto cordiali, in quel giorno chi per prima fece vive rimostranze per la scomparsa del pollo con allusioni al probabile autore della sottrazione, fu proprio essa Spadafora. Se a ciò si aggiunga che in un secondo momento la stessa sottrasse all’ira del fratello il proprio marito, rinchiudendolo in casa, ne consegue che, quando l’imputato sparò i due colpi contro di lei, ebbe la precisa e decisa volontà di uccidere. Né faccia meraviglia la sproporzione tra la causale ed il proposito criminoso, perché non bisogna dimenticare che Covelli Giovanni è di carattere violento e prepotente ed appartiene ad una famiglia di criminali, onde anche una causale trascurabile assume per lui proporzioni gigantesche ed è sufficiente per determinarlo a commettere i delitti più efferati. Nei confronti, invece, delle povere Pasqualina Spadafora e Nicolina Regno, a meno che non si voglia ritenere che fosse un pazzo, il che non risulta, il Covelli non potette volerne la morte, perché non concorre neanche una causale futile, in quanto l’una era accorsa per soccorrere la sorella e l’altra si trovò a passare per combinazione. Se in questo secondo momento mancò in lui la volontà omicida nell’esplodere gli altri colpi, ebbe però quella di minacciare chiunque, anche con la semplice presenza, si opponesse alla completa esecuzione del suo disegno criminoso contro il fratello Giuseppe, che era la vittima designata, altrimenti questa azione ulteriore non avrebbe spiegazione logica. Pertanto, la morte delle due sventurate donne non fu conseguenza dell’imputato, ma di errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato di minaccia voluto ed egli deve, in questo caso, rispondere dell’evento non voluto (nella specie la morte) a titolo di colpa grave. In ordine, infine, all’altra imputazione di tentato omicidio in persona del fratello Giuseppe, manca la prova che l’imputato abbia esploso un colpo anche contro costui, in quanto non ne hanno fatto cenno i testi Lappano e De Santis presenti al fatto e lo stesso Giuseppe, in udienza, lo ha escluso. Per questo reato, perciò, l’imputato deve essere assolto.
Poi la Corte passa ad esaminare le richieste della difesa tendenti ad ottenere, in primo luogo il riconoscimento del vizio parziale di mente, sottoponendo l’assistito a perizia psichiatrica ed in subordine la concessione dell’attenuante dello stato d’ira per fatto ingiusto altrui. La Corte le respinge entrambe motivando: non si può riconoscere il vizio parziale di mente perché né dal processo scritto, né dal pubblico dibattimento, come chiaramente è scritto nella ordinanza che respinge la richiesta di perizia psichiatrica, sono risultati elementi tali da far ritenere l’imputato minorato di mente. Tale minorazione deve essere effetto di una infermità e non del carattere impulsivo e violento dell’agente che, se mai, potrà determinare uno stato emotivo, che non può avere alcuna ripercussione sulla imputabilità. Non si può concedere l’attenuante dello stato d’ira perché manca il fatto ingiusto altrui, non potendosi ritenere tale l’allusione fatta da Emilia Spadafora e dal marito nei confronti dell’imputato quale autore del furto del pollo, essendo la stessa molto vaga ed incerta ed il fatto ingiusto, invece, deve essere preciso e determinato.
A questo punto la difesa tenta la carta della legittima difesa, o almeno l’eccesso colposo, sostenendo che Giovanni Covelli è stato costretto a sparare perché la cognata gli lanciò contro la scure. È una mossa azzardata e senza speranza perché è già stato chiarito che Emilia lanciò la scure dopo essere stata ferita, onde fu l’imputato che per primo si è messo in uno stato d’illegittimità.
È il momento di cominciare a tirare le somme e la Corte osserva: devesi pertanto affermare la responsabilità di Covelli Giovanni per i reati di omicidi colposi aggravati in persona di Spadafora Pasqualina e Regno Nicolina, di tentato omicidio in persona di Spadafora Emilia e di porto abusivo di rivoltella. Tenuto conto delle modalità dei fatti, della sproporzione tra la causale e l’evento e del carattere violento e pericoloso dell’imputato, stimasi condannarlo pel tentato omicidio ad anni 12 di reclusione, più un anno per la recidiva e quindi ad anni 13; per ciascun omicidio colposo ad anni 4, più anni 1 per la recidiva, più anni 1 per l’aggravante, quindi ad anni 6 per ciascun omicidio colposo; a mesi 4 di arresto per il porto abusivo di rivoltella, per modo che la pena complessiva è di anni 25 di reclusione e mesi 4 di arresto, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.[1]
Per un misero pollo…
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.