L’INCUBO DEL POSSESSO

Alberto Pizzi, ventottenne muratore di San Martino di Finita, è protagonista di diverse imprese erotiche, di cui qualcuna col fine raggiunto e le altre semplicemente tentate ma non riuscite per la energica resistenza opposta dalle sue vittime. Alberto, nei primi del 1929, si invaghisce di Elena Sassi, vuole farla sua ad ogni costo e per parecchi mesi la corteggia assiduamente senza risultato, perché la ragazza è indifferente ad ogni proposta e respinge le sue profferte d’amore.

Dopo i continui rifiuti di Elena, per Alberto il possesso della ragazza diventa un vero incubo e l’unico modo che ritiene possibile per ottenere il suo fine è quella di avanzare formale richiesta di matrimonio, ma anche questa proposta viene respinta e, forse per evitare ulteriori insistenze, Elena si fidanza con Francesco Turno, da poco tornato dall’America con un discreto peculio.

Adesso Alberto dovrebbe mettersi l’anima in pace, invece il rifiuto del matrimonio viene percepito come oltremodo umiliante e non gli resta che l’ultima spiaggia: ricorrere alla violenza.

Da quando ha messo gli occhi su Elena è passato quasi un anno, infatti siamo alla vigilia di Natale del 1929. Alberto sa che la ragazza deve andare a prendere l’acqua alla fontana, così l’aspetta acquattato finché lei arriva e le salta addosso afferrandola per le braccia, poi la trascina a viva forza con sé allo scopo di rapirla ed indurla a cedere alle sue voglie. Ma non ha fatto i conti con la determinazione di Elena nell’opporre una strenua e orgogliosa resistenza al tentativo di rapimento. I calci che gli tira, i piedi piantati per terra per rallentare l’azione dell’aggressore e le urla a squarciagola per richiamare l’attenzione di chi può trovarsi nelle vicinanze ottengono l’effetto sperato perché Alberto, non appena vede avvicinarsi alcune persone richiamate dalle urla, molla la presa e se la dà a gambe. Nella colluttazione, però, Elena riporta lesioni in varie parti del corpo ed anche nella regione pubica e questo, oltre alla paura di subire violente ritorsioni, probabilmente consiglia a Francesco Turno di rompere il fidanzamento. Elena denuncia Alberto, ma il processo si chiude con l’assoluzione dell’aggressore a causa dell’intervenuta amnistia e la ragazza deve subire anche la beffa di essere condannata a pagare le spese processuali.

Fidanzamento rotto? Nessun problema, Elena è una bella ragazza e la sua determinazione a non cedere né alle lusinghe e né ai tentativi di violenza la confermano una ragazza onestissima e non passa tempo che prima si fidanzi e subito dopo si sposi con Giovanni Novello, onesto bracciante.

In questo frattempo Fiore Sassi, il fratello di Elena, è tornato dall’America e viene informato dei problemi creati da Alberto, rimanendone profondamente addolorato, ma tuttavia non manifesta alcun proposito di vendetta, limitandosi ad evitare la compagnia e qualsiasi rapporto con Alberto Pizzi. Costui, che invece continua a ritenersi profondamente offeso nel suo amor proprio, ostenta in tutte le occasioni ed in tutti i modi il suo disprezzo per la famiglia Sassi con occhiate torve, sorrisi ironici, urtoni ed anche sputi. Nel carnevale del 1931 si veste da donna e, nonostante la madre lo esorti a non recarsi nella strada ove è sita la casa dei Sassi perché per lui quella sarà la via della morte, insieme con un amico, pure mascherato, va davanti a casa Sassi e comincia a far chiasso e scherzi molto allusivi, pronunciando anche frasi offensive come “ha lasciato il mastro e ha preso il forese”, volendo con ciò ricordare ad Elena che ha rifiutato il matrimonio con lui che è un mastro muratore e ha sposato un miserabile contadino.

Ovviamente questi episodi, ripetuti per mesi e mesi, non fanno altro che risvegliare ed acuire sempre di più l’ira sopita, ma non spenta, di Fiore Sassi, fino a farla esplodere tragicamente.

È la sera del 2 dicembre 1931, poco meno di due anni da quando Alberto ha cominciato ad insidiare Elena, e Fiore ha visto – o gli hanno detto – che Alberto è andato nella sartoria di Achille Russo. Torna a casa, prende il suo fucile e la sua rivoltella, poi con passo deciso va alla sartoria. Sono da poco passate le 19,00 quando bussa alla porta della bottega. Appena il sarto apre la porta Fiore vede il suo nemico seduto di fronte a lui a non più di tre metri. È un attimo, spiana il fucile spara un colpo, non dando tempo ad Alberto nemmeno di fiatare. Vista la brevissima distanza, la rosa dei pallini non si apre e centra Alberto all’occhio sinistro, penetrando fino alla base del cranio e la violenza del colpo lo fa cadere dalla sedia. Fiore rimette a tracolla il fucile, tira fuori la rivoltella, si avvicina ad Alberto e, mentre il sarto resta immobile come paralizzato, sentendo una specie di rantolo uscire dalle labbra della vittima, gli sventola l’arma davanti al viso devastato, come se potesse vederla e sentire le sue parole:

Se non ti è bastato questo, c’è anche quest’altra! – poi rimette in tasca l’arma, esce dalla bottega e sparisce.

Alberto respira ancora, ma la sua sorte è segnata perché morirà il 18 dicembre successivo.

Fiore si costituisce dopo qualche giorno, viene interrogato, confessa l’omicidio e ne spiega i motivi:

Sono stato costretto ad ucciderlo per difendere la mia incolumità personale in quanto, non appena Achille Russo aprì la porta della sartoria, vidi Pizzi alzarsi tenendo in mano una rivoltella, di cui potetti distinguere soltanto il manico

Ovviamente il sarto Achille Russo, unico testimone oculare, lo smentisce in pieno e forse Fiore si pentirà di non aver subito raccontato le umiliazioni e le provocazioni a cui era stato sottoposto, circostanze che, comunque, emergono chiaramente nelle indagini, al termine delle quali, il 15 settembre 1932, il Giudice Istruttore lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario.

La causa si discute il 17 gennaio 1933. Fiore Sassi conferma il suo interrogatorio e la Corte osserva: la difesa ha prospettato e sostenuto diverse ipotesi (non ci fu volontà omicida perché il fucile era caricato a pallini, fu esploso un solo colpo, vizio parziale di mente, eccesso colposo di legittima difesa), che se fossero accolte annullerebbero o quasi la responsabilità del prevenuto, che è accertata. Ma la Corte, che ha il dovere di vagliare i fatti obbiettivamente, così come risultano dagli atti del processo e dal pubblico dibattimento, non può seguire i difensori in tutte le loro richieste perché non rispondenti alla realtà dei fatti. Innanzi tutto non può escludersi la volontà omicida in quanto risulta chiara e manifesta. Un colpo di fucile esploso alla distanza di appena tre metri e la parte vitalissima colpita, nonché il grave odio esistente tra l’uccisore e l’ucciso sono elementi tali da non far dubitare della volontà omicida. Questa, peraltro, fu manifestata dallo stesso imputato quando, avvicinatosi al Pizzi caduto per terra a seguito del colpo ricevuto, ebbe ad esclamare “se non ti è bastato questo (il colpo di fucile) c’è anche quest’altra”, mostrando la rivoltella. Ad ogni modo la carica a pallini piccoli non ha nessuna importanza quando il colpo viene esploso a brevissima distanza dal bersaglio e questo è costituito da una parte vitale del corpo umano, perché in tali condizioni il colpo è sempre letale. Del pari non ha importanza di sorta la mancata reiterazione dei colpi quando, come nella specie, si è ritenuto che col primo colpo l’avversario è rimasto ucciso. Si è chiesto anche il vizio parziale di mente, ma nessun fatto concorre a giustificare tale diminuente. Non può, infine, concedersi l’eccesso colposo di difesa legittima perché manca il presupposto dello stato di legittima difesa. La Corte, però, riconosce che la responsabilità di Fiore Sassi dev’essere alquanto attenuata perché tutti gli atti del processo conclamano che egli agì in uno stato di provocazione, determinato dalle continue offese ed atti di scherno che la vittima per lungo tempo rivolse a lui e alla sorella. I sorrisi e le occhiate possono magari essere tollerati e possono essere ritenuti fatti occasionali, ma quando sono persistenti e provengono dal nostro più fiero nemico si trasformano in veri e propri atti di scherno e di disprezzo, specie se ad essi si aggiunge qualche urtone e, peggio ancora, qualche sputo e mettono chi ne è vittima in uno stato di continua e grave provocazione. E Sassi ha agito proprio in questo stato, reso ancora più grave dal ricordo della grave onta subita dalla sorella, la quale, per quanto remota, è rimasta sempre impressa nella sua mente.

Bene, chiarito che all’imputato compete l’attenuante della provocazione grave, non resta che ragionare sull’entità della pena da infliggergli: partendo da anni 21, meno un terzo per la provocazione grave, stimasi, in definitiva, condannarlo ad anni 14 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.

Ma non è finita qui. Con provvedimento del 27 ottobre 1934, la Corte d’Assise di Cosenza dichiara condonati anni 2 della pena, che resta così fissata in anni 12 di reclusione.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.