La notte tra il 17 ed il 18 gennaio 1933 piove e fa freddo, ma il cantoniere ferroviario Benedetto Lo Sardo è di servizio e sta andando a sorvegliare la galleria “La testa” nel comune di Cetraro quando, passando davanti alla villa dal signor Luigi Falcone, allora disabitata e di cui Lo Sardo ha la custodia, nota che trapela luce dalle imposte e sospettando che vi siano penetrati i ladri, corre ad avvertire i Carabinieri. E così, unitamente a Lo Sardo, arrivano sul posto i Carabinieri Francesco Seminario, Eugenio Rotundo e Angelo Mascalchi, avvolti nei loro mantelli neri e con i moschetti in mano, che entrano nel giardino della villa attraverso il cancello, aperto da Lo Sardo con la chiave che ha seco e che richiude alle sue spalle, e si appostano ai lati del portone d’accesso dell’abitazione, aperto per metà. Dopo qualche minuto il Carabiniere Mascalchi avverte dei rumori provenienti dall’androne della villa, accende la sua lampadina elettrica e gridando “qui v’è gente!” balza all’improvviso nell’interno. Immediatamente dopo, i suoi commilitoni e Lo Sardo sentono due detonazioni una di seguito all’altra, il tonfo di un corpo che cade a terra e si accorgono di una persona che sfreccia loro davanti, scavalca il reticolato che cinge la villa e si allontana di corsa. Rotundo e Seminario sparano contro la sagoma, ma la mancano. Ci penseranno dopo, adesso bisogna accertarsi se il loro commilitone è stato ferito e in che condizioni si trova.
Mascalchi è disteso nell’atrio del portone con una ferita alla tempia sinistra. Respira, però sembra molto grave, così lo trasportano nel vicino casello ferroviario in attesa di un medico, ma non c’è più niente da fare e nel giro di poche ore, purtroppo, muore.
Torniamo al momento in cui il ladro assassino arriva al reticolato. Deve essere un esperto del mestiere perché getta la misera refurtiva consistente in un fucile a retrocarica calibro 16, due matite e qualche confetto, quindi toglie le scarpe per scavalcare più agevolmente il reticolato, ma sul filo spinato lascia un brandello del suo cappotto e si ferisce alle mani, poi corre dove lo sta aspettando un compare.
– Perlamadonna! Mi stavano arrestando! È entrato uno nella casa e l’ho fatto, poi ci dovevano essere i Carabinieri che mi hanno sparato! – dice concitatamente e ansimando.
– Ma che hai preso lì dentro? – gli fa il compare, quasi disinteressandosi della gravità del fatto.
– Nu cazz! Mi avevi detto che avremmo fatto un ricco bottino e a momenti mi ammazzavano! Corro a casa, ci vediamo più tardi.
Poco dopo l’alba, infatti, il compare lo va a trovare a casa, dove ci sono anche la moglie e la suocera, e si fa consegnare la rivoltella usata per uccidere il Carabiniere, poi spariscono entrambi.
Il medico accorso al capezzale del Carabiniere stima che il foro sulla tempia sinistra di Mascalchi sia stato provocato da un proiettile di rivoltella calibro nove e il Maresciallo, spulciando nell’archivio della caserma punta i suoi sospetti su tale Leopoldo Dattilo, che si sa possessore di una rivoltella e dedito al furto e vanno a cercarlo a casa per interrogarlo. Non c’è, ma la moglie e la suocera gli raccontano qualcosa di veramente interessante:
– Ieri sera mio marito ha ricevuto la visita del suo amico Achille Verta, col quale prima ha desinato e poi è uscito, ritirandosi soltanto sul far dell’alba con le mani lacere ed intrise di sangue; poco dopo è ritornato Verta per ritirare una rivoltella, poscia si è allontanato per darsi alla latitanza… mio marito è un pessimo soggetto, noi siamo state incessantemente maltrattate con percosse, minacce e ingiurie – lo accusa, ottenendo la conferma di sua madre, poi continua –. Un anno fa, nel gennaio del trentadue, avendolo rimproverato perché aveva commesso un furto, infuriato, mi contorse un polso producendomi malattia per tre mesi…
Continuando ad indagare, i Carabinieri scoprono che due mesi prima Dattilo, penetrando di notte e mediante scasso nella casa di abitazione del signor Nicola Del Trono, aveva rubato un fucile ed una rivoltella, che poi aveva restituiti al derubato. Si procederà anche per questo reato ed anche per i maltrattamenti in famiglia e le lesioni alla moglie.
Per una settimana i due compari sembrano essere svaniti nel nulla, ma poi il 25 gennaio Dattilo viene sorpreso e arrestato. Interrogato, racconta la sua versione dei fatti, non potendo negare di essere lui l’individuo fuggito da villa Falcone, dal momento che il brandello di stoffa lasciato sul filo spinato combacia esattamente con il brandello che manca dal suo cappotto, per non parlare delle mani ferite e del sangue lasciato sul reticolato:
– È vero, il furto in casa del signor Del Trono l’ho fatto io. – esordisce, forse per prendere tempo.
– Lo sapevamo, ma adesso ci interessa sapere come sono andati i fatti in casa Falcone. – lo incalza il Pretore.
– È stato Verta ad indurmi al furto nel casino del signor Falcone e ho agito d’intesa con lui, che mi aveva assicurato come nel villino doveva esservi ricco bottino di valori e altre cose importanti e mi aveva anche prestato la rivoltella a cinque colpi, contenente però solo due cartucce…
– Perché hai sparato al Carabiniere Mascalchi?
– Ho sparato senza nessuna intenzione di uccidere, ma semplicemente per aprirmi un varco e scappare… non sapevo che la persona che avevo visto entrare nell’atrio del portone fosse un Carabiniere…
A prescindere se la persona entrata in casa fosse o meno un Carabiniere, è difficile credere che se si spara praticamente a bruciapelo un colpo di rivoltella alla tempia di un uomo non si abbia volontà di uccidere. Ma queste sono solo opinioni da profani, le indagini forniranno alla Corte, che eventualmente lo giudicherà, gli elementi necessari per un giudizio sereno.
Dopo qualche giorno anche Verta viene assicurato alla giustizia e, come c’era da aspettarsi, nega ogni addebito che gli viene mosso, anche di avere prestato la sua rivoltella a Dattilo, rivoltella che, imprudentemente, non ha nascosto per bene e viene sequestrata. Esaminata attentamente l’arma calibro 9, è subito evidente che presenta recenti tracce di esplosioni, guarda caso, in sole due camere di scoppio, due come i colpi esplosi da Dattilo. Però Verta, per difendersi cerca di spiegare perché, secondo lui, Dattilo lo sta accusando:
– Mi accusa falsamente pel motivo che mi sospetta di essere stato in intimi rapporti con sua moglie…
A questo punto per il Giudice Istruttore ci sono prove più che sufficienti per rinviare i due compari al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere rispettivamente: Leopoldo Dattilo di omicidio aggravato onde assicurarsi il prodotto di un furto aggravato e conseguire la impunità; furto aggravato più volte in pregiudizio di Falcone Luigi; maltrattamenti in persona della moglie, derivando dal fatto una lesione grave; maltrattamenti con percosse, minacce e ingiurie in persona della suocera; furto aggravato più volte in pregiudizio di Del Trono Nicola; porto abusivo di fucile; porto abusivo di rivoltella. Achille Verta: concorso in omicidio aggravato per avere determinato Dattilo a commettere il furto in danno di Falcone Luigi e fornito la rivoltella che avrebbe dovuto servire come mezzo eventuale di difesa per assicurarsi il prodotto del reato e conseguirne l’impunità.
Accuse da pena di morte, secondo il nuovo Codice Penale.
La causa si discute il 12 luglio 1934 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva che gli elementi essenziali della confessione di Leopoldo Dattilo trovano riscontro nelle risultanze di tutto il processo scritto e del dibattimento orale. Ciò significa, per cominciare, che la Corte è convinta della fondatezza della chiamata in correità nei confronti di Achille Verta, anche perché il compimento dell’impresa ladresca in danno del Falcone presentava qualche difficoltà e quindi non poteva essere attuata da un solo individuo. Per la Corte, Verta, di molto più astuto e intelligente di Dattilo, ideò il furto e poté farlo agevolmente in quanto è il figlio del guardiano dei signori Falcone, quindi in grado di fornire tutte le indicazioni necessarie per la buona riuscita dell’impresa criminosa. Ma i difensori di Verta insistono sulla falsità della chiamata in correità, fatta per vendicarsi di aver avuto rapporti intimi con la moglie di Dattilo. La Corte ha pronta una risposta che lascia di stucco: il Dattilo incoraggiava la tresca allo scopo di ricavarne utilità onde, data tanta amoralità, non è concepibile ch’egli potesse risentirsi a causa di gelosia e che questa potesse giungere fino al punto da indurlo ad accusare falsamente Verta. E va bene, ma come si fa a sostenere che Verta prestò la rivoltella a Dattilo? Dov’è la rivoltella che questi detiene abusivamente? La risposta della Corte è anche in questo caso pronta: essa trovavasi da tempo presso l’armaiuolo Scavella, dovendo essere riparata, come giura il teste. A questo punto il Pubblico Ministero ritira l’accusa nei confronti di Verta per quanto riguarda la sua responsabilità nell’omicidio commesso da Dattilo e la Corte approva la decisione spiegando: egli diede l’arma verosimilmente perché il compagno si sentisse più sicuro nel compiere l’impresa ladresca e durante il compimento di questa si mantenne a distanza dal villino per far da palo e avvertire lo svaligiatore delle eventuali sorprese. Essendosi a tanto limitata e circoscritta l’opera di lui, è fortemente a dubitare che l’omicidio sia stato la conseguenza dell’azione di Verta.
Ma dare pieno credito alla confessione di Leopoldo Dattilo ha altre e decisive implicazioni, che la Corte spiega: rinviando a giudizio gl’imputati, il Giudice Istruttore ha eliminato dall’imputazione l’aggravante di aver commesso il fatto contro un pubblico ufficiale e ciò perché ha ritenuto che non vi fossero sufficienti prove per ritenere che Dattilo, al momento del delitto, avesse riconosciuto nella persona che prendeva di mira con la rivoltella un agente della forza pubblica. E ciò può ben essere, se si pensi all’orgasmo che, evidentemente, dové dominare l’animo di lui nel vedersi sorpreso e data la notte buia e piovosa e la oscurità dell’androne per cui, se pure il Carabiniere Mascalchi fece animosamente irruzione nell’atrio con la lampadina tascabile accesa e non la spense, com’è stato riferito al dibattimento, riusciva abbastanza difficile riconoscerlo a prima vista come un Carabiniere, avvolto com’era nel suo mantello nero, tenuto conto che le lampadine tascabili, a mo’ di lanterna cieca, illuminano bene gli oggetti distanti dal punto produttore della luce e scarsamente la persona che la produce. Né il fatto che l’irruzione fu improvvisa e che gli spari immediatamente susseguirono vale ad escludere che Dattilo avesse l’intenzione di uccidere l’infelice e animoso Carabiniere. L’imputato, com’egli stesso ha dichiarato, ebbe agio di vedere, sia pure fugacemente, l’individuo che aveva fatto irruzione dove egli si trovava nascosto e non sparò né in aria, né all’impazzata ma, mirando alla testa, esplose due colpi, cioè quanti ne conteneva l’arma, a brevissima distanza dal bersaglio preso di mira e col preciso intento di aprirsi un varco. Per conseguirlo non aveva altro mezzo che di abbattere colui che gli contendeva il passo. Secondo l’accusa l’omicidio sarebbe aggravato dal fatto che Dattilo commise l’omicidio per assicurarsi il prodotto del furto e anche l’impunità di questo reato. La prima ipotesi è esclusa dalla circostanza che Dattilo nel fuggire abbandonò lo scarso bottino fatto in casa Falcone, ma neppure può dirsi ch’egli uccise per assicurare a sé l’impunità del commesso furto. Assicurarsi l’impunità, ai sensi e per gli effetti di legge, messo in relazione con l’omicidio, significa operare con l’intenzione di sottrarsi alle conseguenze penali derivanti dal reato in modo, cioè, da evitare o almeno far di tutto per evitare di essere tenuto a rispondere del reato. Tutto ciò implica un calcolo meditato e la preordinazione dei mezzi per mettere in pratica il delitto, circostanze che non possono concepirsi quando, come Dattilo, si agisca all’improvviso sotto l’impressione di una fulminea sorpresa. Dattilo ha dichiarato di aver voluto, sparando, aprirsi un varco e fuggire da coloro che lo avevano scoverto. Volle, quindi, conservare momentaneamente la sua libertà ed un tal fine non può confondersi con l’altro di assicurarsi l’impunità. Che il sottrarsi all’arresto non sia espressione equivalente a quella di assicurarsi l’impunità emerge chiaro dal Codice Penale, che prevede anche l’omicidio commesso dal latitante ovvero dall’associato a delinquere per sottrarsi all’arresto, alla cattura, alla carcerazione.
Eliminate scientificamente dalla Corte le micidiali aggravanti, Dattilo può, come Verta, tirare un sospiro di sollievo perché a questo punto la pena di morte è scongiurata, ma per lui restano gli altri reati per cui è a processo. Per quanto riguarda i maltrattamenti nei confronti della moglie e della suocera, la Corte ritiene che l’imputato non è raggiunto da prove sufficienti e va assolto. È, però, responsabile di lesioni gravi in danno di sua moglie. È anche responsabile dei furti pluriaggravati in pregiudizio di Nicola Del Trono e Luigi Falcone, responsabilità condivisa con Achille Verta, limitatamente al furto in danno di Falcone. Non solo: le aggravanti addebitate per i furti, per il loro numero e per il grado di pericolosità dimostrato da entrambi i giudicabili, debbono ritenersi prevalenti sulla diminuente della speciale tenuità del danno patrimoniale.
A questo punto bisogna ragionare sull’entità della pena da infliggere ai due compari: nell’irrogare la pena devesi aver riguardo alla gravità dei reati, desunta in particolar modo dalle modalità tutte dell’azione, dai motivi a delinquere e dal carattere del reo, dai suoi precedenti penali e giudiziari e in genere dalla condotta e dalla vita del reo antecedentemente al reato. Dattilo è recidivo per aver commesso i reati di cui è stato dichiarato colpevole nei cinque anni dall’ultima condanna da lui riportata per furto; Verta, quantunque mai condannato, è di pessima indole e anche dedito ai furti, come riferiscono i Carabinieri. Per questi motivi la Corte stima giusto fissare e graduare la penalità come appresso:
Nei confronti di Leopoldo Dattilo: a) per l’omicidio anni 24 di reclusione, aumentati ad anni 27 per la recidiva; b) pel furto in danno di Falcone anni 6 con l’aumento di terzo per la recidiva e quindi anni 8 di reclusione; c) pel furto in danno di Del Trono anni 3 di reclusione con l’aumento di un terzo per la recidiva e quindi anni 4 di reclusione; d) per la lesione in danno della moglie anni 3, cui deve aggiungersi anni 1 perché aggravata essendo stata commessa in danno della moglie e la pena, così risultante in anni 4, può aumentarsi ad anni 4 e mesi 6 per la recidiva; pel porto di rivoltella e la detenzione abusiva di detta arma mesi 4 di arresto. Sarebbero in tutto anni 43 e mesi 6 ma la pena detentiva da applicarsi al Dattilo, per effetto delle norme che regolano il caso di concorso di reati, non può superare gli anni 30 di reclusione.
Nei confronti di Achille Verta: per il porto di rivoltella può applicarsi la pena dell’arresto nella misura di mesi 2; per il furto stimasi condannarlo ad anni 8 di reclusione.
Per entrambi spese, danni e pene accessorie.
Il 12 gennaio 1935 la Corte di Cassazione rigetta i ricorsi del Pubblico Ministero e di Leopoldo Dattilo e dichiara inammissibile il ricorso di Achille Verta.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, atti della Corte d’Assise di Cosenza.