Il pomeriggio del 25 settembre 1938 Annina, quattro anni, bisticcia col suo coetaneo Antonio mentre giocano insieme nel rione Babilonia di Rota Greca. Niente di strano, si sa che i bambini litigano innocentemente tra loro e tutto finisce lì. O almeno così sembra perché quando il padre di Annina, Domenico Albidona, torna a casa e la bambina gli racconta l’accaduto, si scatena l’inferno. L’uomo, ubriaco, va su tutte le furie, esce e va a casa di Antonio. Bussa violentemente alla porta e quando la mamma del bambino apre, entra con prepotenza e comincia a picchiarla selvaggiamente con calci e pugni; poi vede la nonna del bambino e prende anche lei a calci, quindi, soddisfatto e tronfio, va a passeggiare.
Nuvole nere si addensano e non promettono nulla di buono. Quando Pietro Cortese torna a casa e trova la moglie e la suocera peste, serra i pugni furibondo, ma fa prevalere la ragione e va subito dai Carabinieri a sporgere querela contro Domenico Albidona. I militari si mettono subito alla caccia dell’aggressore, lo trovano completamente ubriaco e lo arrestano, iniziando il procedimento penale a suo carico. Ma, siccome tutti a Rota Greca conoscono Domenico Albidona come persona abituata al delitto e ne hanno paura, i Cortese, per timore di peggio, revocano la querela e il procedimento penale va avanti solo per ubriachezza molesta, reato per il quale, il 14 ottobre 1938, viene condannato a mesi 4 di arresti, condanna confermata in appello.
Espiata la pena, Albidona giura di farla pagare a Pietro Cortese, alla cui denuncia fa risalire la carcerazione subita, specificando di volerlo sfregiare. La minaccia non può essere presa alla leggera e lo sanno anche i Carabinieri che lo definiscono “pregiudicato temibile, pericoloso, prepotente e sanguinario”. Lo sa bene, purtroppo, anche sua moglie, che ammette: “quando è ubriaco diventa una belva contro tutti”. E tutti, ben volentieri, se ne tengono lontani.
Ma, nonostante il desiderio di vendetta immediata, a Domenico Albidona non si presenta subito l’occasione di mettere in atto il proposito perché Cortese si arruola legionario in Spagna e manca dal paese per parecchio tempo. Ma poi in Spagna Cortese si ammala di reumatismi e viene rimpatriato quasi zoppo.
Allora Albidona, sempre smanioso di vendetta, comincia a provocarlo quasi quotidianamente minacciando di sfregialo e dicendogli:
– Vigliacco, non hai saputo difendere tua moglie e tua suocera quando le ho prese a calci!
Ma Cortese non abbocca e, visto che né le ingiurie e né le minacce funzionano, Albidona cambia strategia e simula amicizia, sperando che la sua vittima designata si faccia cogliere inerme ed alla sprovvista onde egli, senza correre rischi, possa avere facile ragione su di esso. Così, il 21 giugno 1940, avvicina Cortese e gli dice di voler fare pace. Pietro, stanco di quell’andazzo, accetta e tutto si appiana. Forse.
Il 26 giugno Albidona viene a sapere che Pietro Cortese è nell’osteria di Teresina Mari con i suoi amici Vincenzo Mazzei e Pasquale Notturno e li raggiunge. Sono in quattro adesso e possono giocare a carte e bere vino in allegria e quando finiscono decidono di andare al Dopolavoro per bere qualche altro bicchiere. Quando sono nei pressi del locale Albidona si assenta per qualche minuto, giusto il tempo di correre a casa e armarsi di un robusto bastone, poi raggiunge gli amici e paga un mezzo litro.
È quasi mezzanotte quando escono dal Dopolavoro e si avviano tutti verso il rione Babilonia, dove abitano, ma fatti pochi passi Albidona prende a braccetto Pietro Cortese e dice agli altri due:
– Voi camminate avanti perché debbo parlare con Pietro.
Mazzei e Notturno ubbidiscono e li lasciano indietro. All’improvviso Albidona dice a Pietro:
– Tu mi hai fatto prendere quatto mesi di carcere…
– Nessuno ti ha chiamato di andare a casa mia a bastonare mia moglie e mia suocera! – gli risponde senza paura.
– Brutta carogna! Ti debbo rompere le corna e la faccia, ti devo sfregiare!
– Siamo due padri di famiglia, andiamocene a casa… – cerca di rabbonirlo.
Gli altri due amici sentono tutto e si avvicinano per cercare di mettere pace, ma Albidona, con l’abituale arroganza, intima loro di allontanarsi, cosa che i due eseguono immediatamente. Poi, rivolgendosi nuovamente a Pietro mentre mette una mano in tasca, ripete:
– Ti voglio sfregiare!
Sono da soli, ha un robusto bastone in una mano e un coltello a serramanico nell’altra, quale migliore occasione per la vendetta?
Pietro, conoscendolo pericoloso e prepotente, continua a dirgli di non avvicinarsi, ma Domenico si fa sempre più vicino e adesso ha tolto il coltello dalla tasca e fa per lanciarglisi addosso. È in questo momento che Pietro mette una mano in tasca e la toglie armata di rivoltella.
Il lampo illumina per un istante la via e la detonazione rimbomba nei vicoli. Domenico Albidona, colpito alla testa, stramazza a terra già cadavere.
Pietro Cortese si costituisce e confessa di avere sparato contro l’avversario senza avere la volontà di ucciderlo, ma solo di ferirlo. Ma un colpo in testa dice il contrario, così si procede per omicidio volontario ed il 26 novembre 1940 il Giudice Istruttore lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Rossano per risponderne, seppure usi delle parole di apprezzamento verso l’imputato: Non è il caso, in questa sede, di fare un processo di discriminazione del Cortese per legittima difesa perché mancano gli elementi di una prova certa che a questa conclusione possa indurre. La Corte d’Assise potrà avere, coll’apporto di altre prove nella solennità del dibattimento, una considerazione ben diversa del fatto e più favorevole all’imputato.
Il dibattimento si tiene nell’unica udienza del 19 dicembre 1940 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, non è insensibile alle parole del Giudice Istruttore, infatti osserva subito: Indubbiamente il prevenuto si trovò, senza sua colpa, in una situazione tale che se non fosse stato pronto a sparare, Albidona lo avrebbe irreparabilmente accoltellato. I precedenti di Albidona, che lo rivelano violento e sanguinario, le sue propalazioni fatte con ostinata iattanza di voler sfregiare l’imputato, il suo comportamento insidioso e sintomatico tenuto pochi minuti prima che venisse ucciso, quale quello di essere andato a casa per tornare palesemente armato di bastone, l’ordine dato agli amici presenti di allontanarsi volendo rimaner solo con prevenuto per lederlo a suo agio, erano tutti segni inconfutabili e manifesti ch’egli intendeva seriamente attentare all’incolumità di Cortese, onde questi, di fronte all’immediato pericolo, si trovò nella necessità di difendersi. La sua difesa fu, pertanto, legittima e non sproporzionata. È ovvio che chi è armato di sola rivoltella e si trova alle prese con un avversario che, intendendo aggredirlo a colpi di bastone e di coltello e vuole raggiungere lo scopo di lasciare l’impronta indelebile dell’aggressione, non può, né deve, reagire a pugni e saggiamente opera, ai fini della propria conservazione, usando l’arma di cui dispone, né deve aspettare che l’aggressore proceda a fisica violenza.
Le cose si mettono bene per Pietro Cortese, poi la Corte continua: Ben a ragione, quindi, il Pubblico Ministero ha chiesto l’assoluzione del prevenuto, già quasi intravista dal Giudice Istruttore, e la Corte deve accogliere la richiesta, che diversamente farebbe assurgere a reato l’esercizio del più santo dei diritti, quale è quello di impedire, sia pure con la violenza, che teppisticamente ci si accoltelli. È un vecchio principio: vim vi repellere licet (è lecito respingere la violenza con la violenza. Nda) e forse mai come in questo caso l’aforismo si è attagliato al fatto concreto, se si consideri che il prevenuto, prima di sparare, pur vedendo la sua vita in pericolo tentò con accorati accenti di convertire il nemico rammentandogli che entrambi erano padri di famiglia e che quindi faceva d’uopo non compromettersi e quando ciò malgrado il primo, il sanguinario, il professionista del delitto insensibile alla ragione si fece dappresso per accoltellare, egli ben fece a rimettere la sua salvezza all’uso della rivoltella. Essendo questa la situazione giuridica, situazione di legittima difesa, non occorre l’esame se il prevenuto volle, con l’unicità del colpo, uccidere o ferire. Egli si difese senza eccedere e va assolto.
Si, ma Pietro Cortese si è difeso usando una rivoltella detenuta e portata fuori dalla propria abitazione abusivamente essendo sprovvisto di porto d’armi, e di questo deve rispondere. Per questi reati la Corte si esprime così: Considerato che il prevenuto, non avendo denunziato il possesso della rivoltella, né essendosi premunito di porto d’arma, si è reso responsabile delle contravvenzioni ascrittegli e credesi equo condannarlo alla pena di mesi due di arresti, cioè un mese per ciascuna contravvenzione. Il condannato è tenuto al pagamento delle spese del procedimento e di quelle del proprio mantenimento per la durata della pena.
La Corte ordina la liberazione immediata di Cortese Pietro, se non detenuto per altra causa.[1]
È il 19 dicembre 1940 e in Nord Africa oltre 39.000 soldati italiani risultano dispersi o prigionieri in Egitto.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Rossano.