DUE DONNE SOLE

Come fanno sempre, la sera del 9 maggio 1918 Francesca Martino e Maria Carmela Blesi, madre e figlia che vivono da sole, si chiudono nella loro casa a Gangi, provincia di Palermo, che ha due ingressi, uno che dà su via Dongarrà e l’altro su via Parrinello. Verso le nove qualcuno bussa alla porta di via Dongarà: è la loro vicina Antonina Pane. Aprono e la fanno entrare.

– Avete qualche fiammifero? – chiede.

– Certo!

Francesca le porge qualche fiammifero e poi l’accompagna alla porta. Antonina esce e, prima di avere il tempo di richiudere, irrompono in casa alcuni individui incappottati. Francesca urla terrorizzata, ma quelli l’afferrano e con una cordicella le legano la gola e la strozzano, lasciandola morta sui gradini della scala. Maria Carmela, al rumore e alle grida della madre, compreso che i malfattori sono entrati in casa, fugge velocemente per l’uscita opposta di via Parrinello e va a chiamare i Carabinieri, che accorrono immediatamente dividendosi in due gruppi per bloccare le due uscite. I militari che corrono a bloccare l’uscita di via Dongarrà arrestano uno dei malviventi, Nicolò Ferrarello, proprio mentre salta giù dal tetto. I Carabinieri che sbucano su via Parrinello arrestano Pietro Nicosia, ma non riescono a bloccare un altro malvivente che, afferrato, si sfila il cappotto e lo lascia in mano al militare mentre scende a precipizio le scale di casa Blesi. Altri delinquenti riescono a scappare dal tetto della cucina, dove avevano praticato un foro, ma lasciano sul posto due cappotti.

Iniziate immediatamente le indagini, i Carabinieri accertano che all’omicidio per rapina, oltre ai due arrestati Nicolò Ferrarello e Pietro Nicosia, hanno preso parte Nicolò Andaloro, che Antonina Pane accusa di averla costretta, pena la vita, ad andare a casa delle due donne con la scusa dei fiammiferi, e Salvatore Pane, fratello di Antonina. Poi si scopre che Antonino Ferrarello, fratello di Nicolò ed ex amante di Maria Carmela Blesi, è stato l’organizzatore della rapina, ma non perché sapesse che le donne avevano in casa soldi o oggetti di valore, ma per vendetta, poiché era stato abbandonato dall’amante, che si era fidanzata con un giovane di San Mauro Castelverde. Insieme a lui viene denunciato anche suo nipote Giuseppe Ferrarello, le cui iniziali sono ricamate su uno dei cappotti sequestrati e che è sparito dalla sera del delitto. Pochi giorni dopo, però, i Carabinieri in un nuovo verbale affermano che la denunzia di Ferrarello Giuseppe è dovuta ad una non esatta valutazione degli elementi a suo carico perché militare lontano da casa e sostengono che tra i malfattori deve essere incluso Salvatore Ferrarello, figlio di Antonino, il quale è latitante sotto accusa di un altro omicidio, e ha fatto pervenire alla Polizia una lettera nella quale si accusa autore, con lo zio Gaetano Ferrarello, altro vecchio latitante, dell’uccisione di Francesca Martino e deplora di non aver potuto uccidere Maria Carmela Blesi, amante del padre suo, che tanti dispiaceri aveva arrecato alla madre sua per la tresca col padre. Un ulteriore motivo di vendetta.

Chiuse le indagini, vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Palermo i tre fratelli Nicolò, Antonino e Gaetano Ferrarello, Salvatore Ferrarello, Pietro Nicosia, Salvatore ed Antonina Pane e Nicolò Andaloro. Il dibattimento, però, viene spostato alla Corte d’Assise di Messina per legittima suspicione e gli imputati, tranne Antonina Pane e Nicolò Andaloro che vengono assolti per insufficienza di prove e i due latitanti Gaetano e Salvatore Ferrarello, che saranno giudicati in contumacia a Palermo, sono condannati a varie pene. Ma anche i due latitanti, in seguito alla sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 21 luglio 1920, dovranno essere giudicati a Messina per legittima suspicione e il dibattimento col rito contumaciale si tiene il 23 ottobre 1925.

La Corte ritiene, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, che è stata provata la reità di Salvatore Ferrarello come compartecipe al misfatto, ma non è stata sufficientemente stabilita la reità di Gaetano Ferrarello e spiega: se per Salvatore vi è a suo carico prima di tutto la sua confessione affermata dalla lettera, sulla cui autenticità non è a dubitare sia perché specifica fatti che hanno corrispondenza con le risultanze processuali, sia perché dal confronto fatto dagli Ufficiali di Polizia Giudiziaria ed ora dalla Corte tra la scrittura della lettera con un libretto di appunti dell’imputato Ferrarello Salvatore, si è riconosciuta una perfetta corrispondenza tra le due scritture. In secondo luogo vi è sempre a suo carico, gravissima, la circostanza che al misfatto parteciparono il padre e lo zio Nicolò, il primo organizzatore e mandante, il secondo uno dei partecipanti diretti all’esecuzione del gravissimo delitto, colto in flagrante, e riconosciuti colpevoli dalla precedente sentenza di questa Corte, la quale circostanza fa logicamente indurre la partecipazione al fatto dell’imputato, figlio dell’organizzatore del delitto, che aveva particolari ragioni di odio contro le due povere donne. Egli, infatti, e lo dice nella lettera, odiava Blesi Maria Carmela perché essendo stata, e la riteneva ancora, l’amante del padre, era cagione di dispiaceri fortissimi e di dolore verso la madre di esso imputato, soggetta a continue scenate e a pubblicità umilianti. Si aggiunga, infine, sempre a carico di Salvatore Ferrarello, che la Pubblica Sicurezza ha accertato che in casa di Ferrarello Antonino vi erano biancheria ed indumenti personali marcati con le lettere a punto a croce, simili a quelle segnate nel cappotto sequestrato in casa Blesi e quindi può accettarsi la circostanza riferita dall’imputato nella lettera che, cioè, il cappotto apparteneva al fratello Giuseppe, in quell’epoca lontano da casa perché militare, quale cappotto egli, dandosi alla latitanza, aveva portato con sé e aveva lasciato nella fuga da casa Blesi dopo l’esecuzione del misfatto. Indubbiamente si tratta di omicidio premeditato per commettere il delitto di rapina e per occultare le prove di tale delitto. L’imputazione di rapina, però, fatta a Salvatore Ferrarello deve escludersi perché essa è elemento costitutivo e circostanza aggravante dell’omicidio. A carico di Gaetano Ferrarello, poi, per l’accertamento della sua reità non vi sarebbe che un solo elemento e cioè la chiamata di correo del nipote Salvatore Ferrarello, chiamata sfornita di qualsiasi circostanza che valesse a renderla attendibile.

È il momento di tirare le somme: Gaetano Ferrarello viene assolto per insufficienza di prove, mentre per suo nipote Salvatore la pena prevista è l’ergastolo, ma deve godere della diminuzione di un sesto della pena in quanto minore degli anni 21 e maggiore dei 18, così viene fissata in anni 30 di reclusione. Non è tutto: la Corte, considerato che il movente del delitto è ritenuto legato all’onore familiare, decide di concedergli il beneficio delle attenuanti generiche e la pena resta definitivamente fissata in anni 25 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.[1]

Sempre ammesso che riescano ad arrestarlo.

[1] ASME, Sentenze della Corte d’Assise di Messina.