IL SATANICO DESIDERIO

È l’alba del 12 febbraio 1940. Il cinquantottenne Cataldo Capristo, in un angolo della contrada Onda di Rossano, ha appena finito di sistemare le reti da uccellagione per catturare i tordi, quando viene investito alla parte posteriore della coscia destra da una scarica di pallini da caccia. Urla per il dolore e istintivamente si gira per capire chi gli ha sparato, ma proprio in questo momento viene raggiunto da una seconda scarica alla faccia, al torace e all’addome. I pallini entrano nel suo corpo e, perforandogli l’arteria e la vena polmonare, il pericardio e l’epiploon, ne causano la morte istantanea.

Quando durante la mattina ne viene rinvenuto il cadavere e la notizia dell’omicidio arriva ai Carabinieri ed ai familiari, sul posto si raduna una piccola folla e, mentre Cristina Pisani, la seconda moglie, i figli di primo e secondo letto ed un cugino di Cristina, il ventitreenne Giovanni Pisani si disperano urlando e piangendo, i Carabinieri trovano, a 25 metri dal cadavere, un bossolo di fucile calibro 24, con l’impronta della percussione non al centro del fulminante, ma al margine di esso, il che rileva che la cartuccia è stata esplosa da un fucile col percussore difettoso. Un indizio importante.

I Carabinieri interrogano la vedova e Giovanni, il quindicenne figlio maggiore della coppia, i quali affermano che il loro congiunto non aveva alcun nemico e che si era recato verso l’alba ad uccellare. Ma secondo i militari il loro contegno è equivoco e pensano che bisogna indagare nell’ambito familiare per venire a capo del delitto. E così scoprono che Cataldo Capristo, passando a seconde nozze, sposava Cristina Pisani, più giovane di lui di circa 14 anni, ma la società coniugale, durante la quale vennero alla luce tre figli, si svolse all’ombra della discordia poiché Cataldo, accertatosi che la moglie non si era mantenuta fedele, dubitò della paternità dei tre nati, onde non risparmiò né a costoro, né alla madre ingiurie e maltrattamenti ed anzi, nei giorni prossimi alla vicenda, egli, disertando l’alcova coniugale, andava a dormire in un vano sottostante, pretendendo frattanto che moglie e figli andassero via di casa, minacciando in contrario di abbattere porte e finestre onde conseguire l’intento.

Se già ciò non bastasse ad indirizzare le indagini verso l’ambito familiare, i Carabinieri scoprono anche che nell’imperversare di tali discordie, nel dicembre del 1939 diveniva assiduo frequentatore di quella casa il ventitreenne Giovanni Pisani, cugino di Cristina, colla quale contrasse subito intime relazioni.

Ahi! Il cerchio comincia a restringersi intorno a pochissime persone e si ipotizza che i due amanti hanno deciso di sopprimere Cataldo al fine di non avere preoccupazioni ai loro turpi amori e nel tempo stesso di potere, con assoluta libertà, godere delle rendite dei di lui beni in cui sarebbero successi i tre figli minorenni di secondo letto.

Interrogati nuovamente Cristina e suo figlio Giovanni, pur ammettendo che avevano avuto contrasti con la vittima a causa dei patiti maltrattamenti, si dichiarano innocenti e confermano di non sapere elevare sospetti su alcuno.

Quando viene interrogato Giovanni Pisani sembra esserci la svolta:

– L’ha ammazzato mio cugino Giuseppe Pisani, il fratello di Cristina. L’ha fatto per risparmiare alla sorella ed al nipote ulteriori maltrattamenti.

– E tu come fai ad esserne certo?

Ho avuto la sua confessione. Mi ha detto anche che per compier la strage si è servito del fucile calibro 24 appartenente all’ucciso e datogli da Cristina poco dopo che Cataldo era uscito per recarsi ad uccellare.

Giuseppe Pisani viene arrestato e si dichiara innocente, quindi ribalta l’accusa contro suo cugino Giovanni:

– L’ha ammazzato lui perché, essendo il ganzo di mia sorella, la moglie di Capristo, era interessato a sopprimerlo.

In seguito all’arresto di suo zio, il quindicenne Giovanni Capristo, che finora ha dichiarato di non aver sospetti su chi ha ucciso suo padre, si presenta dai Carabinieri e dice:

– È stato Giovanni Pisani.

– Come fai a dirlo con certezza?

Dieci giorni prima del delitto mi ha proposto, sperando di convincermi, di uccidere mio padre. Nel pomeriggio precedente mi ripeté la proposta e poiché io ancora una volta mi rifiutai di dargli ascolto, Pisani si determinò a farlo personalmente onde, con l’inganno, fece sorgere a mio padre il bisogno di uccellare e, attiratolo in campagna, lo uccise.

Accuse gravissime, se riscontrate. Il primo accertamento da fare, a questo punto, è controllare le armi detenute sia dalla vittima, che da Giovanni Pisani. E si scopre un particolare sconcertante: sia le armi della vittima, uno di calibro 12 e un altro di calibro 24, che quelle di Giovanni Pisani, un fucile calibro 24, sono state sotterrate. Riportate alla luce e sottoposte a perizia, i due fucili calibro 24 risultano essere stati usati di recente e quello di Giovanni, cosa molto preoccupante per lui, ha il percussore difettoso, in modo da battere al margine del fulminante, esattamente come riscontrato sulla cartuccia rinvenuta vicino al cadavere.

Interrogato nuovamente, Giovanni Pisani cede e confessa:

Ho mentito accusando mio cugino Giuseppe Pisani. Io solamente ho ucciso Cataldo Capristo sparando contro di lui due colpi del mio fucile, quello stesso ritrovato sotto terra, ma non è vero che io sia stato l’amante di mia cugina Cristina. Sia questa che il figlio Giovanni ebbero a dirmi del loro rammarico per i maltrattamenti. Nel pomeriggio di domenica undici, Cristina mi disse che occorreva ammazzare Cataldo, incaricandomi di compiere l’omicidio. Il figlio Giovanni mi disse le stesse parole. Dopo qualche obiezione accettai l’incarico perché sia la donna che il figlio mi assicurarono come compenso il soggiorno da padrone nella loro abitazione. Fermo nell’impegno assunto, spinsi Cataldo ad uccellare, invogliandolo dicendo che a Rossano i tordi si pagano a due lire il paio. Eseguito l’omicidio nascosi il fucile ed il tredici corrente, rilevatolo, lo portai a mio cognato Antonio perché lo sotterrasse

I Carabinieri vanno a prendere Cristina, le contestano la confessione del suo ganzo e lei dice:

Vero è che più volte, e per ultima nel pomeriggio dell’undici corrente, tra me, mio figlio Giovanni e Pisani si discusse dei maltrattamenti. Vero è che da parte di mio figlio e di Pisani fu manifestato il proposito di sopprimere violentemente mio marito, ma io ho fatto opposizione dicendo che, se mai, io e non altri avrei dovuto agire. Non escludo che, in caso di decesso di mio marito, Pisani Giovanni sarebbe venuto a coabitare presso di me, come da formale promessa mia e di mio figlio… sono innocente!

Il quindicenne Giovanni Capristo paga caro le chiamate in correità fattegli da Giovanni Pisani e, addirittura, da sua madre Cristina e anche lui finisce in carcere insieme ai due amanti per l’omicidio del padre. Non solo, in carcere finisce anche Antonio Berardi per favoreggiamento, avendo aiutato il cognato Pisani Giovanni ad eludere le investigazioni della giustizia.

Interrogati dal Giudice Istruttore, madre e figlio si dichiarano innocenti, pur ammettendo che Pisani li avesse più volte informati della intenzione di uccidere Cataldo Capristo. Cristina aggiunge:

Mio marito ha sempre dubitato della mia fedeltà, tanto da affermare che io avevo avuto rapporti carnali con parecchie persone.

Pisani, da parte sua, conferma di essersi indotto al delitto per istigazione della moglie e del figlio della vittima i quali, aggiunge, gli comunicarono il luogo ove la vittima sarebbe andata a tender le reti.

Chiuse le indagini, il 9 settembre 1940 il Giudice Istruttore dichiara il non luogo a procedere nei confronti di Antonio Berardi perché non punibile per aver commesso il fatto per salvare un prossimo congiunto; rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Rossano Giovanni Pisani e Cristina Pisani per avere, in concorso tra di loro, concertato da più tempo l’uccisione di Cataldo Capristo, eseguendo materialmente il delitto il Pisani, in luogo isolato ed all’alba, mercé lo sparo di due colpi di fucile calibro 24, allo scopo di fare vita comune; Giovanni Pisani dovrà rispondere, inoltre, di calunnia mei confronti di Giuseppe Pisani, che sapeva innocente. Rinvia Giovanni Capristo per avere preso parte nel concerto criminoso, rafforzando la volontà omicida dei primi due in danno del padre Cataldo Capristo.

La causa si discute nelle udienze del 5 e 6 dicembre 1940 e nel corso del dibattimento la difesa di Giovanni Pisani esibisce due certificati: il primo attestante che, a causa di perniciosa comatosa contratta nel 1938 mentre si trovava detenuto, Pisani ebbe un deficit mentale; il secondo del podestà di Rossano attestante che nel 1937 Pisani fu riformato per cataratta completa all’occhio sinistro. Lo scopo è quello di chiedere una perizia psichiatrica, richiesta che la Corte rigetta, forte di un rapporto del carcere attestante che Pisani, durante la degenza in carcere, è stato riconosciuto un simulatore di pazzia, rendendosi perfino confesso.

La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva che ogni discussione sulla responsabilità di Pisani Giovanni, iteratamente reo confesso, sarebbe inutile, ma precisa: oltre alla confessione, a di lui carico stanno le incolpazioni assurgenti a chiamata di correità di Cristina Pisani e Giovanni Capristo, nonché l’accusa di Giuseppe Pisani, né va trascurato l’altro rilevantissimo elemento di carico, quale quello di essere stata trovata sul luogo del delitto una cartuccia con la peculiarità della irregolare percussione, in ciò conforme al difetto di percussione riscontrato nel fucile del prevenuto, in quel fucile che egli, dopo il delitto, ebbe cura di nascondere. Né può dubitarsi che l’omicidio sia aggravato per l’abiettezza dei motivi, essendo stato consumato sia per il satanico desiderio di impossessarsi delle rendite della vittima, sia per potere, senza rischio, dare sfogo ai suoi turpi amori con la vedova dell’ucciso. Né può dubitarsi che il delitto sia anche aggravato per la premeditazione, essendo stato discusso e complottato fin da dieci giorni prima, durante i quali il prevenuto non desistette dall’indurre il figlio della vittima ad operar la strage con consigli e suggestioni e quando perdette la speranza di vincerne la riluttanza, volle personalmente consumare il delitto e, perché gliene tornasse agevole l’esecuzione e nel tempo stesso potesse sfuggire ad ogni sospetto, indusse con frode la vittima a recarsi in lontana campagna, ove l’attese in agguato e l’uccise, dopo di che, con sufficiente accorgimento tentò disperderne le tracce nascondendo il fucile e ritornando subito sul luogo, dove simulò dolore e pianto. Né ciò basta! Per completare l’inganno si profferse ad atti pietosi, quali quelli di comporre la vittima nella bara e di trasportarla all’ultima dimora. E quando poco dopo, nonostante tutto, egli venne sospettato, non si peritò di calunniare altri, pur di farla franca. Il contegno del Pisani prima, durante e dopo il delitto dimostra che egli agì nell’interezza delle facoltà di intendere e volere e più pel miraggio del proprio interesse che per servire Cristina Pisani. In quanto alla terza aggravante, quella di avere profittato di circostanze di tempo e di luogo, non val la pena di spendere molte parole per pronunciarne l’insussistenza. Egli deve rispondere anche di calunnia avendo, in primo tempo, per allontanare i sospetti che si addensavano sul suo capo, osato di accusare di omicidio Pisani Giuseppe, assicurando perfino di averne avuta la confessione, pur sapendolo innocente. Per tale reato credesi equo infliggergli la pena di anni 3 di reclusione la quale, cumulata con l’ergastolo per l’omicidio aggravato, deve convertirsi in segregazione cellulare diurna per mesi 6.

Poi passa ad esaminare la posizione di Cristina Pisani: primieramente ella è raggiunta dalla sua confessione, per quanto astutamente adombrata da riserve mentali, ma rischiarata dalla sua stessa condotta. Ella ha affermato che ben sapeva della decisione del Pisani e di suo figlio di sopprimere Cataldo Capristo, ma ha affermato, sperando scansare ogni responsabilità, di essersi opposta a tali propositi col dire loro che, se mai, ella stessa e non altri avrebbe dovuto agire! Ma, ciò aggiungendo, si smentisce, sia perché non ne dà la prova, sia perché è sbugiardata dal ganzo. E la menzogna si rende palese dal di lei successivo comportamento. Ella infatti, più tardi, intuendo il peso della sua prima affermazione, la rinnega, modificandola nel senso che, quando le fu fatto noto il proposito omicida, sotto il riflesso che bisognava vendicare i maltrattamenti cui era sottoposta, tenne a far sapere che, piuttosto che far commettere l’omicidio, era disposta ad abbandonare il marito e ricorrere alla legge. Tale rabberciatura non convince perché se ella avesse veramente dissentito, avrebbe quanto meno avvisato la vittima perché si guardasse, ovvero avrebbe fatto regolare denunzia alla forza pubblica per i provvedimenti del caso. La partecipazione al complotto, che ella ostenta come casuale, dimostra a sufficienza sulla capacità di lei a rendersi omicida, come rileva la frase “spetta a me uccidere e non a voi”. È ovvio che il Pisani, se non avesse avuto il preventivo consenso di lei, non avrebbe commesso il delitto, ben intuendo che sarebbe stato denunziato dalla vedova, alla quale aveva fatto conoscere il proposito ed in ogni caso, nella naturale ripugnanza che le avrebbe ispirato, gli sarebbe venuto a mancare il buon titolo per sostituirsi all’ucciso nell’alcova e nell’amministrazione dei beni, unica meta che lo fece delinquere. È intuitivo ancora che se l’imputata fosse stata estranea al delitto, non ignorandone l’autore che le si era preventivamente palesato, avrebbe immediatamente reso noto il di costui nome ai Carabinieri che indagavano. Ella invece, volendo deviare le tracce, osò affermare di non poter fare dei sospetti, mancando inimicizia o precedenti che avessero potuto determinare taluno ad uccidere il marito! Non è questo il contegno della vedova innocente! Ella, manifestamente, voleva coprire col suo silenzio l’assassino per essere concorsa al delitto con l’istigazione, trascinata dall’interesse di liberarsi del marito che, consapevole della sua infedeltà, la maltrattava; trascinata anche dalla sua incarnata foia per cui agognava di godersi, senza ostacoli e senza timori, gli amplessi del ventitreenne cugino, più giovane di lei di oltre venti anni. Ma, oltre alla parziale confessione, c’è a suo carico la chiamata di correo fatta dal Pisani, della quale lei ha creduto di liberarsi negando di aver mai avuto rapporti carnali col cugino, ma la tresca, affermata dal Pisani in udienza, trova conferma nella notorietà pubblica di essa. Costei seppe, con le sue istigazioni, creare le condizioni favorevoli perché il cugino sentisse il bisogno di vendicarla, onde il disegno dell’omicidio e la sua esecuzione. Per quanto detto, la prevenuta è colpevole di concorso morale, per istigazione, nell’omicidio colle aggravanti della premeditazione, dell’abiettezza dei motivi e del rapporto di parentela, onde non può esserle risparmiata la pena dell’ergastolo.

Resta solo il quindicenne Giovanni Capristo: nonostante si abbia qualche elemento di accusa circa il suo concorso morale. È da rilevare che egli si è comportato in modo così innaturale da far seriamente dubitare della sua coscienza e volontà. È da pensare, anzi, che egli, per cieca ubbidienza verso la mamma, non abbia saputo né potuto impedire quanto questa ed il suo drudo tramavano. E pare che non si sia reso esatto conto di ciò che è avvenuto. È strano che egli, rimasto orfano ad opera anche della mamma, non si sia, scrivendo a costei, di altro preoccupato che di esortarla a mangiare. È significativo, infatti, che egli in un biglietto così si esprima: “dunque, cara mamma, ora non pensare a niente; segnati roba e mancia che c’è chi pensa a noi e stai tranquilla. Io ti ietterei un muzzicune allu nasu perché ti sei voluta acquistare la galera, che se tu dicevi che non sapevi niente del piano a sta ura eri allibertà”. Ed in un altro pezzo di carta: “Hai capito mancia assai e non pensare a niente che la galera tanto mala non è”. Tutto ciò o è incoscienza o perfido malanimo. La prima può facilmente intuirsi, mentre del secondo non si hanno elementi probatori e, anzi, il fatto stesso che fu proprio lui ad accusare il Pisani, fa pensare che non abbia voluto il delitto o quanto meno non abbia creduto che si arrivasse a tanto. Vero è che a di lui carico, oltre alla chiamata di correo del Pisani, v’ha anche la incolpazione della mamma, alla quale non è da attribuire fede, sia perché non è normale che la mamma accusi il figlio di parricidio, sia perché detta accusa proviene da una donna senza scrupoli, precisamente da una mala femmina. Per quanto detto, Capristo Giovanni va assolto per insufficienza di prove.

I due condannati dovranno pagare le spese, i danni e sopportare le pene accessorie.

È il 6 dicembre 1940

Il 17 febbraio 1943 la Suprema Corte di Cassazione rigetta i ricorsi degli imputati e la sentenza diventa definitiva.

Il 6 aprile 1960, la Corte d’Appello di Catanzaro dichiara estinta la pena dell’ergastolo inflitta a Cristina Parisi per morte della stessa, avvenuta l’8 gennaio 1960 nel carcere di Perugia.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Rossano.