LA STALLA DELLA MORTE

Fin dall’autunno del 1942 il diciottenne Luigi Spina e la diciassettenne Achiropita Calabrò, entrambi da Rossano, iniziano una relazione amorosa nonostante il piccolo particolare che Luigi è già sposato. I due, dalla semplice simpatia passano quasi subito ai rapporti carnali con la conseguenza che la ragazza rimane incinta e quando non riesce più a nascondere il pancione confessa il suo stato ai genitori, ma lo attribuisce ad una violenza carnale subita ad opera di Luigi.

Gennaro Calabrò, il padre di Achiropita, da uomo tranquillo qual è, non medita vendette sanguinarie, ma denuncia il presunto stupratore che però, sottoposto a processo, viene assolto per non aver commesso il fatto. Il pericolo scampato dovrebbe consigliare ai due giovani di troncare i loro rapporti ma, al contrario, tra loro tutto continua come se nulla fosse accaduto. Anzi, proprio lo scampato pericolo e il fatto che la loro relazione è ormai di dominio pubblico, dà lo spunto ad Achiropita di insistere con Luigi, pretendendo che avesse abbandonato la moglie e si fosse dedicato a lei, promettendogli un compenso di lire cinquantamila. A questo Luigi non ci sta e allora Achiropita rompe ogni rapporto con l’amante e si fidanza col giovanetto Armando La Sala ottenendo anche, il 27 luglio 1944, la dispensa delle pubblicazioni di matrimonio per potere addivenire alle nozze nel più breve tempo.

Luigi, da parte sua, se non ha accettato di lasciare la moglie per Achiropita, non accetta nemmeno l’idea che la sua ormai ex amante possa sposare un altro e tenta di avere un abboccamento con Achiropita tramite una comune amica mentre ella passava in vicinanza della casa dell’amica, accompagnata dal fidanzato e da un suo cugino. Chiamata in casa dall’amica, appena dentro vede Luigi, senza pronunciare nemmeno un’esclamazione di sorpresa o un’invettiva, fa un gesto con la mano ad indicare di aver visto una persona odiata, gira sui tacchi e se ne va.

Allora Luigi pensa di usare un’altra strategia per far fallire il matrimonio e comincia a prendere pubblicamente in giro Armando, come fa il 30 luglio nella bottega di tale Tavernise offrendogli parte di un cocomero, volendo significare che come con lui stava consumando il cocomero, allo stesso modo aveva “consumato” la fidanzata.

Ma potrebbe darsi che queste che stiamo raccontando siano stati solo dei pensieri fatti da Achiropita ed Armando e che le due circostanze siano state del tutto innocenti o al limite tendenti ad altri scopi. Per esempio, non potrebbe essere possibile che Luigi avesse avuto intenzione di parlare con Achiropita per chiederle la restituzione dei regali che le aveva fatto, visto che si sta avviando ad una legittima sistemazione? Potrebbe, ma è molto più plausibile che Luigi volesse, e voglia, continuare nella illecita relazione, infatti è proprio ciò che Achiropita dice ai suoi genitori ed al fidanzato.

Tutto questo avviene nella giornata del 30 luglio. La sera Luigi si avvicina alla casa dei Calabrò e, come era abituato a fare, fischia per avvertire Achiropita della sua presenza. La ragazza esce di casa e i due si mettono a parlottare.

– Ti prego, ti scongiuro, torniamo insieme, per te lascio mia moglie… ho già parlato con mia zia e ce ne possiamo andare da lei – le dice quasi piangendo.

– No, ormai sto per sposarmi…

– Se non torniamo insieme ti ammazzo e poi mi ammazzo!

Achiropita è turbata, è sconvolto e crede che bisogna prendere la minaccia molto seriamente. Poi con una scusa rientra in casa per qualche minuto e quando torna da Luigi gli dice:

– Ma sì, andiamo nella stalla come facevamo sempre!

Il giovane non sta più nella pelle per aver riconquistato Achiropita e insieme entrano in quello che spesso era stato il dolce rifugio per i congressi carnali con l’audace amante.

Adesso sono nella stalla al buio; Achiropita lo prende per mano e lo porta verso il solito posto. Quando Luigi fa per abbracciarla, nel buio un cappio si stringe attorno alla sua gola. Boccheggia, implora chi lo sta strangolando di non ucciderlo e di perdonarlo, ma non c’è perdono, né pietà. Dietro di lui, che si dibatte cercando di liberarsi, ci sono Gennaro Calabrò e Armando La Sala che insieme gli stringono la corda al collo, poi aiutati dalla ragazza, come ad un cane rabbioso. Strangolare una persona è un’operazione terribilmente lunga, almeno cinque interminabili minuti, e necessita di molta forza e determinazione per non cedere allo strazio di vedere e sentire la vittima dibattersi e chiedere pietà con movimenti e voce che lentamente si affievoliscono, fino a cessare del tutto.

Gennaro e Armando ansimano, sfiniti. Achiropita è bianca come un lenzuolo. Ma adesso che Luigi è morto bisogna fare un’altra cosa, se non vogliono passare il resto dei loro giorni dietro le sbarre: portare altrove il cadavere e cercare di simulare una disgrazia. Ma simulare una disgrazia, per esempio con un finto suicidio mediante impiccagione, con un cadavere che ha già evidenti sul collo gli inconfondibili segni di uno strangolamento è impossibile agli occhi esperti di un medico legale e i sospetti non possono che cadere su Achiropita e sul fidanzato, che vengono arrestati. Poi si presenta ai Carabinieri Gennaro Calabrò e si assume tutte le responsabilità dell’omicidio, commesso perché, dopo aver stuprato e messa incinta la figlia, Luigi continuava ad importunarla nonostante le prossime nozze, rovinando ancora una volta la reputazione della ragazza e l’onore della famiglia. No, è impossibile che un uomo di sessantacinque anni abbia potuto fare tutto da solo, i due fidanzati debbono almeno averlo aiutato. Anzi, c’è il sospetto che nel crudele strangolamento sia implicata anche la madre di Achiropita e anche lei finisce in carcere.

Poi, dopo lunghi interrogatori, padre, figlia e genero confessano: Luigi è stato materialmente ucciso da Armando La Sala col concorso di Achiropita e di suo padre, ma la madre non c’entra, anzi ha tentato di dissuaderli dal compiere il delitto. Per gli inquirenti, invece, tutti e quattro sono correi e l’8 gennaio 1945 ne viene disposto il rinvio a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Cosenza per rispondere rispettivamente: Armando La Sala di omicidio premeditato; Gennaro Calabrò, Achiropita Calabrò e Gaetana Cirullo di concorso in omicidio premeditato.

La causa si discute dopo un mese e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, deve affrontare il problema se sussista o meno l’aggravante della premeditazione: in base alle accertate circostanze di fatto, la Corte avvisa di non potersi revocare in dubbio che i tre imputati Achiropita Calabrò, Gennaro Calabrò e Armando La Sala, com’è loro confessione, hanno insieme risoluto ed insieme compiuto la morte di Spina Luigi mediante strangolamento. Ma prima di addentrarsi nella disamina delle circostanze relative alla premeditazione, la Corte ricostruisce logicamente come e chi ha avuto l’idea, premeditata o meno, di uccidere Luigi Spina. Può darsi che il desiderio di sopprimere l’amante, che ne aveva colto la verginità e l’aveva resa incinta, sia sorto nella Calabrò Achiropita fin da quando non potette ottenere che si dedicasse a lei soltanto abbandonando la moglie, ma è certo che il desiderio si concretò in risoluzione in quella sera in cui egli, consapevole delle prossime nozze di Achiropita e della sua ostilità manifestatasi nella casa dell’amica dove, come lo vide se ne scappò via senza nemmeno rivolgergli la parola, apparve ancora nei pressi della sua casa, in cui si trovava il nuovo fidanzato da lui dileggiato poche ore prima, col solito fischio di richiamo come prima, con le solite lusinghe e profferte d’amore per piegarla ancora al suo appetito. In quella sera, sotto la suggestione dei suoi racconti e dei suoi pianti, ella riuscì ad affasciare alla sua volontà di sopprimere lo Spina, diventato ormai importuno, quella del padre e del fidanzato e forse anche quella della madre. E se così stanno le cose, la conseguenza è che non sussiste l’aggravante della premeditazione loro contestata. Anzi, per la Corte concorrono, sebbene con diversa entità ed efficacia, per tutti gli imputati le circostanze attenuanti della provocazione, del motivo di particolare valore morale e sociale e le attenuanti generiche. Vediamo perché: il fatto della vittima di voler continuare nella relazione delittuosa, essendo egli sposato, costituisce fatto ingiusto per tutti e tre gli imputati in quanto lesivo del diritto del padre, che ha il diritto ed il dovere di tutela dei propri figli, del diritto della fanciulla, che ha la piena disponibilità della sua libertà sessuale, il diritto del fidanzato, a cui devesi il rispetto del vincolo liberamente assunto verso la persona amata e da costei liberamente accettato. Fatto ingiusto perché costituisce un gravissimo stato d’ira, specialmente nel padre perché comprometteva la redenzione della figliuola prediletta, che egli continuava a ritenere, nonostante l’esito negativo della sua querela per violenza carnale, debole succube della mala brama dello Spina. Determinante pure un grave stato d’ira nel fidanzato La Sala, che per esso temeva di perdere la sua pace e la sua felicità, ancorate sulle prossime nozze con Achiropita, ed anche in costei, che si vedeva attraversata nel proposito di emenda e di purificazione delle sue colpe con le legittime nozze. In tale stato d’ira, determinato da fatto ingiusto altrui, contra legem, si concreta l’attenuante della provocazione, onde la pena va diminuita, più o meno, nei limiti e diminuzione edittali a seconda della sua gravità. Il movente che ha spinto gli imputati alla criminosa azione è per tutti e tre di particolare valore morale e sociale perché il loro scopo è stato, innegabilmente, quello di rimuovere l’ostacolo che con la pretesa caparbia della vittima, di tenere cioè a sé ed al suo appetito aggiogata la giovinetta Calabrò, si frapponeva alle nozze legittime di costei con La Sala, scopo conforme agli interessi del nostro ordinamento sociale, in cui la famiglia legittima è il nucleo più importante. A tutti e tre gli imputati non possono negarsi le attenuanti generiche, di recente rimesse in vigore, poiché tutti e tre suscitano un sentimento di pietà per l’occasione ed il modo con i quali si sono determinati al grave misfatto.

Ora la Corte deve esaminare le richieste delle difese e comincia con quella di Armando La Sala che ha chiesto la non punibilità del suo assistito in quanto ha commesso il fatto senza coscienza e volontà, strumento cieco della Calabrò. La Corte respinge la richiesta perché Armando partecipò al delitto nella preparazione e nell’esecuzione per motivi propri, come è stato già spiegato, ben comprendendo la sua azione e ben rappresentandosene le conseguenze. Dallo stesso riferimento del coimputato Calabrò Gennaro col quale tentò di addossarsi tutta la responsabilità, si evince che l’azione di La Sala fu volontaria e cosciente. Egli, secondo il Calabrò, dapprima si mostrò riluttante, il che implica che comprendeva ciò che gli si chiedeva in tutta la sua entità criminosa, ma poi finì per aderire, onde libera scelta e libera determinazione. Per la Corte non regge nemmeno la richiesta subordinata della difesa di considerare la partecipazione di Armando di minima importanza, perché ciò contrasta con le risultanze processuali, le quali conclamano che egli ebbe parte preminente nell’esecuzione: fu lui che mise il cappio al collo della vittima e diede la prima stretta e continuò a stringere insieme con gli altri finché lo strangolamento fu compiuto.

Poi le richieste della difesa di Gennaro ed Achiropita Calabrò tendenti ad ottenere la dichiarazione di non punibilità per avere agito in stato di legittima difesa o quantomeno la loro punibilità per omicidio colposo, avendo colposamente ecceduto nella difesa legittima. Anche queste richieste sono irricevibili perché irreali in quanto prescinde del tutto dalle risultanze processuali. Nemmeno gli imputati, nel loro buon senso contadino, hanno osato parlare di necessità di difesa di un loro diritto contro un pericolo attuale ed ingiusto. Hanno parlato di fastidi, di lazzi, di qualche vaga minaccia, di petulanza, che danno luogo alla provocazione, non alla difesa legittima. Il mostro violento e schiumante libidine e sitibondo di sangue che avrebbe messo lo scompiglio tra i quattro imputati costringendoli all’azione criminosa a tutela dei loro diritti minacciati senza altro scampo, è un giovanotto ventenne della statura di 1,66 metri, di buona costituzione fisica, senza precedenti penali (eccetto un atto di pervertimento sessuale per essersi, diciottenne, sollazzato insieme con altri compagni su di un’asinella), del tutto inerme perché nessuna arma fu trovata sul suo cadavere e, per giunta, quella sera in atteggiamento tutt’altro che aggressivo e pugnace, ma implorante e piangente che non destava alcun timore, tanto che Achiropita andò da sola a parlottare con lui e lo poté agevolmente trarre con l’inganno alla stalla della morte.

A questo punto bisogna vagliare la posizione di Gaetana Cirullo, madre di Achiropita e moglie di Gennaro. La sua partecipazione è affermata negli interrogatori resi ai Carabinieri, ma negli interrogatori successivi, e specialmente in quelli resi in dibattimento, è detto che non solo ella non partecipò al fatto, ma lo sconsigliò e quando apprese che era stato compiuto, si diede pugni sulla testa e svenne. Pertanto, ritiene la Corte, che ella deve essere assolta per insufficienza di prove.

Quando ha discusso sulle attenuanti da concedere agli imputati, la Corte ha affermato che le attenuanti stesse devono essere modulate da imputato a imputato in base al grado di responsabilità nel delitto e analizza una per una le posizioni dei tre imputati ritenuti responsabili dell’omicidio: Achiropita Calabrò ha nel fatto criminoso maggior somma di responsabilità. La sua condotta di donna libidinosa e bugiarda, che accettò, se non provocò, i congressi carnali con un uomo ammogliato, che voleva sottrarre alla moglie facendo apparire costui agli occhi del padre e del fidanzato come il suo violentatore, che anche nella sera del delitto avrebbe potuto persuadere o almeno tentare di persuadere Luigi Spina a desistere dal suo insano proposito, convince della sua perversità e della necessità di infliggere una pena più grave che agli altri correi. Minor pena di tutti è da infliggere a Gennaro Calabrò sia perché in lui potentemente agirono le circostanze attenuanti, sia per la sua personalità di uomo onesto e stimato, che nei suoi sessantasei anni di vita laboriosa non ha commesso che una contravvenzione alla legge di bonifica. Su Armando La Sala la Corte si è già espressa esaminando la richiesta della difesa.

È davvero tutto, detto dell’assoluzione di Gaetana Cirullo e affermata la responsabilità dei tre imputati, non resta che quantificare le pene da infliggere: Achiropita Calabrò viene condannata ad anni 14 di reclusione; Armando La Sala ad anni 12, mesi 1 e giorni 25 di reclusione; Gennaro Calabrò ad anni 6, mesi 2 e giorni 20 di reclusione. Per tutti e tre i condannati ci sono le spese, i danni e le pene accessorie.

È il 15 febbraio 1945.

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 21 settembre 1945, rigetta i ricorsi di Achiropita Calabrò e Armando La Sala.

Il 16 febbraio 1950 la Corte d’Appello di Catanzaro, visto il D.P. 23 dicembre 1949, dichiara condonati anni 3 della pena ad Armando La Sala.

Il 24 luglio 1950 la Corte d’Appello di Catanzaro, visto il D.P. 23 dicembre 1949, dichiara condonati anni 3 della pena ad Achiropita Calabrò.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.