Antonio Labonia e Carmela Chiaradia, entrambi di Cropalati, sono fidanzati. La notte del 30 agosto 1940, approfittando dell’assenza dei genitori della fidanzata, Antonio penetra nella casa e si congiunge con Carmela per una prima volta nel letto della stessa, poscia per altre due volte fuori dalla casa.
Passa un mese, poi il padre di Carmela viene informato della cosa e va su tutte le furie. No, non pensa ad una vendetta cruenta, ma la mattina del 2 ottobre va in Procura a Rossano e sporge querela contro Antonio per violenza carnale in persona della propria figlia e violazione di domicilio in proprio danno.
Le indagini escludono che si sia trattato di violenza carnale e il Giudice Istruttore rinvia l’imputato al giudizio del Tribunale Penale per i reati di ratto consensuale e violazione di domicilio.
Il 16 maggio 1942 è la data fissata per il dibattimento, che non può svolgersi perché assenti i testimoni. Appena Antonio esce dalla sala di udienza viene affrontato da Carmela che estrae fulmineamente un coltello dalla borsetta e tenta di colpirlo all’addome, ma non ci riesce perché la punta del coltello va ad urtare contro la cinghia di cuoio dei calzoni e Antonio ha il tempo di mettersi in salvo. La conseguenza è che Carmela viene denunciata per tentate lesioni con arma e i due procedimenti penali vengono riuniti. Se ne riparlerà in seguito.
Il Tribunale Penale, a sua volta, con sentenza del 29 agosto 1942, dichiara non doversi procedere contro Antonio Labonia per il reato di ratto consensuale per difetto di querela (e non poteva essere diversamente, visto che era stato denunciato per violenza carnale) e lo condanna ad un anno e due mesi di reclusione per la violazione di domicilio. Ma sia il Pubblico Ministero che la difesa dell’imputato fanno ricorso e si aspetta la decisione della Corte d’Appello.
Questo è il contesto in cui si svolge la storia che ci apprestiamo a raccontare.
Malgrado questo antefatto, dopo breve intervallo i rapporti carnali tra Antonio e Carmela riprendono perché lui le promette di sposarla, Carmela ci crede e da questi rapporti ne esce incinta.
È il 21 febbraio 1943, Carmela è in casa quando sente un fischio dalla strada. È il segnale che Antonio sta andando ad aspettarla nel loro posto segreto, così si prepara in fretta e furia e per giustificare l’uscita prende la scure e dice che va a tagliare un po’ di legna per la cottura del pane.
Quando Carmela arriva, Antonio è sdraiato a terra e con una certa noncuranza le fa vedere la cartolina di precetto che gli è arrivata: deve partire per il servizio militare e la guerra, ormai praticamente persa, sta infuriando.
– Antò, prima di partire mi devi sposare, me lo hai promesso tante volte e adesso è il momento di farlo. Io sono incinta e cosa dico a mio padre se non mi sposi? Sicuramente mi caccerà di casa…
– No, non ti sposo! – il rifiuto è netto.
– Portami a casa tua – lo implora.
– Non se ne parla nemmeno!
– Ti prego, toglimi da casa mia e trovami una casa dove possa andare ad abitare col bambino…
– Peggio!
– Allora dammi qualche soldo per potere provvedere all’acquisto e alla confezione di indumenti per il bambino…
– Io? E perché i soldi non li chiedi alla padrona dove sei andata a raccogliere olive? – e mentre la umilia per la quarta volta, stando disteso a terra, avendo supposto che Carmela sia senza le mutandine, cerca di metterle le mani sotto le vesti per palpeggiarle le cosce. Carmela non dirà di no, non l’ha mai fatto, e continuerà ad essere la sua valvola di sfogo fino a che partirà soldato, poi chi si è visto si è visto e chi se ne frega se il padre la bastonerà e la caccerà di casa.
Antonio è così sicuro di sé da non aver notato che Carmela ha fra le mani la scure che aveva portato da casa e non crede ai propri occhi quando vede l’arma abbattersi sulla sua testa. Poi il buio mentre Carmela lo colpisce altre quattro volte e continuerebbe a colpirlo se non fosse che la scure rimane incastrata nelle ossa del cranio e non riesce a toglierla. Allora lo lascia immobile lì con quel cimiero in testa e torna a casa. Racconta tutto alle sorelle, alla mamma e ad una vicina che ha trovato in casa, quindi si ripulisce alla meglio dal sangue che la imbratta e dice che andrà al Tribunale di Rossano per costituirsi, in modo da evitare che la gente la veda con i ferri ai polsi. Abbraccia la mamma e le sorelle e si avvia. A Rossano non ci va, la vittima è lei, non Antonio che le ha mentito trattandola come una puttana di strada, così va dai Carabinieri del paese e racconta quello che ha fatto e aggiunge:
– Ho agito con la precisa volontà di uccidere colui che mi ha reso infelice l’esistenza.
I Carabinieri accorrono sul posto per fare i rilievi del caso sul cadavere del giovane, ma incredibilmente si accorgono che Antonio non è morto, nonostante dalle ferite alla testa sia fuoriuscita della materia cerebrale. Il ferito viene portato immediatamente in ospedale dove, con estrema cautela, gli viene estratta la scure dalla testa, rimesse a posto in qualche modo le ossa e, dopo avere constatato che la fuoriuscita di sostanza cerebrale ha prodotto paralisi, viene dichiarato in pericolo di vita.
Tentato omicidio, almeno per il momento. E tentato omicidio (continuato perché il precedente tentativo di colpirlo viene adesso rubricato allo stesso modo e riunito all’attuale) resta perché, altrettanto incredibilmente, nonostante le cinque lesioni alla testa che hanno prodotto la frattura delle ossa del cranio e fuoriuscita di sostanza cerebrale, Antonio sopravvive e dopo novantadue giorni viene dichiarato guarito.
Gli elementi per una rapida istruzione del processo ci sono tutti e Carmela viene rinviata al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza. Nel frattempo, il 3 marzo 1943, arriva anche la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro che riguarda Antonio Labonia: la Corte, pur ammettendone la responsabilità per entrambi i reati (ratto consensuale e violazione di domicilio), dichiara non doversi procedere contro l’imputato perché estinti i reati per l’amnistia del 17 ottobre 1942.
La causa contro Carmela si discute il 14 marzo 1944 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva che non può esserci alcun dubbio sulla responsabilità dell’imputata, dato che lei stessa non ha mai negato di avere prodotto le lesioni a Labonia, anzi ne ha fatto ampia narrazione riferendone anche i più minuti particolari ai Carabinieri, al Giudice Istruttore, ai familiari ed alla vicina.
La difesa, dal canto suo, nell’interesse della Chiaradia prospetta la tesi della mancanza della volontà di uccidere Labonia, ma la Corte la respinge come priva di qualunque fondamento, sia perché ha confessato la propria volontà omicida, sia per elementi obiettivi, e spiega: essa dette un primo colpo al Labonia nella regione frontale sinistra e quando questi cadde inferse altri quattro colpi avendo sempre come bersaglio la testa e non rinnovò ancora altri colpi perché non riuscì più a sollevare l’arma, la quale, per la violenza dell’ultimo colpo, restò conficcata nella scatola cranica. Cinque colpi di scure alla testa di una persona, da alcuni dei quali venne fuori anche della sostanza cerebrale, hanno sicuramente potenzialità di produrre la morte a colui al quale i colpi sono diretti. In simile caso non può affermarsi che l’imputata si sia rappresentata tanto la possibilità di uccidere quanto quella di ferire e che, quindi, non essendosi verificato l’evento morte non possa avverarsi che l’altro evento, cioè un ferimento.
Oltretutto, aggiunge ancora la Corte, che l’imputata prefigurò un solo evento, cioè la morte di Labonia, si ricava dalla causale che la spinse al delitto: essa aveva avuto rapporti carnali con l’offeso; aveva chiesto all’uomo dal quale era stata per primo posseduta e poscia resa madre di vedere regolarizzata la situazione con qualunque mezzo – essere sposata o essere tenuta come propria donna – ma nessuna di queste proposte fu accolta da Labonia. Una causale a delinquere delle più gravi e che ordinariamente spinge la donna a sopprimere, non a ferire l’uomo e che determinò anche Chiaradia ad uccidere e se ciò non fece fu perché “convinta che non dava più segni di vita”.
Chiarito, se mai ce ne fosse stato bisogno, che Carmela aveva intenzione di uccidere Antonio Labonia, adesso la Corte deve affrontare il problema se esistano delle circostanze che possano attenuarne la responsabilità e, senza alcun dubbio, afferma: ma il delitto compiuto dall’imputata deve considerasi attenuato per avere essa agito in stato di ira determinato da un fatto ingiusto di Labonia. Basta qui prendere in considerazione non tutta la condotta di Labonia verso l’imputata, ma un fatto soltanto e precisamente l’atto da lui compiuto per palpeggiare le cosce della donna. È un atto di voluttà che egli compì; l’atto avrebbe ben potuto non scatenare l’ira della donna se non fosse stato preceduto da quel complesso di domande e di risposte che furono riferite dalla imputata ed in qualche punto ammesse anche da Labonia, come la circostanza di avere avuto la richiesta di regolarizzare la loro situazione mediante il matrimonio, ma non negò anzi disse esplicitamente di avere opposto una negativa. Basta questa sola ammissione per affermare che l’atto di palpeggiare la donna, con la quale non si crede più contrarre matrimonio, costituisce un atto ingiusto, sufficiente a determinare uno stato d’ira. L’atto di Labonia voleva significare che egli intendeva considerare la Chiaradia come un semplice strumento di piacere e costei aveva tutti i diritti di opporsi ad un tale atto.
Ma per la Corte c’è un’altra circostanza che attenua la responsabilità di Carmela: ha agito per motivi di particolare valore morale: essa, oltre ad avere difeso la propria libertà sessuale dall’atto di Labonia, agì in difesa della propria maternità di fronte all’indifferenza dell’uomo che l’aveva resa incinta. Alla richiesta di denaro che la donna fece per provvedere agli indumenti necessari al nascituro, egli oppose un rifiuto, offendendo anche la richiedente alla quale dice che per denaro poteva rivolgersi a chi aveva prestato la propria attività di lavoro per la raccolta delle olive. Egli con tale risposta dava non solo prova di indifferenza, ma negava anche di essere il padre di quella creatura che la donna portava in grembo.
Il Pubblico Ministero contesta vivacemente la decisione della Corte di concedere la seconda attenuante perché, obietta, Carmela si trovava in una condizione di illiceità tale da impedirne la concessione. Ma la Corte risponde, e duramente, anche a questa contestazione: che le attenuanti possano essere concesse soltanto a chi si trovi in condizioni che non possono essere qualificate come illecite, non vi è dubbio, vi sarebbe una contraddizione insanabile tra situazione illecita ed azione determinata da motivo di particolare valore morale. Gli è però che la condotta della Chiaradia valutata nel suo complesso, non può essere considerata quale illecita. Essa, è vero, dopo la sentenza di condanna pronunziata dal Tribunale di Rossano a carico di Labonia, e quando si poteva, normalmente, aspettarsi che l’uno si sarebbe tenuto lontano dall’altra, riprese i rapporti con Labonia, fino al punto da essere resa incinta e quindi poteva pensarsi che essa si fosse adattata ad essere soltanto la donna di Labonia ed è vero, peraltro, che questi non cessò mai di promettere alla imputata di regolarizzare la situazione mediante il matrimonio. Non può, perciò, dirsi che sia circondata da un alone d’immoralità che non consente sia accordata l’attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale.
Bene, non resta che determinare la pena: tenuto conto delle modalità del fatto, del movente che indussero Carmela Chiaradia all’azione, dei precedenti penali della stessa, stimasi equo prendere come pena base per il delitto consumato, anni 23 di reclusione che, diminuiti di due terzi per essere il delitto solo tentato, riduconsi ad anni 8 che, diminuiti ancora di un terzo per lo stato d’ira e di un altro terzo per i motivi di particolare valore morale, si riducono ad anni 3, mesi 3 e giorni dieci. In più le pene accessorie, le spese e i danni.[1]
È il 14 marzo 1944 e a Carmela restano da scontare due anni e due mesi di reclusione, forse per questo non risultano ricorsi in appello.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.