È il 20 giugno 1940, mezzogiorno. Nelle campagne di San Basile un uomo spara, quasi a bruciapelo, una fucilata in faccia a Matilde Graziadio e poi, forse credendola morta, scappa prima che arrivino sul posto i contadini che stanno lavorando nei dintorni, richiamati dalla detonazione.
Quando arriva gente, Matilde respira ed è cosciente, ma è orribilmente sfigurata. In fretta e furia qualcuno appronta una specie di barella con dei rami e di corsa la portano dal medico del paese che le presta le prime cure, ma vista la gravità delle ferite ordina che sia portata immediatamente all’ospedale di Castrovillari.
Chi può averle sparato per ammazzarla in un modo così orrendo e, forse, simbolico? I sospetti cadono subito sul trentunenne marito, Antonio Vigilante, sia perché i due non andavano d’accordo, tant’è che Matilde lo aveva cacciato di casa, e sia perché dopo il fatto si è reso irreperibile, ma per capire il motivo del misfatto bisognerà aspettare che la donna si riprenda e dica qualcosa, ammesso che riesca a sopravvivere e che riesca ancora a parlare. Poi bisognerà anche aspettare di assicurare Vigilante alla giustizia e sentire la sua campana. È questa l’eventualità che si presenta per prima perché il ricercato, la sera del 24 giugno, bussa alla porta del carcere di Castrovillari e si costituisce.
– Ho sparato una fucilata a mia moglie perché senza alcuna ragione mi ha abbandonato e non ha voluto cedere alle mie insistenti preghiere di farmi rientrare nella casa coniugale – ammette.
– Quindi è per questo motivo che hai cercato di ammazzarla?
– Non avevo intenzione di ucciderla, ma di ferirla…
– Vedremo. Di che tipo era e dove hai preso il fucile?
– Era un fucile a due colpi che presi nella casa rurale di tale Bellizzi Giovanni…
No. Bellizzi non ha mai posseduto un fucile e allora, nel secondo interrogatorio a cui viene sottoposto, Vigilante cambia versione:
– Mia moglie mi minacciò con una falce e quindi ho reagito… il fucile me lo ha dato mio cugino Antonio Bellizzi.
No, i Carabinieri accertano che l’affermazione è falsa e Vigilante chiede di essere interrogato per cambiare ancora versione:
– Antonio Bellizzi mi confidò che mia moglie mi tradiva e, dandomi il fucile, mi suggerì di vendicarmi e io le ho sparato…
Ancora non ha finito di cambiare versione, e siamo a quattro:
– Ho sparato contro mia moglie perché aveva propalato notizie false su di me. perché non volle riunirsi con me e perché mi era infedele!
Matilde è una sopravvissuta. Solo un fortuito caso l’ha salvata da una morte certa: i pallini di vario calibro che le sono arrivati praticamente in bocca, sono stati rallentati e deviati dalla resistenza opposta dai denti, evitando così che potessero raggiungere il cervello. Resterà, però, sfigurata e con seri problemi di masticazione e di favella. Dopo molti giorni, finalmente, le sue condizioni sono migliorate e con grande fatica prova a raccontare la sua versione dei fatti:
– Mio marito mi sparò perché non avevo voluto seguirlo nella sua attività criminosa…
– Cioè?
– Voleva nascondere in casa il prodotto dei furti che commetteva e io non ho voluto, per questo l’avevo cacciato…
– Tuo marito dice che lo tradivi…
– È assolutamente falso, chiedete a chi volete!
Si, è questa la versione più attendibile, confermata da molti testimoni e, ad istruzione terminata, il Giudice Istruttore presso il Tribunale di Castrovillari, il 17 settembre 1942, rinvia Antonio Vigilante al giudizio della Corte d’Assise della città del Pollino.
La causa si discute nell’unica udienza del 23 gennaio 1943 e la Corte mette subito in chiaro che non possono esserci dubbi sulla precisa volontà di uccidere dell’imputato perché lo dicono l’arma usata a bruciapelo, un fucile, e la parte del corpo presa di mira, il viso.
La difesa obietta che, essendo stato usato un fucile a due colpi, la mancata reiterazione dei colpi è il segnale che Vigilante non voleva uccidere. La Corte ribatte: il fatto che l’imputato non reiterò il colpo non regge perché innanzi tutto non si conosce se il fucile fosse a due colpi e se, nell’affermativa, avesse la doppia carica. Questa situazione è rimasta sfornita di prove perché il fucile non fu sequestrato e si ignora, persino, a chi fosse appartenuto. Ma vi è di più: Vigilante vide la moglie cadere; dovette pensare di averla uccisa e fuggì. Era presente in quei pressi la madre della vittima, onde l’imputato aveva interesse di scappare per sottrarsi al riconoscimento. Né difetta la causale proporzionata al delitto di omicidio: disse la parte lesa – con conferma di testimoni – che si era separata dal marito perché non voleva soccorrerne l’attività criminosa. Questo rifiuto, nella mentalità di Vigilante, che viveva di furti come attesta il suo certificato penale, assunse una importanza non lieve. Gli veniva meno la cooperazione in quell’attività che costituiva la ragione di vivere. Per lui, uomo amorale, il rifiuto acquistava un’importanza capitale, onde con criterio di relatività non sembra sproporzionata la causale al delitto concepito.
Per la Corte nessun beneficio compete all’imputato e, d’altra parte, il difensore non l’ha chiesto.
Ma la difesa obietta che, rifiutando di aiutare il marito, Matilde venne meno ai suoi doveri coniugali. La Corte rifiuta categoricamente questa affermazione e ribatte: il rifiuto opposto da Graziadio alle richieste del marito è giustificato. La moglie ha l’obbligo di seguire il marito qualora costui segni il corso di una vita normale, lecita, onesta. Non può pretendersi che la donna si aggreghi al carro della di lui delinquenza. Graziadio non aveva il dovere di convivere col marito che pretendeva di spingerla al delitto. Il suo rifiuto non può giustificare la reazione che ne è seguita.
Non c’è da dire altro, si può passare a quantificare la pena da infliggere all’imputato: stimasi, partendo da anni 25 di reclusione per l’omicidio, con l’aggravante della recidiva, di ridurre la pena ad anni 14 per il tentativo. Per le contravvenzioni stimasi infliggere mesi 4 di arresti. Oltre a spese e pene accessorie. Danni da pagare non ce ne sono perché Matilde non si è costituita parte civile.
Ci sarebbe da applicare il condono previsto dall’articolo 9 del R.D. 18 ottobre 1942, ma la Corte afferma che non compete all’imputato per i suoi precedenti penali.
È il 23 gennaio 1943 e le truppe nazi-fasciste, sconfitti, lasciano Tripoli che viene occupata dai britannici dell’8ª armata del generale Bernard Montgomery.
Il 22 febbraio 1943 la Corte d’Appello di Catanzaro ordina l’esecuzione della sentenza.
L’8 settembre 1948, la Corte d’Appello di Catanzaro dichiara estinta per amnistia le contravvenzioni ascritte ad Antonio Vigilante.
Il 19 settembre 1950, la Procura della Repubblica di Castrovillari, viste le sentenze del 23 gennaio 1943 con la quale Antonio Vigilante venne condannato ad anni 14 di reclusione per tentato omicidio e la sentenza del 13 luglio 1943 con la quale lo stesso Vigilante fu condannato ad anni 4 e mesi 3 di reclusione per furto continuato e più volte aggravato, minaccia grave, porto e detenzione abusiva di pistola, in applicazione dell’articolo 582 C.P.P., determina che il condannato Vigilante Antonio dovrà espiare la complessiva pena di anni 18 e mesi 3 di reclusione.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.