Rosa Musitano è di Castellace, una frazione di Delianuova in provincia di Reggio Calabria, e nel 1937 ha quarantuno anni, è vedova e ha un figlio. Ma c’è un’altra cosa da dire di Rosa: ha avuto una relazione con Vincenzo De Marte, presso la cui famiglia si trovava a prestar servizio, relazione dalla quale nacque un bambino che fu affidato alle cure del brefotrofio e per tale fatto venne scacciata dai De Marte e fu costretta a recarsi a Palmi, ove fu assunta come balia.
La sera del 28 giugno 1937 Rosa torna in paese per accompagnare suo figlio a casa della madre e ci trova anche suo fratello, il ventottenne Angelo, il quale fin dal febbraio dello stesso anno è stato dimesso dalle carceri, dopo aver scontato sedici anni di reclusione, inflittigli per un omicidio commesso nel 1929.
Verso le 3,30 del giorno successivo, dovendo tornare a Palmi, Rosa si alza, si prepara e dopo aver salutato i genitori, verso le 4,30 esce e si incammina. Arrivata nel largo Giandomenico Romeo, viene raggiunta da suo fratello il quale, senza nemmeno dire una parola, le punta contro una pistola e le spara due colpi, solo uno dei quali la raggiunge alla scapola destra facendola stramazzare a terra. Poi, non contento, tira fuori un pugnale e comincia a vibrarle numerosi colpi, ferendola al costato e al collo. È quest’ultimo il colpo immediatamente mortale perché le taglia in due la carotide. Adesso Angelo potrebbe allontanarsi, ma il suo progetto criminale non è completo: afferra Rosa per i capelli e la trascina lungo la strada fin davanti alla porta della casa di Vincenzo De Marte, quindi la lascia e sparisce, dandosi alla latitanza.
Quando arrivano i Carabinieri trovano la madre di Rosa che piange il cadavere attorniata da una moltitudine di curiosi, la portano a casa e la interrogano:
– Stamattina ho visto mia figlia uscire per andare a Palmi, seguita di lì a poco da mio figlio Angelo e subito dopo ho inteso due colpi di arma da fuoco sparati sul largo Giandomenico Romeo. Sono accorsa subito e ho trovato Rosa per terra, già morta ed ho appreso dal pubblico che ad ucciderla era stato mio figlio Angelo…
Questo vuol dire che qualcuno ha assistito alla terribile scena e potrebbe dire cose interessanti, ma quando i militari interrogano i presenti sul luogo per avere conferme sull’identità dell’assassino, pare invece che nessuno abbia visto o sentito niente, nemmeno i due colpi di pistola. Poi, quando Angelo, che è sottoposto al regime della libertà vigilata non si presenta in caserma per la firma quotidiana e non è stato visto accorrere per piangere sul cadavere di sua sorella, gli inquirenti fanno due più due e concludono che l’assassino è proprio lui, così cominciano a battere le campagne e perquisire abitazioni, ma senza esito.
Non c’è pace la mattina del 29 giugno 1937 perché succede qualcos’altro in contrada Gamberella, dove il diciottenne Francesco De Marte, il fratello minore di Vincenzo l’ex amante di Rosa, viene avvicinato da un uomo con un fucile a tracolla.
– Come vi chiamate? – gli chiede l’uomo.
– Francesco De Marte – gli risponde.
– Ma il più grande o il più piccolo dei fratelli?
– Il più piccolo.
– Anche tu! – dice l’uomo che, con una mossa fulminea, imbraccia il fucile, arma il cane e fa fuoco. Francesco però è stato anche più fulmineo dello sconosciuto perché si è girato e si è messo a correre, così la rosa di pallini lo colpisce nella zona dell’osso sacro ma, urlando e piangendo, riesce ancora a camminare. L’uomo bestemmia, non ha più colpi per ricaricare l’arma e finire il suo lavoro, ma vede il fucile del giovanotto appeso al ramo di un albero e lo prende, arma i cani e tira i due grilletti. Niente, non succede niente, il fucile è scarico e Francesco, sebbene sempre più lentamente, si sta allontanando mentre urla più che può per richiamare l’attenzione dei contadini nelle vicinanze. L’uomo esplode in un’altra, terribile bestemmia, poi tira fuori un pugnale e si mette ad inseguire la sua vittima designata. L’impresa è facile per un giovane robusto che insegue un ferito e quasi subito gli è addosso, ma le urla di numerosi contadini che stanno accorrendo armati di zappe, scuri, forconi e bastoni gli consigliano di darsela a gambe levate e Francesco, seppure gravemente ferito, è salvo.
Dalla descrizione che il ferito riesce a fare del suo aggressore quando i Carabinieri lo interrogano, è chiaro che si tratta di Angelo Musitano, del quale, da questo momento, si perdono definitivamente le tracce.
Il 27 gennaio 1939, il Giudice Istruttore, chiusa l’istruttoria, accoglie la richiesta della Procura e lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Palmi per rispondere, in contumacia, di omicidio aggravato dalla premeditazione e dalla crudeltà, dai rapporti di parentela e di tentato omicidio. Ma pochi giorni dopo potrebbe esserci una svolta decisiva in questa brutta vicenda, perché i Carabinieri ricevono una lettera inviata dal comune di Sorianello che li informa della morte di Angelo Musitano. Accidenti, ma come è successo? Bisogna indagare e tramite accurate indagini, l’arcano viene svelato: Musitano è vivo e vegeto perché in realtà il cadavere trovato apparteneva in vita al latitante Antonino Alviano, 23 anni da Radicena, il quale aveva assunto, per farsi maggiormente temere, il nome di Musitano. Tutto risolto, le ricerche dell’assassino continuano e il dibattimento con il rito contumaciale può cominciare.
La Corte osserva subito che da tutti gli elementi è risultato, nonostante la mancanza di testimoni oculari, che Musitano Angelo e non altri fu l’uccisore della sorella Rosa ed il feritore di De Marte Francesco. In vero, appena fu scoperta l’uccisione di Rosa Musitano i Carabinieri di Delianova si misero alla ricerca del fratello Angelo e ne constatarono l’allontanamento dalla casa e la successiva latitanza. È importante, in proposito, la dichiarazione resa ai Carabinieri ed al Giudice dalla madre del giudicabile. Stante poi la capacità a delinquere di Angelo Musitano, già in precedenza condannato per omicidio, non occorrerebbero altri argomenti per dimostrarne la responsabilità in ordine all’omicidio della sorella, ma a suo carico vi è anche il fatto che quello stesso giorno egli esplose un colpo di fucile contro il giovinetto De Marte Francesco, onde è chiaro che egli e non altri fu l’autore dell’omicidio.
Poi si impegna a ricostruire il movente dei due delitti: era notorio che Rosa Musitano, nel tempo in cui suo fratello era detenuto in espiazione di pena, ebbe relazioni intime con Vincenzo De Marte col quale procreò un figlio. Ciò venne a conoscenza del fratello quando fu scarcerato nel mese di febbraio del 1937 ed è intuitivo che egli se ne risentisse giacché si sentiva offeso nell’onore e riteneva per lui decoroso – anche per le regole della malavita alla quale apparteneva – lavare l’onta col sangue. Ecco perché Musitano uccise la sorella, ne trascinò il corpo fin sotto la casa dei De Marte, poi si recò in campagna per trovare il seduttore e compì invece una vendetta trasversale in persona del giovinetto Francesco De Marte, fratello di Vincenzo.
È evidente, seguendo questo filo logico, che i due delitti non possono essere tenuti separati l’uno dall’altro essendo intimamente legati da un unico movente e quindi i due fatti di sangue vanno giudicati come reato continuato, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Intanto va sgombrato il campo da ogni tentativo di sminuire la portata dei fatti e la Corte si premura di affermare che non può negarsi sia nell’uno che nell’altro episodio la volontà di uccidere, sia per la gravità della causale e degli eventi dannosi e sia, infine, perché il colpevole prese di mira regioni vitali del corpo. Resta, a questo punto, da stabilire se Musitano premeditò l’orrenda vendetta, come sostiene la pubblica accusa, o agì d’impeto. Per la Corte non è sufficientemente provato che Musitano avesse preparato la vendetta contro la sorella e De Marte o avesse preparato un piano di esecuzione dei due crimini per meglio raggiungere lo scopo o per assicurarsi l’impunità. Anzi, rincara la dose, non va escluso che l’idea del delitto fosse sorta poco prima dell’azione giacché il fatto, a quanto si evince dal suo rapido svolgimento, fu probabilmente determinato da impeto di sdegno improvvisamente sorto nell’animo del colpevole. Quindi nessuna premeditazione. Per la Corte non sussiste nemmeno la seconda, terribile aggravante, la crudeltà, in quanto il giudicabile, oltre a compiere gli atti necessari per la consumazione del delitto, non ebbe intenzione di procurare alla vittima sofferenze inutili ed una morte stentata ed orrenda. È vero che egli prima adoperò l’arma da fuoco e poi il pugnale ma ciò fece perché credeva che con i colpi di pistola non avesse conseguito il suo scopo e che quindi fosse necessario adoperare l’altra arma.
E se le cose stanno così, a Musitano deve essere riconosciuta l’attenuante di avere agito nello stato d’ira determinato dalla condotta immorale della sorella, dall’offesa arrecata alla onorabilità sua e della famiglia e che egli commise l’omicidio ed il tentato omicidio in un impeto di ira e di sdegno perché aveva saputo che il fidanzamento di sua sorella con un individuo di Palmi era ormai svanito.
Quindi, considerata l’attenuante concessa, considerati la gravità dei fatti, i pessimi precedenti penali dell’imputato ed il suo elevato grado di pericolosità, la Corte stima giusto, dopo complicati calcoli, determinare la pena in anni 30 di reclusione, più pene accessorie, spese e danni.[1]
È il 9 febbraio 1940 e non ci sono più tracce dell’assassino.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Palmi.