Dopo aver mangiato qualcosa per cena, il quarantaquattrenne Francesco Molino, contadino di Tarsia, verso le 19,00 del 22 maggio 1946, arriva nel suo fondo agricolo in contrada Fontanelle distante un paio di chilometri da casa, in modo da trovarsi già sul posto il mattino successivo, quando dovrà occuparsi del suo fieno. Appena buio si stende al riparo di un albero, si copre col mantello e si addormenta placidamente.
È da poco passata la mezzanotte. qualcuno si avvicina il più silenziosamente possibile a Francesco Molino che dorme russando avvolto nel suo mantello. Improvvisamente il silenzio della notte viene squarciato da tre detonazioni, ma Molino non ha il tempo di svegliarsi, perché tre proiettili lo colpiscono: il primo, mortale, gli entra in bocca dal labbro superiore destro, gli frattura i due premolari e termina la corsa nel cranio spappolandogli la massa cerebrale; il secondo gli si conficca nel braccio destro ed il terzo alla spalla. Quando l’eco delle detonazioni svanisce, tutto torna tranquillo come prima.
Verso le 6,30 del 23 maggio 1946 un giovane, affrontati in sella alla sua bicicletta gli ultimi tornanti della strada che porta a Tarsia, viene fermato da una Guardia Municipale che gli ordina di correre dai Carabinieri di Spezzano Albanese per avvisarli che durante la notte è stato commesso un omicidio in contrada Fontanelle.
Quando i militari arrivano sul posto non possono far altro che constatare sul cadavere di Francesco Molino i tre fori prodotti da colpi di arma da fuoco ed i segni delle lesioni che molto probabilmente sono stati prodotti da bastonate in testa.
Il Maresciallo impiega pochi minuti per ricollegare il delitto col fatto che l’ucciso, sebbene ammogliato e padre di otto figli, era da tempo in relazioni di concubinato colla cognata Aquila, vedova del proprio fratello morto in guerra e quindi i suoi sospetti cadono sui familiari del morto, che la voce pubblica vuole in dissidio a causa della tresca, ipotesi rafforzata dal fatto che il maggiore degli otto orfani ha già compiuto i 21 anni della maggiore età. Ma se possono essere stati i familiari del morto, perché non sospettare anche dei fratelli di Aquila, la concubina? Dopo qualche ora è questa seconda pista che prende vigore, soprattutto perché verificati gli alibi dei familiari diretti di Molino, è chiaro che questi col delitto non hanno nulla a che fare.
Così in camera di sicurezza finiscono Pietro e Giovanni De Luca i quali, come riferiscono molti testimoni tra quelli ascoltati, avevano mostrato molto risentimento per le relazioni tra la sorella ed il cognato, ma soprattutto perché avevano già minacciato uccisioni, secondo la testimonianza della fresca vedova che racconta di come, il 9 marzo 1946, fu fatta segno ad un colpo di fucile in contrada Ferramonti, fortunatamente andato a vuoto, e di come un’altra volta, mentre era nella casa campestre col marito, a notte fonda aveva sentito dei colpi sparati in vicinanza e poi al mattino notò avanti la porta una croce.
Pietro e Giovanni De Luca negano ogni coinvolgimento nel delitto e rivoltano le accuse verso i familiari della vittima, ma poi, specie in vista di alcune tracce di sangue notate sui pantaloni di Pietro, sebbene siano stati parzialmente lavati e cioè lavati nei punti macchiati, e previe esortazioni a confessare da parte del Maresciallo dicendosi che, data la causale, si sarebbero prospettate le cose nella denunzia in maniera da potere ottenere indulgenza, gli interrogatori, prima di Lorenzo e poi anche dell’altro, portano alla piena confessione. La ricostruzione che fa Leonardo è confermata da suo fratello Pietro:
– Nei giorni precedenti al 23 maggio, avendo visto che la tresca non era troncata e siccome apprendemmo che Francesco Molino, il quale per convivere con nostra sorella si era trasferito da Tarsia a Bisignano, intendeva ritrasferirsi a Tarsia, decidemmo la sua soppressione e quindi lo sorvegliammo, assodando così che sarebbe stato a passare la notte sul 23 maggio in contrada Fontanelle per attendere alla raccolta del fieno. Verso mezzanotte ci portammo dalle nostre case in Tarsia alla detta località, distante circa due chilometri, armati di pistola e di bastone. Lo vedemmo sdraiato a dormire all’aperto e ci avvicinammo a circa sei metri di distanza e Pietro, senza dargli tempo di ben destarsi al rumore dei nostri passi ed alzarsi, gli sparò tre colpi attingendolo e mettendolo in fin di vita. Io, visto che ancora morto non era, gli tirai in testa quattro bastonate, accostandomi e chinandomi, poscia, per accertarmi del decesso e quindi ci allontanammo e ritornammo alle nostre case.
Davanti a questa confessione, il Maresciallo si rende conto che potrebbero esserci gli estremi per contestare ai due la maggiore imputazione di omicidio premeditato e il verbale di denuncia dei due viene redatto con questa ipotesi di reato, altro che indulgenza!
Ma quando i due vengono interrogati dal Giudice Istruttore, la musica cambia e i fratelli De Luca, davanti all’incubo dell’ergastolo, ovviamente ritrattano tutto sostenendo che le confessioni gli sono state estorte con violenza e minacce dai Carabinieri e la protesta d’innocenza continua insistente nei parecchi successivi interrogatori. Poi, come un fulmine a ciel sereno, i De Luca chiedono di parlare nuovamente col Giudice e cambiano registro: confermano la confessione resa davanti ai Carabinieri, ma con qualche variante tendente ad una attenuazione della loro responsabilità, almeno per quanto riguarda la posizione di Leonardo:
– Dopo aver visto con mio fratello Pietro che Molino era nel suo fondo in contrada Fontanelle e aver divisato insieme di farla finita con costui, mi ritirai a casa e mi coricai. Quando mio fratello venne a chiamarmi per andare ad ammazzare Molino, mi rifiutai di seguirlo perché mi ero pentito, ma poi cedetti a tanta insistenza e seguii Pietro, presenziando alla di lui perpetrazione del delitto…
– Quindi sarebbe stato Pietro a colpirlo sia con la pistola che col bastone?
– Si, solo lui…
Pietro conferma questa versione dei fatti, ma gli inquirenti non la ritengono credibile. Ritengono, anzi, credibile le accuse della vedova di essere stata oggetto di un colpo di fucile e tutti e due vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Castrovillari per rispondere di omicidio premeditato e tentato omicidio. Per i reati minori di porto abusivo di fucile e pistola viene dichiarato il non luogo a procedere, essendo i reati amnistiati. La discussione della causa è fissata al 19 gennaio 1949.
Letti gli atti ed ascoltati i testimoni, la Corte sgombra subito il campo da ogni dubbio: ritiene che entrambi i fratelli De Luca abbiano commesso il delitto gravissimo, come loro imputato. Essi insieme progettarono di uccidere il comune oggetto del loro odio, Molino, in un tempo notevolmente precedente a quello dell’attuazione del progetto, quantomeno, cioè, alle ore 19 del 22 maggio 1946, ossia quando lo ebbero visto sul di lui fondo ad occuparsi del suo fieno e si persuasero che sarebbe rimasto colà a guardia del fieno stesso. Essendosi poi, verso la mezzanotte, riuniti di nuovo, l’uno, Pietro, armato di pistola, avendo all’uopo chiamato l’altro, Leonardo, e questo essendo uscito di sua casa ed avendolo seguito per ben due chilometri sino alla contrada Fontanelle, dove si avvicinarono con tutta circospezione per non farlo destare, o quanto meno a non dargli tempo di alzarsi e modo di difendersi, quando furono a distanza di circa sei metri dal posto in cui Molino era a dormire, Pietro sparò ben tre colpi di pistola così ben diretti che tutti attinsero la vittima. Leonardo, appressatosi ancora e visto che dava ancora segni di vita, finì Molino a colpi di corpo contundente dati in testa, dove il perito notò analoghe lesioni, chinandosi poscia sopra la vittima per assicurarsi dell’esalazione dell’ultimo respiro, restando così macchiato di sangue il pantalone di Pietro. Infine si allontanarono e rientrarono tranquilli alle rispettive case, nella fiducia che il mistero della notte, colla mancanza di alcun testimone e la lavatura del pantalone là dove era la macchia di sangue avessero assicurato la loro impunità.
Ma dove trova le sue certezze la Corte? Dalla prima confessione degli imputati, ovvio, e ne spiega il motivo: la certezza è data alla Corte, appunto, dalla confessione degli imputati come fu fatta ai Carabinieri, non dovendosi essa confessione ritenere per nulla inficiata dalla storiella, oramai stereotipata, che i Carabinieri l’avessero avuta colla violenza fisica o morale quando si è appurato, invece, che la ebbero al rilievo della macchia di sangue la quale, pur lavata, era ancora appariscente e lo stesso Pietro dovette ammetterla, tentando in un primo tempo di spiegarla dando ad intendere di avere macellato un capretto trovato morto.
Poi la Corte, anche se ha già affermato la piena responsabilità di entrambi gli imputati, ha il dovere di vagliare attentamente le confessioni, dal momento che gli imputati nel loro interrogatorio in aula hanno ribadito l’ultima versione dei fatti, che vorrebbe escludere Leonardo dalla responsabilità del delitto, e osserva che il tentativo di salvataggio di almeno uno dei fratelli, Leonardo, ripetuto in aula, è vano: se restano, come debbono restare, fermi gli interrogatori resi ai Carabinieri, resta confessato, appunto, e quindi certo, che anche Leonardo spiegò parte attiva nel delitto. Anche accettando la versione degli imputati, la posizione sua non varierebbe e neppure varierebbe se potesse ammettersi che Pietro solo abbia fatto uso sia della pistola, sia del legno, perché mai si tratterebbe di una presenziazione innocente, ma sempre coordinata al delitto cui avrebbe saputo determinato il fratello. Se non che la Corte, ripetesi, è convinta che entrambi gli imputati consumarono anche materialmente l’omicidio, anche perché i due mezzi, di specie diversa (pistola e bastone o pezzo di legno eventualmente preso sul posto, come quello utilizzato dalla vittima per attorcigliare il fieno) usati contro Molino dovettero essere usati da persone diverse, non potendosi ammettere che Pietro, il quale aveva in mano la pistola con ancora due cartucce cariche, avesse pensato a mutare mezzo per finire la vittima. La Corte è convinta, insomma, che proprio Leonardo abbia, giusta la sua confessione ai Carabinieri, prodotto le ferite con corpo contundente, in attuazione più completa del comune disegno criminoso.
E da questo ragionamento non può che discenderne la sussistenza dell’aggravante della premeditazione, anche se la difesa si batte strenuamente per evitarla. Si, perché la Corte riscontra quel quid pluris di dolo richiesto per tale aggravante nell’essersi, per un periodo ben apprezzabile di cinque ore, formato il proposito di uccidere, riunendosi nuovamente per tornare, mediante un percorso di due chilometri, nel posto in cui Molino era a dormire e saputo usare tanta cautela per avvicinarsi ed ucciderlo.
Allora la difesa, per evitare l’ergastolo, tenta la mossa della disperazione e gioca la carta della provocazione, dando ad intendere che Molino, prima di essere ucciso, usò contro i De Luca, provocandone la reazione, l’epiteto di cornuti, occhiatacce e facendo sapere che sarebbe tornato da Bisignano a Tarsia per dar prova di coraggio verso di loro.
No, per la Corte non può parlarsi di provocazione perché non c’è alcun atto di Molino, immediatamente precedente alla sua uccisione in quanto nulla egli poté fare se, come è certo, fu colpito nel sonno. Non solo: dagli atti non risulta nemmeno alcun fatto ancora più precedente che Molino abbia potuto compiere per indispettire i De Luca. E non è nemmeno vero che Molino sarebbe tornato a Tarsia per dar prova di coraggio, ma è vero il contrario: Molino si era allontanato dal paese natio appunto per evitare l’ostentazione della tresca nel proprio ambiente, in cui erano la famiglia propria e quella di origine dell’amante. E calca ancora la mano affermando che non si può parlare di provocazione perché il fatto del concubinato era ormai vecchio di un anno e mezzo ed i fratelli De Luca a ciò si erano accomodati, avendo senz’altro dimostrato di disinteressarsi della sorella la quale, rimasta vedova, era stata lasciata a vivere da sola invece che presso alcuno di loro o nella casa paterna, senza averle dato lavoro, che ella aveva dovuto cercare presso il suocero prima e poi presso il cognato, il quale proprio così aveva avuto occasione di diventarne l’amante.
Ma se non si può ammettere lo stato d’ira determinato dalla provocazione della vittima, può, ed è il caso, di ammettere che i De Luca siano stati mossi a premeditare e compiere il delitto per orgoglio di casato, tanto più inteso in questa terra calabra, perché la tresca, diventata sempre più nota nel pubblico, feriva l’amor proprio della loro famiglia d’origine. Ed in ciò la Corte vede più propriamente il caso dell’attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale. Non solo: la Corte stima giusto concedere anche le attenuanti generiche, data la incensuratezza dei giudicabili. Ma, poiché trattasi di delitto grave, cinicamente commesso contro un dormiente, la duplice diminuzione di pena va contenuta in giusto limite e quindi stimasi non doversi discendere dall’ergastolo a meno di anni 24 per la prima delle due attenuanti concesse ed a meno di anni 22 per la seconda. Oltre, naturalmente, alle pene accessorie, spese e danni e la sospensione della patria potestà durante l’espiazione della pena.
Ora la Corte deve affrontare la seconda imputazione addebitata ai fratelli De Luca, cioè il tentato omicidio della moglie di Francesco Molino e osserva: se da una parte non può dubitarsi della di lei affermazione di essersi da Pietro De Luca, mentre il fratello Leonardo era a poca distanza da lui, sparato un colpo di fucile quando ella tornava dalla fontana, dubbio è rimasto invece, in mancanza di altre e maggiori precisazioni di lei o di altri, come e perché ella non sia rimasta attinta e quale intenzione abbia potuto avere lo sparatore, al quale poté anche passare per la mente di fare una intimidazione al di lei marito attraverso lei per indurlo, forse, a smettere la tresca. La conseguenza logica di questo ragionamento è che i fratelli De Luca devono essere assolti per insufficienza di prove dall’imputazione di tentato omicidio.
La Corte d’Appello di Catanzaro, il 22 giugno 1960, dichiara condonati anni 3 della pena ad entrambi i condannati.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.