Il 22 maggio 1932 Carmine Mollo, trentunenne di Fagnano Castello ma residente a Corigliano Calabro, prende in moglie Isabella Pedace, che il 6 maggio 1930 aveva messo al mondo, con persona di cui non fu fatta indicazione di generalità, un bambino a cui fu dato il nome di Giuseppe. Poi nel marzo 1940 Carmine viene chiamato in servizio militare, ma dopo appena un mese torna a Corigliano con un anno di licenza di convalescenza. Quando il 10 giugno successivo l’Italia entra in guerra, Carmine è al sicuro a casa ma, scaduta la licenza e riconosciuto idoneo, viene richiamato alle armi e spedito in Albania, dove resta fino al mese di dicembre del 1942, poi ottiene un mese di licenza e torna a casa. Siccome dal matrimonio non sono nati figli e il sussidio che spetta ad Isabella è troppo basso per poter crescere dignitosamente Giuseppe, che ha ormai dodici anni, Carmine lo riconosce legalmente come figlio naturale ed il gioco è fatto.
Ma c’è qualcosa che turba Carmine da quando è tornato in licenza: il ventre un po’ turgido di sua moglie. Che sia incinta? Se così fosse il responsabile non può essere certamente lui, che era impantanato nei gelidi monti tra Albania e Grecia.
– Sei incinta? Chi è stato? – le chiede bruscamente.
– Incinta? Ma che vai dicendo? – gli risponde con una risata e poi, tornata seria, continua – sono stata da più medici e, secondo le diagnosi che hanno fatto, si tratta di mal di stomaco e mi devo operare. Comunque, se non ti fidi, sono pronta a farmi visitare da un altro medico, così ti togli dalla testa questa fesseria!
– No, no, ci mancherebbe! Quando tornerò al fronte ti manderò più soldi per le cure che ti daranno.
Fugato ogni dubbio, Carmine riparte sicuro dell’onestà di Isabella e, come promesso, dalla zona di operazioni di guerra manda tutto quello che può a casa.
Ma i sospetti di Carmine erano fondati, infatti l’8 febbraio 1943 Isabella, che aveva avuto rapporti carnali con un sergente, tal Catanzariti, partorisce una bella bambina, che denunzia allo Stato Civile come figlia di Carmine.
Un uccellino però decide di cantare ed il 30 marzo successivo a Carmine viene recapitata una lettera anonima con la notizia del parto di Isabella. È furioso, prende carta e matita, le scrive una lettera per avere spiegazioni e nella busta mette dentro anche una copia della lettera anonima. Isabella non si perde d’animo e risponde di non preoccuparsi perché si tratta solo di malignazioni. Si, è vero che in casa ha una neonata, ma le è stata affidata da una monaca con la promessa di un adeguato compenso. Magari funzionerà.
Quando la risposta arriva in Albania, Carmine è ricoverato in un ospedale da campo e, dopo essere stato trasferito da ospedale da campo in ospedale da campo, il 28 maggio 1943 finalmente torna in Patria per essere ricoverato nell’ospedale militare di Bari. La prima cosa che fa è scrivere ad Isabella per informarla e lei non perde tempo a salire sul primo treno per andare a trovarlo.
È naturale che la conversazione tra marito e moglie si incentri sulla lettera anonima e Isabella alla fine confessa:
– È vero, perdonami, ti prego…
– Perdono… è una parola grossa. Facciamo così: quando torno a Corigliano ci separiamo e ognuno è libero di fare ciò che vuole.
– E va bene, se è questo che vuoi – risponde rassegnata da un lato, ma tranquillizzata dall’altro per il fatto che Carmine non le ha manifestato propositi di vendetta. Con questo stato d’animo torna a casa e riprende la vita di tutti i giorni.
Carmine, alla fine della prima settimana di giugno, tramite un amico fa sapere a Isabella che sarebbe tornato il 10, ma non arriva. Arriva invece il 12 e va subito a casa, accompagnato da Giuseppe, il figlio che ha riconosciuto come suo. Isabella è con Bombina Funaro e quando entrano è contenta di vederli insieme; si avvicina al marito per abbracciarlo e congratularsi per essere scampato all’inferno della guerra, ma Carmine estrae fulmineamente un coltello dalla tasca e le tira quattro colpi.
La donna si affloscia a terra ferita e viene portata in ospedale. Una coltellata all’addome è penetrata in profondità e ha leso l’intestino: peritonite settica purulenta ed immediato pericolo di vita.
Isabella muore dopo una settimana di agonia e per Carmine, che si è costituito, l’accusa è di omicidio volontario.
È un caso semplice. Chiusa l’istruttoria, Carmine Mollo viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza, che si occuperà del caso il 25 settembre 1944.
Le cose potrebbero ingarbugliarsi quando la difesa chiede che il delitto sia rubricato come omicidio per causa d’onore, con la conseguenza che la pena prevista per questo reato va da 3 a 7 anni di reclusione, mentre per l’omicidio volontario la pena prevista parte da un minimo di 21 anni di reclusione.
La Corte è subito netta: la tesi prospettata dalla difesa non può essere accolta perché in contrasto con i risultati della istruttoria scritta e da questa orale. L’articolo 587 del Codice Penale richiede che il delitto contro il coniuge, la figlia, la sorella avvenga nell’atto in cui l’autore del delitto ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onore suo o della famiglia. Non è certamente necessario che il delitto avvenga immediatamente dopo la scoperta della illegittima relazione carnale, essendo sufficiente, per l’applicazione dell’articolo 587 del Codice Penale, che la uccisione abbia luogo quando ancora perdura lo stato d’ira determinato dalla scoperta della tresca, ma non può parlarsi più di delitto di omicidio per causa d’onore quando tra la notizia della relazione illecita ed il delitto corre tanto tempo da fare svanire lo stato d’ira. Ora, Mollo aveva già avuto conferma della relazione adulterina della moglie ad opera di questa stessa nell’ospedale di Bari, ove si era recata per trovarlo appena il marito arrivò dalla Grecia, e può darsi che nessuno stato d’ira tale comunicazione provocò in lui, se disse alla moglie che al ritorno in paese esso avrebbe preso quanto di suo trovavasi nella casa coniugale e si sarebbe separato da lei. I non pochi giorni trascorsi tra l’incontro a Bari ed il ritorno in Corigliano furono più che sufficienti perché l’emozione determinata dalla confessione della moglie svanisse e la riflessione prendesse il posto dello stato d’ira. Va ancora, sempre al fine di escludere l’applicazione dell’articolo 587, che l’imputato, a favore del quale si invoca l’applicazione del particolare titolo del delitto di omicidio per causa d’onore, deve trovarsi nelle condizioni da sentire l’onta al proprio onore. Poi continua: si sapeva, anzi risultava dal processo scritto, che la Pedace aveva procreato un figlio con persona diversa prima del matrimonio, che l’imputato aveva successivamente riconosciuto come figlio proprio. La causa del riconoscimento fu un pretesto economico: lasciare il sussidio giornaliero a causa del servizio militare che Mollo prestava. Non può quindi dirsi che la relazione adulterina della Pedace abbia potuto offendere la dignità personale del Mollo, che già si era prestato a dare il proprio cognome a chi era stato procreato da altri con la donna diventata propria moglie. Ora, la causa d’onore vuole stabilire, sotto un riflesso puramente soggettivo, che lo stato d’animo dell’agente deve essere valutato in relazione al turbamento del senso personale dell’onore e ad un conseguente stato d’ira, il quale deve trovare la sua causa determinante nell’offesa al sentimento della dignità personale del colpevole. E la dottrina afferma che il dettato dell’articolo 587 non può sussistere quando si tratta di una persona non suscettibile di sentire l’onta al proprio onore.
Detto questo, per la Corte è il momento di trarre le conclusioni e quantificare la pena da infliggere all’imputato: Mollo va, pertanto, dichiarato colpevole di omicidio volontario, determinato dalla condotta irregolare della moglie la quale, durante l’assenza del marito si era congiunta carnalmente con persona diversa e per avere agito per motivi di particolare valore morale. Dal processo si desume che Mollo aveva, durante il servizio militare prestato lontano dalla Patria, inviato sempre danaro alla moglie; che ogni suo risparmio inviò quando la donna a lui fece intendere che non tratta vasi di gravidanza ma di malattia che richiedeva un intervento operatorio. In tale condotta della donna trova la Corte il fondamento dell’attenuante concessa. Relativamente alla pena, valutati le modalità del fatto, i precedenti dell’imputato e le altre circostanze, si ritiene equo assumere come pena base anni 24 di reclusione che, ridotti di un terzo per lo stato d’ira e di altro terzo per i motivi di particolare valore morale, si riducono ad anni 10 e mesi 8, oltre alle pene accessorie e alle spese. Non ci sono danni da pagare.
È il 25 settembre 1944.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.