Nelle prime ore del mattino del 16 agosto 1943, la quarantasettenne Letizia Melicchio di San Martino di Finita, visibilmente agitata, bussa alla casa del Sindaco perché deve comunicargli una brutta notizia. L’uomo la fa entrare e Letizia, piangendo, gli dice:
– Poco fa, mentre dormiva, ho ucciso mio marito a colpi di scure…
Il Sindaco la trattiene e manda a chiamare i Carabinieri di Torano Castello i quali, prontamente accorsi, ricevono la stessa confessione, che Letizia ripete anche al Pretore al quale, per spiegare le ragioni del delitto, racconta la storia della sua vita coniugale, le ansie ed i timori che durante i ventidue anni di matrimonio le hanno resa infelice la vita:
– Mio marito Vincenzo Nisticò, più giovane di me, mi sposò sebbene io sia quasi deforme, ma abile tessitrice e fornita di discreta dote. Ben presto, però, mio marito si dimostrò violento, dedito al vino ed alle donne. Spesso mi maltrattava pretendendo di avere quanto gli occorreva per soddisfare i suoi vizi, malgrado fossero nati dalla nostra unione cinque figli. Nel 1931 i Carabinieri lo denunciarono per mancato omicidio in mio danno, ma il procedimento penale, derubricato a minaccia a mano armata, si concluse con l’assoluzione per insufficienza di prove. Nel 1937 fui ferita al fianco ma, temendo più grave attentato, omisi di denunciarlo. Mio marito, oltre ad avere avuto rapporti con altra donna, al momento del delitto aveva rapporti con una donna di Rota Greca, da cui ritornò nella notte del 16 agosto in stato di ubriachezza… – Letizia si ferma, prende il fazzoletto e comincia ad asciugarsi le lacrime che cominciano a scorrerle sulle gote, poi fa segno che non riesce ad andare avanti ed il Pretore le fa portare un bicchiere d’acqua. Calmatasi, va avanti nel racconto, che ora si fa estremamente drammatico – mise gli occhi su nostra figlia Maria, che sei mesi prima e poscia il 14 agosto aveva tentato di sedurre mettendola sulle sue ginocchia, e poi inveì ancora contro di me sparandomi dapprima un colpo di rivoltella e poscia lanciandomi contro un pezzo di mattone. Uscii e andai nell’orto per espletare un lavoro e dopo breve tempo rientrai; vidi mio marito, mi parve che dormisse e per far finire la vita di ansie e timori per mia figlia Maria presi la scure e lo colpii…
A Letizia è bastato un solo colpo di scure al collo per recidere di netto tutti i grossi vasi sanguigni e dare la morte quasi istantaneamente.
Gli inquirenti sul luogo del delitto rinvengono una rivoltella, che mostra tutte le caratteristiche tipiche di un’arma che ha sparato da pochissimo tempo, e un pezzo di mattone, esattamente come ha raccontato Letizia. Poi, per avere ulteriori conferme al suo racconto, richiamano il fascicolo del processo per tentato omicidio ed interrogano molti testimoni. Letizia ha detto la verità.
Il 29 gennaio 1944, chiuse le indagini, il Giudice Istruttore rinvia l’imputata al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario e la discussione della causa viene fissata per il 18 marzo successivo.
Visto che sulla responsabilità materiale di Letizia non possono esserci dubbi, la Corte focalizza la sua attenzione sui fondamenti che può avere la esimente della responsabilità penale richiesta dalla difesa dell’imputata e osserva: che il Nisticò, con la propria attività, avesse reso difficile la vita alla moglie non può dubitarsi: il processo allegato accertò che diversi anni fa Nisticò sparò colpi di arma da fuoco contro la moglie; nel verbale dei Carabinieri, che per tale fatto fu redatto, si legge che più volte Nisticò aveva minacciato la moglie allo scopo di costringerla a vendere la casa che ad essa si apparteneva; dalla testimonianza del Podestà del Comune si risulta che la Melicchio più volte ebbe a ricorrere a lui perché intervenisse presso il marito; le testi Licursi e Ferraro riferiscono attraverso quali maltrattamenti e angherie si svolgeva la vita della Melicchio ad opera esclusiva del Nisticò; è accertato attraverso le dichiarazioni di altri testi che Nisticò aveva avuto un’amante a Tropea durante il tempo in cui prestò servizio militare in quel paese e con la quale aveva procreato anche un figlio; è accertato che altra amante aveva in Rota Greca al momento in cui il delitto fu consumato, dal quale paese, precisamente, si ritirò nella notte del 16 agosto 1943; risultò, attraverso la perizia, che la pistola repertata fu esplosa di recente; fu rinvenuto un pezzo di mattone anche nella stanza in cui avvenne il delitto. Tutte queste circostanze confermano quanto immediatamente dopo il delitto ebbe a dichiarare la Melicchio. È risultato parimenti vero, attraverso la deposizione di Maria Nisticò, che il padre aveva tentato una prima volta di sedurre la figlia e che altra volta, precisamente due giorni prima del delitto, aveva fatto delle richieste oscene alla stessa figlia. Ora bastano questi fatti, e precisamente quello che avvenne alcune ore prima del delitto (sparo di rivoltella contro la moglie, lancio contro di essa del pezzo di mattone, tentativo di avere rapporti carnali con la figlia), per dare fondamento alla richiesta di non punibilità della donna per avere agito in stato di difesa legittima?
Per la Corte tutto dimostra che esisteva uno stato di pericolo che a Letizia parve imminente: pericolo per la sua vita e per l’onore della figlia. Ma il pericolo era veramente imminente ed attuale, come richiede la legge per la legittima difesa? La Corte, a questo dubbio, risponde: l’elemento dell’attualità deve essere considerato in senso largo, così da ritenere che il pericolo dell’offesa sia attuale non solo quando l’offesa non sia stata ancora attuata, ma anche quando non abbia avuto completa attuazione ed anche quando questa è possibile. Ora, anche per quanto si è detto, deve ricondursi l’attualità del pericolo di offesa alla Melicchio e la Corte deve, pertanto, dichiarare non punibile Letizia Melicchio per avere agito nello stato di legittima difesa.[1]
È il 18 marzo 1944 e, mentre il Vesuvio erutta, i paracadutisti esploratori della Divisione corazzata Hermann Göring, con la collaborazione attiva dei fascisti, compiono le stragi di Monchio, Susano e Costrignano, frazioni di Montefiorino (oggi Palagano) in Provincia di Modena, uccidendo 136 cittadini inermi.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.