Sono da pochi minuti passate le 5,00 del 7 luglio 1925 quando l’appaltatore Nicola Barone ed il suo operaio Carlo Alessandroni entrano trafelati nella stazione di Praia a Mare. Devono prendere il treno per Scalea, ma oggi era in perfetto orario ed è già passato. Per il prossimo ci vorranno altre quattro ore e non possono aspettare, farebbero troppo tardi.
– Andiamo a piedi lungo i binari, faremo certamente prima – dice Barone.
– Ma c’è la galleria vicino a San Nicola Arcella e arriverà il direttissimo delle 6,30 da Reggio Calabria. Se ci sorprendesse in galleria non troverebbero nemmeno i nostri cadaveri! – protesta Alessandroni.
– Intanto avviamoci, quando saremo vicino alla galleria cercheremo di trovare un sentiero per superarla, dai andiamo!
E così i due si incamminano e, giunti nei pressi della pericolosa galleria, deviano verso la costa seguendo il litorale fino ad una piccola galleria naturale che attraversa uno scoglio, abbastanza difficile da superare, ma hanno fretta e si danno da fare, riuscendo a stento a passare dall’altra parte. Appena sbucato nella piccola insenatura davanti alla Grotta del Saraceno, Barone lancia un urlo di terrore: davanti ai suoi occhi c’è il cadavere di un uomo in avanzato stato di decomposizione! Trattenendo a stento i conati di vomito, Barone e Alessandroni decidono di lasciar perdere l’appuntamento a Scalea e corrono ad avvisare i Carabinieri della macabra scoperta.
Il Vice Brigadiere Francesco Grano e l’Appuntato Paolo Palmitessa si precipitano ad avvisare il Pretore e quindi si mettono in cammino per raggiungere il posto indicato, ma faticano molto anche loro, perché dal lato da dove arrivano l’insenatura è chiusa dalla parte di terra da rocce che scendono a picco da un’altezza non inferiore ai trenta metri e sbarrata dalla parte di mare da grossi macigni di granito. L’accesso è dato da un piccolo sentiero, spesso rotto per lunghi intervalli o situato sull’orlo di profondi precipizi; oppure strisciando molto a stento attraverso un foro lungo circa sei metri, scavato ai piedi della roccia, sulla cui sommità e nelle adiacenze manca assolutamente qualsiasi traccia di sentiero. Il monte che la sovrasta scende con forte pendio verso il mare e vi si trovano pietre e arbusti selvaggi.
Finalmente Grano e Palmitessa sbucano nell’insenatura ed ai piedi dell’alta roccia, a distanza di circa otto metri dallo scoglio che emerge dall’acqua si trovano davanti agli occhi la vista raccapricciante del cadavere in stato di avanzata putrefazione, che giace sul fianco con la testa poggiata sull’avambraccio destro. L’avambraccio sinistro è spezzato in due ed è ancora tenuto unito da qualche brandello di carne. I due Sottufficiali notano anche la mancanza di parte del cuoio capelluto e dell’osso parietale destro con la rottura della scatola cranica. Ma il particolare che più li attira è la lingua fuori dalla bocca, che potrebbe essere un indizio importante per determinare la causa della morte. Poco discosti dal cadavere, un berretto ed un ciuffo di capelli segnalano che il pezzo di cuoio capelluto mancante è lì. E c’è anche una macchia di sangue, senza che vi sia traccia di lotta sul terreno, ma questo potrebbe essere dovuto all’azione del mare che ha cancellato ogni traccia.
– È un vero mistero questa morte! – dice il Vice Brigadiere Grano mentre dall’uscita del cunicolo spuntano il Pretore, il Cancelliere ed il medico legale, sporchi di sabbia e fanghiglia come loro due.
– Sicuramente è caduto o si è buttato da lassù – è la prima cosa che dice il Pretore e poi aggiunge – Avete idea di chi sia?
– Mai visto! – rispondono i Militari.
– Controllate nelle tasche della giacchetta se ci sono documenti.
Grano tasta le quattro tasche esterne della giacca dello sconosciuto, ma sembra non esserci niente. Verbalizzato il necessario, il Pretore dispone il trasporto del cadavere nel cimitero di San Nicola Arcella per eseguire l’autopsia, ma l’unico modo possibile è fare arrivare una barca perché trascinarlo attraverso il cunicolo e poi affrontare il pericolosissimo sentiero è impossibile.
La mattina dopo Grano e Palmitessa tornano sul posto e, studiando per bene la posizione in cui si trovava il cadavere e la natura del terreno, si convincono che non può trattarsi né di disgrazia e né di suicidio, ma di un delitto. Il ragionamento che fanno è semplice: nella parte soprastante vi è solo un viottolo che conduce alla montagna, completamente nuda e spoglia di vegetazione, senza alcuna comunicazione con la roccia, ai piedi della quale c’era il cadavere, e dato anche il forte pendio della montagna stessa dalla parte della roccia, non si può ammettere che vi fosse potuto cadere accidentalmente trovandosi di passaggio, sia perché il luogo è inaccessibile, sia perché cadendo da quell’altezza il corpo si sarebbe dovuto sfracellare. Ovviamente lo sfracellamento sarebbe dovuto avvenire anche nell’ipotetico caso di suicidio.
Bisogna indagare a fondo e Grano viene a sapere che due ragazzi, una ventina di giorni prima del macabro rinvenimento, s’incontrarono con uno sconosciuto in contrada Carpino mentre pascolavano alcune vacche. I due raccontano sostanzialmente che, trovandosi verso le 18 di giorni addietro vicino al casello al chilometro 138, incontrarono uno sconosciuto che indossava una giacca con quattro tasche esterne e che chiese loro del pane. Glielo diedero con alcuni fichi e lo sconosciuto si fermò con loro per circa un’ora, poi chiese di indicargli la strada per la stazione di San Nicola Arcella. Uno dei due ragazzi, Giuseppe Diana, gli chiese come mai non fosse partito col treno invece di andare a piedi e lo sconosciuto rispose di essere senza soldi, facendogli vedere il portafogli vuoto. In questa occasione Giuseppe ebbe modo di notare che nel portafogli c’era un passaporto ed altre carte. Lo sconosciuto li salutò e si avviò lungo i binari entrando nella galleria vicina, ma tornò indietro quasi subito dicendo di essere caduto al buio e i due ragazzi lo accompagnarono fino alla località Ponticello, separandosi.
Un portafogli senza soldi con un passaporto e alcune carte. Che fine ha fatto? La risposta arriva quasi subito, il tempo di denudare il cadavere per eseguire l’autopsia. Infatti in una tasca interna viene trovato ciò che i ragazzi hanno detto e adesso si può dare un nome allo sconosciuto: Di Grazia Paolo fu Sebastiano, nato a Ferla, Siracusa, il 2 febbraio 1902, meccanico. Oltre al passaporto per l’interno, nel portafogli nero e vecchio, vengono repertati altri effetti: 2 buste con intestazione di banche americane; 1 fotografia di un bambino con retroscritto “Dino”; 1 biglietto ferroviario 3^ classe Firenze-Siracusa con data illeggibile; 1 lettera del Compartimento delle FF.SS. in data 1-4-25, riguardante un viaggio irregolare Pisa-Roma; 1 fede penale rilasciata dalla Pretura di Palazzolo Acreide in data 7-4-25 con riportato “NULLA”; 1 librettino con copertina rossa con indirizzi. Addosso al cadavere vengono rinvenuti anche: 1 berretto color grigio con bordatura di cuoio alla visiera; 1 salvietta; 1 cravatta; 1 fazzoletto bianco; 1 pezzetto di specchio; 1 forbicetta.
Adesso, forse, si potrà cercare di scoprire come e perché Paolo Di Grazia è andato a morire davanti alla Grotta del Saraceno, sempre ammesso che sia morto lì. Intanto sul “come” l’autopsia non dice granché, solo che esistono, oltre a fratture multiple degli arti superiori, una larga breccia nella regione fronto-temporoparietale attraverso la quale si constata la completa distruzione della massa cerebrale e fratture multiple della base del cranio. Ovviamente le fratture del cranio sono tali da produrre la morte immediata, dicono i dottori Gaetano Oliva e Saverio Ordine, senza essere in grado di stabilire se le fratture siano state prodotte da corpo contundente o in seguito a possibile caduta. Ma c’è un passaggio nella loro relazione che lascia perplessi, dando adito ad altre possibili cause di morte: presi in esame i polmoni, notiamo che le cavità pleuriche sono normali; l’aspetto esterno dei polmoni è nero; al taglio si presentano di colorito rosso vinoso con pigmentazioni nere. Dato lo stato dei polmoni, sorge grave il dubbio che la morte sia stata causata da asfissia per occlusione delle vie aeree, precedente alla frattura della scatola cranica. Quindi concludono: non possiamo, pertanto, affermare che causa unica della morte sia stata la frattura della base cranica.
Pare proprio che le osservazioni dei Carabinieri siano fondate e gli esiti dell’autopsia danno nuovo vigore alle loro indagini, che restano però difficilissime, se non impossibili.
Stabilita l’identità del morto, da Ferla comincia ad arrivare qualche notizia su chi era Paolo Di Grazia. Le prime informazioni arrivano dagli uffici comunali: il nominato Di Grazia Paolo venne, in data 8 aprile u.s. munito di passaporto per l’interno. Pochi giorni dopo lasciò questa residenza per andare in cerca di lavoro ed occuparsi come conduttore di automobili. Stante la condizione misera del Di Grazia, si ritiene che non portava addosso delle somme.
Poi arrivano le deposizioni della sorella Michelangela e della zia Concetta.
– Non ho sospetti di sorta a carico di alcuno, circa la morte di mio fratello Paolo, il quale a Ferla non aveva nemici di sorta. Mio fratello conduceva una vita randagia, trattenendosi qualche giorno a casa mia e poi allontanandosi anche per vari mesi senza dire dove andava. Ritengo che si sostenesse con i proventi della sua professione di chauffeur. Quando appresi la sua morte, egli mancava da circa due mesi e come al solito si era allontanato per ignota destinazione in cerca di lavoro…
– Mio nipote a Ferla non aveva nemici. So solamente che aveva avuto un diverbio con un catanese per questione di una bicicletta. Paolo conduceva una vita randagia…
Nessuna informazione utile.
La Procura di Cosenza sta cominciando a stufarsi dello zelo dimostrato dai Carabinieri e dal Pretore di Scalea che insistono con la storia dell’omicidio, quando si potrebbe chiudere tutto confermando il probabile suicidio o la ancora più probabile disgrazia e così viene imposto al Pretore di: 1) sentire il Vice Brigadiere Grano affinché spieghi con chiarezza, se pur brevemente come ha fatto nel verbale, i motivi ragionevoli che l’indussero a propendere per l’ipotesi del delitto anziché per quella del suicidio o della disgrazia. 2) richiamare i periti settori onde spieghino minutamente la ragione scientifica che li indusse a giudicare che la morte avvenne per asfissia soltanto per il colore dei polmoni, senza soffermarsi a considerare se tale colorito poteva coesistere con altra causa, quale la morte per precipitazione dall’alto o in dipendenza dell’avanzatissima putrefazione.
Interrogato, il Vice Brigadiere Grano, conferma tutto e spiega meglio:
– Ho affermato e affermo che la morte di Di Grazia deve attribuirsi a delitto perché, dato il posto ove il cadavere fu rinvenuto, tanto il suicidio quanto la disgrazia si sarebbero potuti verificare soltanto mediante precipitazione, ipotesi da escludere perché se Di Grazia fosse precipitato, sarebbe dovuto giungere al posto dove fu rinvenuto in stato di sfracellamento. Infatti, la roccia dalla quale sarebbe precipitato è a picco, ha un’alteza di un centinaio di metri ed è fornita di numerose sporgenze taglienti, che avrebbero ridotto il cadavere in stato ben più miserando di come l’abbiamo trovato. D’altra parte, la roccia stessa è inaccessibile dall’alto, tanto è vero che io ed il signor Pretore non abbiamo potuto raggiungerla – poi fa una considerazione logica importantissima, a cui nessuno finora ha pensato –. Data la situazione dei luoghi, opino che sia impossibile consumare un delitto nel posto ove si trovò il cadavere di Di Grazia e penso, invece, che costui, dopo essere stato ucciso, vi sia stato trasportato in barca. Non altrimenti, perchè dalla via di terra non vi si può accedere se non passando attraverso un foro strettissimo nella roccia, lungo un dieci o dodici metri. Io ed il signor Pretore ci passammo a stento, strisciando per terra, rimanendo a me strappata la giubba e due bottoni e riportando qualche graffio.
I periti rispondono piccati:
– Non abbiamo asserito che la morte sia avvenuta per asfissia. Abbiamo soltanto avanzato un dubbio, dato il colorito dei polmoni. Essendo state trovate vuote la cavità pleuriche e non avendo trovato stravasi sulle superfici polmonari, escludiamo che il colorito dei polmoni sia dovuto a precipitazione dall’alto.
Adesso dovrebbe essere chiaro che non può che trattarsi di un delitto e in Procura comincia a farsi strada l’ipotesi che gli autori dell’omicidio possano essere proprio i due giovanotti che furono gli ultimi a vedere Paolo Di Grazia vivo. I dubbi che hanno generato i sospetti sono essenzialmente questi: essendo essi analfabeti, come potettero comprendere che Di Grazia fosse provvisto di passaporto per l’interno? I due ragazzi affermano di aver offerto pane e fichi a Di Grazia, che mangiò con appetito, mentre dall’autopsia risulterebbe che lo stomaco era vuoto. L’ultimo dubbio è legato alla distanza che intercede dal posto ove i testi lasciarono Di Grazia al sito dove ne fu rinvenuto il cadavere e al tempo che potrebbe essere necessario a percorrere questo tragitto. Tranne il primo, legittimo, sospetto, le altre questioni avrebbero senso solo se si avesse la certezza che Di Grazia sia morto, ammazzato o meno, nella stessa sera che i ragazzi lo incontrarono. Ma la certezza non c’è.
Giuseppe Diana è il primo dei due a dover chiarire gli aspetti indicati dalla Procura:
– Gli domandammo che cosa andasse facendo e ci rispose che proveniva da Catania, dove lavorava come meccanico assieme ad uno zio che non lo pagava e che, pertanto, era stato costretto a lasciarlo. Ci disse che da due giorni non mangiava e allora gli ho dato il pane che avevo portato per me, mentre Elia gli offrì dei fichi. Mangiò con appetito e si mostrava lieto, affermando che era sicuro che appena arrivato a Praia si sarebbe messo al lavoro, guadagnando in poco tempo il viaggio per Napoli, dove aveva la famiglia. Gli chiesi se non temeva di essere fermato dalle guardie, egli mi rispose che aveva tutte le carte in regola e mi mostrò dei documenti…
Niente di nuovo e potrebbero essere guai seri. Poi è la volta di Giuseppe Elia:
– Diano aveva del tabacco per sigarette, ma gli mancavano le cartine. Fu allora che per trovarne qualcuna, Di Grazia prese il portafogli e, mostrandoci le carte in esso contenute, ci fece vedere anche un foglio sul quale era appiccicato il suo ritratto, dicendoci che quello era il passaporto per l’interno, poi disse: “Quando mai in questo portafogli non ci furono denari!”.
Anche se con qualche differenza, la spiegazione è plausibile ed è confortata dalla una lettera del Vice Brigadiere Grano, scritta per comunicare la distanza tra il posto dove i ragazzi incontrarono Di Grazia e quello dove fu trovato il cadavere, che è di più di un’ora di cammino:
Si deve assolutamente escludere che il delitto abbia potuto essere commesso dai ragazzi Elia e Diana:
- Nessuna ragione avrebbero avuto a commettere un delitto così grave.
- Sono degli ottimi ragazzi.
- Fisicamente poco sviluppati, non avrebbero potuto avere il sopravvento su Di Grazia.
E con questo i due ragazzi escono definitivamente dalle indagini, che proseguono alacremente. Ma, senza conoscere il luogo dove fu commesso l’omicidio, senza certezze sulla data in cui fu commesso, senza il minimo indizio sul movente e sull’autore o, più probabilmente, sugli autori e con ancora il dubbio che teoricamente si sia trattato di suicidio o disgrazia, è peggio che cercare un ago in un pagliaio. Così il 16 aprile 1926, dopo nove mesi dal ritrovamento del cadavere, la Sezione d’Accusa dichiara il non doversi procedere per insufficienza di prove circa la sussistenza del delitto.[1]
Chi e perché ha ucciso Paolo Di Grazia?
[1] ASCS, Processi Penali.