È la mattina del 3 gennaio 1947, due uomini trafelati si presentano alla caserma dei Carabinieri di Altomonte:
– Verso le 6,00 di stamattina abbiamo trovato il cadavere di Vincenzo Console in contrada Corvo…
– Precisamente dove?
– Nei pressi dell’abitazione di Filippo Perrone, vicino alla rotabile da Altomonte a San Donato Ninea.
– Avete idea di come è morto?
– Sicuramente è stato ammazzato… forse a scopo di rapina…
– Cosa ve lo fa pensare?
– Vicino al cadavere abbiamo trovato abbandonato l’asino di Filippo Perrone, il suocero di Console, e più sotto altra simile bestia di Vincenzo Cantaio… non è normale…
Quando i Carabinieri arrivano sul posto e fanno i primi rilievi, si convincono subito che non da ignoti fosse stato ucciso il povero Console, freddato con un colpo di fucile alla nuca, ma invece ad opera di Pietrantonio Ferraro, l’amante della moglie di Console, Maria Innocenza Perrone, dopo aver con questa premeditato e concordato il relativo piano delittuoso.
Ma torniamo indietro di una decina di anni. Vincenzo Console, allora ventisettenne, sposò Maria Innocenza, allora diciassettenne. Nacque un bambino e poi Vincenzo, scoppiata la guerra, fu richiamato alle armi e cadde prigioniero. Maria Innocenza, che non pare abbia avuto, sin dai primi tempi del matrimonio, da lei non fatto di buona voglia, dell’affetto per lui, sin dal 1945 si era data al giovanissimo Pietrantonio Ferraro, rimanendo incinta e dando alla luce una bambina, denunziata allo Stato Civile col cognome del marito. Questi, rimpatriato verso la fine del febbraio 1946 dalla prigionia, seppe prima della gravidanza e poi della nascita della figlia adulterina giacché ella, evidentemente cercando di non esporre l’amante, aveva dichiarato di esser stata costretta a congiunzione carnale, colla violenza, da uno sconosciuto mentre si recava a San Donato per riscuotere le indennità come moglie di militare, tanto che Vincenzo aveva sporto querela per adulterio contro di lei e contro l’ignoto correo. Maria Innocenza se ne andò di casa ma Vincenzo, nonostante la querela, la perdonò e le chiese di tornare insieme sotto il tetto coniugale. Lei però rifiutò la proposta ed accadde, anzi, che un giorno in cui egli andò a cercarla presso la famiglia di Pietrantonio, questi, incitato pure da lei, lo scacciò ed inseguì col fucile in mano. E quando poi, Antonietta Romeo ebbe ad esortare Maria Innocenza a tornare col marito, ella rispose che Vincenzo fosse stato attento a non insistere perché Pietrantonio l’avrebbe sparato. Ed avvenne pure che, essendosi il padre di lei schierato contro la figlia tanto da avere alienato qualche suo bene immobile in favore del genero ed avere minacciato di donargli, sotto forma di vendita, tutto il resto dei suoi averi se ella avesse persistito in quella tresca e nel rifiuto di tornare al talamo coniugale, Pietrantonio, presente la madre, ebbe a rivolgersi ad Angelina Chimenti affinché avesse dato ricetto a Maria Innocenza in casa sua, dicendo di non aver paura perché, se molestata da Vincenzo, egli lo avrebbe sparato, ma Angelina Chimenti si rifiutò. Le pressioni su Maria Innocenza continuarono ed ella, finalmente, nell’ottobre 1946 tornò dal marito nella casetta coniugale, costituita da un unico vano terreno, poco lontana da quella dei genitori di lei.
Ma fu solo una riappacificazione di facciata perché, nonostante le negative di Maria Innocenza, la relazione tra i due amanti continuò furtivamente con incontri nei boschi ed in luoghi molto poco frequentati.
È facilmente intuibile che i due amanti, passati dalla libertà del loro amore di tutti i momenti ad un amore in certo modo furtivo ma perciò forse più intenso ed intollerante, dovessero avere come sullo stomaco Vincenzo.
Questa era la situazione. Ora possiamo tornare al giorno prima del delitto, quando Vincenzo e suo figlio, sin dall’imbrunire del 2 gennaio erano stati dalla sorella Maria perché invitati alla festicciola mangiatoria che suol seguire la macellazione del maiale, invito non esteso a Maria Innocenza. Vincenzo ed il figlioletto rincasano verso le 22,30 e Maria Innocenza non c’è, è dai genitori e il bambino va a chiamarla. Madre e figlio vanno a letto, mentre Vincenzo, abbastanza brillo, si stende su due sedie davanti al focolare per riscaldarsi e dormicchia. Dopo qualche ora si sveglia, si spoglia nudo e fa per andare a letto, quando sente dei rumori provenire dalla sottostante strada rotabile. Allora si affaccia alla finestra e percepisce il passare di una persona che tira un asino.
– Forse sono dei ladri che hanno preso l’asino di tuo padre – dice alla moglie, che si è svegliata.
– Vai a vedere… – gli risponde, poi si gira dall’altra parte e si riaddormenta.
Vincenzo si rimette in fretta i calzoni senza le mutande, prende da un cassone una pistola ed esce. Non passano che un paio di minuti e il silenzio della notte viene squarciato da due fucilate.
Sono da poco passate le 6,00 del tre gennaio quando i due contadini trovano il cadavere di Vincenzo Console e, prima di andare ad avvisare i Carabinieri, vanno a dare la brutta notizia a Maria Innocenza.
– Tuo marito dov’è? – le chiedono per capire se sa già qualcosa.
– È uscito…
I due uomini si guardano negli occhi e il più anziano le dice:
– Tuo marito giace cadavere qui sotto…
Maria Innocenza, agli occhi dei due uomini, non appare molto turbata dalla notizia e non mostra che qualche poco di pianto, un pianto che va e non va, intermezzato dalla semplice esclamazione:
– Focu miu chi haju patutu!
Insomma, per i due uomini si mantiene quasi indifferente e si lascia presto e molto facilmente persuadere a togliersi in detta ora il cadavere e rincasarlo. Mentre i due uomini si avviano verso il paese, avvisano anche i fratelli della vittima che accorrono sul posto, prendono il cadavere e lo riportano a casa. Poi pensano alla sciocchezza che hanno fatto, riprendono il cadavere e lo riportano sul luogo del delitto, sistemandolo, però, nella posizione esattamente opposta a quella in cui lo avevano trovato. Quando arrivano i Carabinieri ci vuole un bel da fare per cercare di ricostruire la scena del crimine, ma alla fine tutto si chiarisce e il cadavere viene rimesso nella posizione originaria, così da potere ricostruire la dinamica del delitto: Vincenzo uscì e vide sulla strada l’asino, che effettivamente era quello del suocero, e presolo per la cavezza lo rimenava alla stalla pel tratto che non supera 109 metri di lunghezza ed è percorribile in non più di un paio di minuti. Ma quando, dopo tale piccolo lasso di tempo, saliva la stradella in fortissimo pendio portante dalla rotabile alla stalla e casa dei suoceri e proprio alla piccola svolta colla quale la stradella va quasi a finire avanti la stalla, fu fatto segno a due fucilate, una delle quali lo attinse alla nuca e lo fece cadere, freddato, all’indietro e cioè colla testa in giù ed i piedi in su della stradella, dopo avere strisciato colla parte colpita sulla bestia che gli teneva dietro, sicché la bestia restò, come constatato, imbrattata alquanto di sangue alla schiena. Viene subito constatato che i colpi furono sparati da breve distanza e da un punto, latistante alla stradella, in cui lo sparatore si era messo in agguato in attesa della vittima e che aveva sparato con un fucile calibro 12. Su questo punto i Carabinieri trovano subito riscontri inoppugnabili: i pallini rinvenuti sulla scarpata a sinistra della stradella sono il punto esatto di arrivo delle due fucilate esplose dal punto individuato come quello di appostamento del sicario, calcolato tenendo presente le ferite riportate dalla vittima e la sua altezza. Tutto perfettamente combaciante.
E se le cose sono andate davvero così, è ovvio che ai Carabinieri siano sorti seri dubbi circa il movente: non il delitto di un ladro che non vuole farsi sorprendere, ma una vera e propria esecuzione. Vedremo perché, ma adesso è necessario sentire cosa ha da dire Maria Innocenza, che dopo aver raccontato del suo rientro a casa, di Vincenzo seduto accanto al fuoco, del risveglio e dei rumori sentiti dal marito, aggiunge:
– Vincenzo è uscito, io sono rimasta a letto e di lì a poco mi riaddormentai…
– E le fucilate non le avete sentite? I vicini dicono di essersi svegliati…
– Io non le ho sentite… sono rimasta immersa nel sonno fino alla mattina… no, la bambina si è svegliata, ho dovuto porgerle il seno ed intanto mi sono riaddormentata… – molto strano, come è possibile che, se dall’uscita del marito alla duplice esplosione non passarono che un paio di minuti, si sia riaddormentata immediatamente pur sapendo che il marito era andato ad affrontare dei ladri o, quantomeno, nella curiosità di sapere come fosse andata a finire la cosa? E se la bambina si dette a piangere e lei le porse il seno, questo non l’avrebbe tenuta sveglia quel poco di minuti passati fino alle detonazioni, sentite anche dalle case parecchio più lontane? I sospetti aumentano, ma gli inquirenti ragionano sulla possibilità che ad asportare l’asino dalla stalla del padre di Maria Innocenza sia stato uno o più ladri: se così fosse, egli o essi avrebbero menato la bestia per la strada provinciale verso San Donato e non sarebbe occorso loro di passare sotto la casetta di Vincenzo Console e nulla perciò sarebbe avvenuto; oppure l’avrebbero menato nella direzione opposta, verso Altomonte, passando così per sotto la casetta ed in tal caso questa essi avrebbero oltrepassato di un tratto notevole, ossia di quel tratto di strada percorribile da Console per rendersi conto del rumore del loro passaggio per confabulare colla moglie facendosi, come pare, incitare o persuadere da lei ad intervenire, per rivestirsi, rovistare e prendere l’arma ed infine per guadagnare la strada provinciale e raggiungerli. Ed allora o i ladri, vedendosi o sentendosi raggiungere, avrebbero affrettato il passo per evitare il raggiungimento, e parimenti nulla sarebbe avvenuto, oppure, non riuscendo a ciò, avrebbero, onde assicurarsi la refurtiva, commesso lì l’omicidio o quantomeno eseguito qualcosa come uno sparo per allontanare l’importuno contendente, oppure ancora avrebbero abbandonato la preda e proseguito in tutta fretta la loro via.
Agli inquirenti non resta che un quesito da risolvere: chi fu lo sparatore? Anche in questo caso bisogna usare la logica: molto attendibile è la versione che si fosse ricorso al trucco del furto dell’asino per fare uscire il povero Console dalla sua casetta nel cuore della notte onde, nel mistero di questa, ucciderlo e farlo passare per ucciso da ignoti ladri. Si vede subito come non debba essere stato parto della mente di persona granché matura. E vista l’incongruenza del racconto di Maria Innocenza, il dito accusatore viene puntato contro di lei, non molto matura di anni, traviata dalla passione pel giovincello ed il suo amante, Pietrantonio Ferraro, giovane, appunto, di soli vent’anni, poco maturo, acceso da un’avventura amorosa, forse la prima, entrambi aventi dell’avversione per il povero Console.
Interrogato, Pietrantonio si contraddice più volte quando deve rendere conto di come ha passato le ore precedenti all’omicidio di Vincenzo, poi afferma:
– All’ora che fu commesso l’omicidio dormivo…
In più molti testimoni lo inguaiano perché raccontano che, avvisato della morte violenta del suo rivale in amore, rimase impassibile ed evitò di accorrere, sia pure a curiosare, là ove giaceva il cadavere. A questa contestazione, risponde:
– Sarei voluto accorrere, ma non lo feci perché mi si sapeva amante della moglie…
Tutto sommato è una spiegazione logica, ma gli inquirenti la pensano diversamente: avrebbe potuto anche, non avendo nulla da temere, fare un ragionamento inverso e farsi vedere come ogni altro della contrada. Va bene, ma se si volesse mandare qualcuno all’ergastolo con queste accuse, i giudici si sbellicherebbero dalle risate. No, contro Pietrantonio Ferraro gli inquirenti scoprono altro di ben più grave: durante la perquisizione domiciliare, i Carabinieri sequestrano un fucile calibro 12, lo stesso calibro di quello usato per il delitto, ed alcune cartucce cariche. La perizia stabilisce che sia i pallini sequestrati in casa di Pietrantonio, sia quelli estratti dal cadavere e sia quelli estratti dalla scarpata, erano di tipo promiscuo e tutti esattamente identici tra loro. Inoltre il fucile dell’indagato ha sparato da pochissimo tempo. Non solo: i Carabinieri trovano delle orme sul terreno sovrastante al posto del delitto, presumibilmente lasciate da chi, dopo aver sparato, si allontanò dal punto di appostamento girando al largo per evitare la strada ed a tali orme corrispondono le scarpe di Pietrantonio Ferraro. Gli indizi contro di lui cominciano a sommarsi, ma il colpo di grazia potrebbe darglielo un suo parente, Antonio Spingola, che dichiara:
– Attratto dalle esplosioni mi alzai dal letto ed uscii fuori per cercare di rendermi conto di cosa stesse accadendo – da notare, annota il Pretore, che la casa del teste è ben più lontana che la casetta dell’ucciso – e indugiai sul pianerottolo superiore della scala esterna e, dopo aver dato uno sguardo al mio bestiame nella sottostante stalla, da lì potei notare l’aprirsi alquanto ed il richiudersi della porta della casa di Pietrantonio, così da avere scorto un certo fascio di luce venir fuori e quasi subito potei sentire come un alterco entro tale casa, senza peraltro percepire che delle bestemmie, nominarsi la Madonna del Pettoruto…
– Quanto tempo poteva essere passato dagli spari?
– Una quindicina di minuti…
Una quindicina di minuti, un tempo, cioè, presumibilmente sufficiente a Pietrantonio per recarsi, girando al largo, dal luogo del delitto alla propria casa, dove forse, per essere rincasato così tardi, avrebbe ricevuto dei rimproveri. La testimonianza di Spingola, ben grave, smentisce l’affermazione di Pietrantonio che ha dichiarato di stare dormendo e per gli inquirenti è attendibile ed è verificata con una perizia: è ben possibile vedere e sentire quanto Spingola ha deposto, tenuto conto della notte silenziosa in campagna e della posizione delle case, non molto distanti in linea d’aria e con un valloncello in mezzo che, anzi, fa risuonare meglio le voci.
Può bastare, secondo gli inquirenti, e l’istruttoria viene chiusa. Maria Innocenza Perrone e Pietrantonio Ferraro vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Castrovillari per rispondere di omicidio premeditato in concorso, pena prevista l’ergastolo. Ma per mandare qualcuno al fine pena mai ci vogliono prove inoppugnabili e non circostanziali, seppure gravi, come dicevamo.
Alla fine del dibattimento il Pubblico Ministero chiede che sia affermata la piena responsabilità degli imputati con la condanna all’ergastolo per entrambi. Le difese, al contrario, ne chiedono l’assoluzione per non aver commesso il fatto. Sarà una brutta gatta da pelare per i giurati.
Il 14 febbraio 1949 la Corte emette la sentenza: Assolve Ferraro Pietrantonio e Perrone Maria Innocenza dal delitto loro ascritto per insufficienza di prove e ne ordina la immediata scarcerazione, se non detenuti per altra causa.
Il Procuratore Generale della Repubblica propone appello e viene accolto. Il processo è da rifare e il 7 maggio 1955 il risultato è identico: La Corte assolve gli imputati per insufficienza di prove.
Questa volta il Procuratore Generale della Repubblica ricorre per Cassazione. Ricorrono anche gli imputati che chiedono l’assoluzione con formula piena. Il 26 febbraio 1958 la Suprema Corte rigetta il ricorso del Procuratore Generale e dichiara inammissibili quelli degli imputati.[1]
Fine.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.