TRESSETTE COL MORTO

È il 23 aprile 1932, mezzogiorno è passato da quasi un’ora. Domenico Sapia, Antonio Curia, Antonio Galluscio ed Eduardo Merincola entrano nella cantina di Serafino Curia a Longobucco e si mettono a giocare il tressette a compagni fissi (marciabatuffo). La posta in gioco è un litro di vino che dovranno pagare i perdenti, ma che sarà bevuto da tutti con le regole del gioco del tocco, da fare dopo il tressette. La coppia composta da Antonio Curia e Domenico Sapia perde la prima serie di partite e, come se non bastasse, Sapia viene lasciato all’urma nei tre giri di tocco che seguono. Ma nella quarta partita Sapia e Curia sono in vantaggio e basterà loro fare un solo punto per vincere. Sapia distribuisce le carte e poi, quando ciascuno dei giocatori ha ancora in mano quattro o cinque carte, mostra a tutti le proprie e dice:

– Le vedete? Con queste carte un punto mi sarà facile farlo! – come un lampo mischia le sue carte con quelle già giocate e continua – abbiamo vinto, porta un altro litro!

Galluscio, però, che aveva accusato un buon gioco e i suoi punti sono aumentati avvicinando gli avversari con possibilità di vincere la partita, non ci sta e ribatte:

Io non pago! La partita non è ancora finita e potrei vincerla!

Questa risposta non piace a Sapia che, imperterrito, si fa portare un bicchiere di vino, lo beve ed esclama:

Se non lo paga Galluscio io lo sparo!

Galluscio sa che Domenico Sapia è un tipo suscettibile e facilmente irascibile e così, per evitare che la cosa abbia un seguito, esce dalla cantina senza rispondere, subito seguito da tutti gli altri giocatori. Dopo qualche minuto Antonio Curia incontra per strada Sapia e lo rimprovera per il contegno poco prima tenuto, ma in risposta ottiene la conferma della terribile minaccia fatta poco prima:

Se Galluscio entro stasera non paga in mia presenza il vino, lo ammazzo!

Lo ha già pagato, finiscila! – gli risponde, forse per cercare di calmarlo e si allontana.

Più o meno la stessa scena si ripete un quarto d’ora dopo. Curia ribadisce che il vino è stato pagato e Sapia risponde:

Non passa questa sera che io prima uccido Galluscio e poi te! Infame! – termina, sputando in faccia Curia, che prudentemente torna nella sua cantina.

Sapia invece continua a passeggiare per le vie del paese e poco dopo incontra Luigi Nigro. Lo ferma e gli dice:

Quando hai una parola con qualcuno, tira subito la rivoltella e ammazzalo!

Il caso, la sfortuna, il destino, chiamatelo come volete, ma proprio negli istanti in cui Sapia pronuncia queste parole, da un vicolo spunta Galluscio. Sapia lo vede e gli dice:

Mi devi pagare il bicchiere di vino!

Tu l’hai bevuto e chi l’ha pagato, l’ha pagato! – gli risponde, cercando di proseguire per la sua strada, ma Sapia lo afferra per un braccio e, sempre più accendendosi, comincia ad offenderlo:

Mascalzone! Cornuto! Infame!

– Siatemi testimoni che vado a denunziarlo! Esclama Galluscio rivolgendosi alle persone presenti e comincia ad avviarsi verso la caserma dei Carabinieri. Sapia, dopo qualche istante di esitazione, si toglie la coppola, se la mette sotto l’ascella sinistra, lo rincorre e quando è a cinque o sei metri dall’avversario che gli offre le spalle, tira fuori la rivoltella e gli spara un colpo. Galluscio stramazza a terra senza un lamento, praticamente già morto perché la pallottola gli ha perforato l’aorta e il polmone sinistro. Accorre gente. Il commerciante Francesco Sapia e la guardia giurata Antonio Forciniti sono i primi a lanciarsi contro Domenico Sapia per fermarlo ed assicurarlo alla giustizia, ma l’assassino punta l’arma e fa fuoco contro di loro.

Clic. La rivoltella fa cilecca. I due, che già stavano raccomandando l’anima a Dio, riprendono coraggio e gli si lanciano addosso proprio mentre l’assassino sta sfoderando un coltello, ma è tardi e viene bloccato. Adesso la gente sul posto è tanta; Francesco Sapia e Antonio Forciniti devono sudare sette camicie per sottrarre l’assassino all’ira popolare ed evitare che si faccia giustizia sommaria. Resistendo a calci, pugni, sputi e qualche bastonata riescono ad arrivare alla caserma dei Carabinieri e consegnare il prigioniero:

L’ho sparato perché mi sono sentito sfottuto per tutta la giornata, ma volevo soltanto ferirlo

C’è una vittima, un reo confesso e molti testimoni oculari, le indagini non richiedono molto tempo per essere portate a termine e, nonostante la difesa chieda inutilmente di sottoporre Sapia a perizia psichiatrica per accertare il suo stato mentale nel momento in cui commise il fatto, il 26 settembre 1932 il Giudice Istruttore ne dispone il rinvio a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Rossano.

Nonostante la difesa, esibendo vari certificati medici attestanti epilessia, continui a chiedere di sottoporre Sapia a perizia psichiatrica, il 18 marzo 1933, la Corte rigetta l’istanza ritenendo che il prevenuto agì con piena capacità d’intendere e volere, giudizio che rileva dall’interrogatorio reso con lusso di particolari, da denotare non comune intelligenza e percezione critica dei fatti. In più ritiene compiacenti, se non addirittura falsi, i testimoni che riferiscono di avere assistito a crisi epilettiche di Sapia, perché di tali pretesi eccessi non se ne è verificato alcuno durante un anno di degenza nel carcere. La conseguenza è che, considerando che l’idoneità dell’arma, la regione colpita e la brevissima distanza dal bersaglio dimostrano a sufficienza la volontà omicida, la Corte condanna Domenico Sapia a 25 anni e 6 mesi di reclusione, oltre alle pene accessorie, spese e danni. Inoltre lo dichiara delinquente per tendenza e ordina che venga assegnato ad una colonia agricola per anni 4.

La difesa non ci sta e ricorre per Cassazione e la Suprema Corte, il 20 ottobre 1933, annulla la sentenza e rinvia il giudizio davanti alla Corte d’Assise di Cosenza per non avere, la Corte di Rossano, disposto la chiesta perizia, motivando che rivelavasi opportuna, tenuto conto che il giudicabile era stato riscontrato affetto da sifilide costituzionale con consecutiva ipereccitabilità nervosa, nonché da uretro proptatile gonococcica, le quali infezioni avevano prodotto in lui una grave nevrastenia e disturbi psichici non indifferenti, come dal certificato del dottor Caputo, che la Corte aveva avuto presente. Poi il Supremo Collegio aggiunge: è fallace escludere la sussistenza di un qualsiasi grado di infermità mentale dal contegno dell’imputato nel dibattimento o dalle modalità dell’interrogatorio da lui reso. La sentenza impugnata manca di motivazione per non avere impiegato una sola parola in ordine alle conseguenze, sulla coscienza di Sapia, della sifilide e della uretrite blenorragica, motivazione che sarebbe stata tanto più necessaria in quanto trattavasi di un grave delitto commesso, secondo la Corte stessa, senza una qualsiasi causale. A giustificare la decisione della Corte di Cassazione c’è la relazione del medico del carcere di Locri, dove nel frattempo Sapia è stato trasferito, che attesta come appena entrato in quel carcere, il detenuto si mostrò triste, accusò dei gravi dolori, divenne antipatico e pericoloso al segno che alle idee melanconiche ed alla ipocondria ci si sono aggiunte allucinazioni sensoriali, visive ed uditive. Non ha più pace né sonno, grida e si dibatte. Con tali psicosi egli è molto pericoloso; esso può nel modo più strano suicidarsi o strozzare chi capita nella sua cella.

A questo punto, in attesa di fissare la data del dibattimento a Cosenza, la Corte d’Assise di Rossano dispone, a titolo precauzionale, il ricovero di Sapia in un manicomio criminale.

Il 22 gennaio 1935 si tiene la causa a Cosenza e la Corte dispone subito di effettuare la perizia psichiatrica in modo da stabilire, oltre ad accertare lo stato mentale dell’imputato al momento in cui commise l’omicidio, anche il suo stato precedente ed attuale, nonché il grado di pericolosità sociale, sempre che Sapia non stia simulando.

Il 6 marzo 1935 Domenico Sapia entra nel manicomio giudiziario di Aversa e di lui si prenderà cura il professor Ettore Mariotti il quale, il 19 agosto successivo presenta i risultati della perizia: premesso che il Sapia, quando commise il delitto, reagì in modo eccessivo per la sua natura di criminale e per l’azione dell’intossicazione cronica da alcool, tuttavia nel momento del fatto aveva piena capacità di intendere e volere. Al momento del fatto il periziando si trovava in condizione di ubriachezza abituale e perciò in condizioni di non poter usufruire di una attenuante per questo suo stato. Egli è affetto da sindrome ipocondriaca su fondo luetico, sopravvenuta dopo il delitto in conseguenza dell’ambiente carcerario, per la natura stessa del soggetto e per il preesistente fattore luetico.

Beh, sembra proprio che la Corte di Rossano avesse avuto ragione, ma la difesa non può accettare passivamente una simile, contraddittoria perizia e ne presenta una di parte, nella quale si sostiene l’esatto contrario: al momento del fatto Sapia non aveva capacità di intendere e di volere per preesistente infermità mentale cagionata da cronico alcoolismo e da infezione luetica.

Una brutta gatta da pelare per la Corte cosentina. Come ne uscirà?

Il dibattimento riprende il 5 marzo 1936 con l’interrogatorio di Sapia, invitato ad esporre come si svolsero i fatti. Sfogando in lacrime, si limita a dichiarare:

Cosa debbo raccontare se sto morendo? Condannatemi se volete, voi lo sapete quello che ho detto e non dico altro!

Letti gli atti ed ascoltati i testimoni, per la Corte è il momento di decidere: non avendo elementi per smentire il perito fiscale, il quale ha affermato che il prevenuto quando commise il delitto si trovava sotto l’azione di cronica intossicazione, la Corte non può accettarne le aberranti conclusioni, quali quelle di dichiarare Domenico Sapia pienamente imputabile. Evidentemente il perito non tenne presente la disposizione di legge in base alla quale, pei fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool, come lo stesso perito sostiene, si applicano le disposizioni della non imputabilità, a seconda che il grado di infermità mentale, conseguenza fatale della intossicazione, sia totale o parziale. Nel caso in esame si hanno elementi sicuri per poter giudicare che l’infermità non fosse totale, come si rileva dal fatto stesso che il prevenuto poté, prima di commettere il fatto, giocare con sufficiente riflessione ben quattro partite a marciabatuffo; né, prima ancora di quel giorno fatale, avea mai seriamente fatto temere della sua compagnia benché fosse suscettibilissimo, irascibile ed a volte aggressivo; non aveva avuto bisogno, fino allora, di curatela o di custodia pel disimpegno delle sue quotidiane fatiche d’industrioso con le quali si guadagnava il pane, salvo ogni sera disperdere in libazioni i frutti del suo guadagno, onde costantemente si ubriacava fino a contrarre l’ubriachezza abituale. Per queste ragioni, e non per comodo eclettismo, la Corte deve tenersi parimenti lontana dalle conclusioni del consulente della difesa, che ha affermato la piena irresponsabilità, trascurando di dare giusta ragione alla vita anteatta del prevenuto e da quelle del perito, affermanti la completa responsabilità, per non avere tratto le logiche conseguenze giuridiche dell’asserto stato di intossicazione cronica e per non aver dato sufficiente peso ai processi luetici e blenorragici che, in concorso con l’alcoolismo e con la congenita epilessia, dovevano apportare, come apportarono, una sensibile alterazione involutiva nella psiche di Sapia. Presa questa posizione, alla Corte non resta che affermare che ci sono tutti gli elementi per dichiarare che Sapia sparò per uccidere, non solo per l’arma, la distanza ed il bersaglio preso di mira, ma anche perché per ben tre volte, prima di sparare, aveva minacciato di morte Galluscio.

In considerazione del riconoscimento del vizio parziale di mente, la pena che la Corte commina a Domenico Sapia è di anni 14 di reclusione. Poi bisogna applicare i R.D. di amnistia e indulto del 5 novembre 1932 e del 25 settembre 1934 e la pena scende di altri 7 anni, restando fissata ad anni 7 di reclusione, più pene accessorie, spese e danni.

Ma la diminuzione di pena, concessa a causa di intossicazione da alcool a chi abbia commesso un delitto punibile nel minimo con pena superiore a dieci anni, non è un premio e ha come conseguenza  il ricovero in una casa di cura per un tempo non inferiore a tre anni, da aver luogo dopo espiata la pena principale.

È il 6 marzo 1936.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.