Siamo nei primi giorni di maggio del 1951. Siamo nelle baracche di Via Panebianco a Cosenza, dove da anni è ghettizzata la comunità Rom cittadina e dove dal 1943 sono ancora ghettizzate anche una quindicina di famiglie di sfollati a causa dei bombardamenti di quell’anno.
Tuttavia, contrariamente ai facili luoghi comuni, le due comunità di disperati convivono tutto sommato tranquillamente, se si considera l’alto numero di persone costrette a dividere uno spazio abbastanza limitato e, d’altra parte, se gli zingari, che si sono stabiliti in città da secoli, vivono ben integrati nella città, nello stesso tempo ne vivono divisi per il loro continuo andare e tornare, sparire e riapparire. Ciò che è certo è che vivacchiano facendo piccoli affari in città. Reati? Certamente, ma poca roba, qualche furtarello e qualche truffarella qua e là, niente di paragonabile ai reati della malavita cittadina con la quale, questo si, ancora non si sono integrati se non sporadicamente.
Siamo nei primi giorni di maggio del 1951 e nelle baracche di via Panebianco arriva, e si ferma per qualche giorno, Francesco Bevilacqua di Antonio, 23 anni, nato a Scilla, meglio conosciuto come Ciccu.
Arriva e si ferma per un motivo ben preciso: gli hanno detto che Antonio Berlingieri, meglio conosciuto come Bevacqua, 31 anni da Sersale (CZ), con il quale ha un conto in sospeso per il residuo di 500 Lire relativo alla vendita di un asino, è a Cosenza. Ciccu lo va a cercare e gli chiede conto della somma, ma pare che Bevacqua da questo orecchio non ci senta. Da una parola all’altra, i due sono sul punto di azzuffarsi, ma amici comuni, oltre che parenti vicini e lontani, si mettono in mezzo e li convincono a fare pace. Così, per sancire l’accordo raggiunto, vanno tutti a bere nella cantina di Domenico Palermo, che è di fronte alle baracche.
Ma il vino, si sa, è traditore e tra un brindisi e l’altro i fumi dell’alcol cominciano ad annebbiare la ragione. La annebbiano soprattutto a Bevacqua, al quale viene l’infelice idea di ordinare a Ciccu di baciargli la mano in segno di sottomissione.
Apriti cielo! Si scatena il finimondo e gli ottavini cominciano a volare da un lato all’altro della cantina. Domenico Palermo e suo figlio, il ventenne Gigginu ’U Zorru, temendo di vedere distrutto il locale, prima con parole concilianti e dopo con qualche energico spintone, a stento riescono a buttare fuori dal locale quella massa informe di braccia e gambe che, mulinando, tirano pugni e calci alla cieca e la zuffa continua in mezzo alla strada.
Richiamati dalle grida e dalle bestemmie, accorrono sul posto decine di zingari che, divisi in due fazioni, cominciano anche loro a darsele di santa ragione. Ma a partecipare alla rissa non sono solo gli zingari. Per esempio Cosimo Carrieri, conosciuto come Giorgiu ‘u napulitanu, mena le mani per aiutare Antonio Berlingieri alias Bevacqua, con il quale è socio in affari, di malavita in questo caso.
Fino a che si tratta di menare le mani non c’è da preoccuparsi, è molto frequente dappertutto. Qualche occhio nero, qualche testa spaccata, un po’ di sangue, magari un braccio rotto, ma poi tutto finisce. Questa volta no, perché ad un certo punto della rissa qualcuno fa spuntare dei coltelli e adesso si che potrebbe scapparci un brutto guaio, anche, e soprattutto, perché Giovanni Bevacqua, cugino di Ciccu, alla vista delle lame tira fuori un revolver e spara un paio di colpi, ferendo Giorgiu ‘u napulitanu e Antonio Berlingieri alias Bevacqua ad una mano.
Tra grida, fuggi fuggi e qualcuno che ancora continua a picchiarsi, si fa avanti Gigginu ‘U Zorru il quale, nonostante la sua giovane età, è rispettato da molti zingari, con alcuni dei quali fa buoni affari, di malavita s’intende.
– Che vuoi fare? Si ciùatu? Dunami ‘sa tufa prima ca vena ‘a giusta! – gli dice strattonandolo.
Giovanni sbuffa un po’, si calma e porge l’arma a Gigginu ma, quando questi sta per allontanarsi e andare a nascondere ‘u rivorbaru, una zingara gli si para davanti minacciosa, lo afferra per un braccio, lo guarda dritto negli occhi con occhi di fuoco e, strappandogli l’arma dalle mani, lo gela urlandogli sul muso queste parole:
– Tu che cosa ne vuoi fare di quello che succede tra di noi? Zorru, fatt’i cazzi tua! – La rissa si interrompe come d’incanto e cala il silenzio. Tutti si girano a guardare e Gigginu, sapendo che se gli venisse in mente di reagire sarebbero guai grossi, abbassa la testa e si ritira in buon ordine.
Beh, al di là della figuraccia, se non altro l’intervento di Gigginu ‘u Zorru è servito a far terminare la rissa senza altre e più gravi conseguenze, ma quello che gli ha urlato la donna diventa una specie di parola d’ordine per i più violenti, che cominciano a girare casa per casa ammonendo i gaggi a farsi i cazzi loro.
Giovanni Bevacqua, il cugino di Ciccu, per esempio, accortosi che Raffaella Benincasa da dietro una finestra ha assistito a tutte le fasi della rissa e lo ha visto con la rivoltella in mano, la va a trovare e, puntandole contro l’indice minaccioso, le dice:
– Se qualcuno fa il mio nome alla Questura, quando esco dal carcere lo ammazzo!
E nessuno parla, come nessuno parlerebbe se a intimare il silenzio fosse stata la malavita cittadina. E figuriamoci se parla Gigginu ‘u Zorru quando viene interrogato come testimone! In questo stato di cose, la Questura brancola nel buio ed è costretta ad ammettere la propria impotenza. Così riferisce Giuseppe Ciancio, Vicebrigadiere di P.S., al Giudice Istruttore Mario Calfa:
(…) Fra gli zingari risulta difficoltoso giungere alla identificazione delle persone e alla scoperta di qualche reato che avvenga, per la omertà che regna sovrana fra di essi e perché le pochissime famiglie non di zingari che vivono vicino ad essi hanno un terrore di essi perché ritenuti capaci di qualsiasi azione criminosa. Tutti, pur sapendo tanto, non vogliono parlare perché sotto l’incubo della paura.
Ciancio ha ragione da un lato e torto dall’altro. Ha ragione per quanto riguarda la paura che i cittadini comuni hanno, ma ha torto perché la paura è da riferirsi a quella piccola, violenta parte della comunità Rom e non alla comunità nel suo complesso. La stessa paura che il cittadino comune ha per la malavita nostrana.
Poi, però, la Questura scopre di avere un asso nella manica: una gola profonda sussurra le informazioni giuste e si riesce ad individuare con certezza cinque dei partecipanti alla rissa. Se non altro, il fatto non resterà completamente impunito.
Così, oltre a Ciccu, Antonio Berlingieri alias Bevacqua, Giorgiu ‘u napulitanu e Giovanni Bevacqua di Rocco, 23 anni di Roggiano Gravina, viene identificato anche Antonio Bevilacqua di padre ignoto, 19 anni di San Marco Argentano, conosciuto come “il genero dell’ombrellaio reggitano”.
I cinque saranno condannati a sei mesi di reclusione ciascuno per la rissa e Giovanni Bevacqua prenderà altri sei mesi per gli spari. [1]
Non ci saranno vendette. Le cose, per il bene di tutti, devono aggiustarsi. Il bene di tutti è anche il bene di Gigginu ‘U Zorru che può continuare a fare affari stringendo sempre di più i suoi rapporti con la parte peggiore degli zingari, oltre che con la parte peggiore dei gaggi, perché quella che sembrava essere stata una figuraccia ha invece dimostrato alla malavita la sua affidabilità.
[1] ASCS, Processi Penali.