È il pomeriggio del 2 maggio 1930, alcuni uomini passano il tempo giocando a bocce davanti alla cantina di Michele Scarfone a Ortì Superiore, borgo sito sulle colline alle spalle di Reggio Calabria. Un po’ discosti ci sono quattro uomini che parlottano tra loro, poi uno di questi si distacca dal gruppo e si avvicina ad uno dei giocatori:
– Roccuzzu, vedete che vi vuole Giuseppe Pecora per parlarvi.
– Dite a Pecora che sto giuocando e finito il giuoco andrò a trovarlo – gli risponde Roccuzzu, Rocco Spanò, senza badargli troppo. L’ambasciatore va a riferire la risposta e, visto che la partita non accenna a finire, dopo qualche minuto l’uomo torna alla carica.
– Peppino Pecora vi aspetta – questa volta il tono non è più quello di un invito, ma suona come una imposizione. Roccuzzu lo guarda con irritazione, ma sa che è meglio andare a sentire ciò che Pecora ha da dirgli, così lascia il suo posto, paga i settantacinque centesimi della sua quota e si avvia verso il punto in cui è atteso, ma non prima di passare da casa e munirsi del suo bastone.
Peppino Pecora, che è fermo vicino alla farmacia del paese in compagnia di Domenico Ieracitano, Paolo Callea e Francesco Spanò, l’ambasciatore, lascia i suoi compagni e invita Roccuzzu a seguirlo in un vicolo vicino. Poi si ferma, si gira e, tenendo la mano destra nella tasca esterna della giacca, gli dice:
– Voi siete un miserabile! Se eravate uomo d’onore e rispettavate noi, non dovevate andare a giocare nell’osteria di Scarfone!
– Miserabile sei tu! Scarfone è mio suocero e nella sua cantina ci sono andato, ci vado e ci andrò e nessuno me lo potrà impedire! – gli risponde fieramente, proprio mentre nel vicolo entra Domenico Ieracitano, che si ferma a pochi passi da lui e lo guarda in modo spavaldo. Roccuzzu lo guarda e gli chiede – che cosa vuoi tu da me? – Ieracitano non risponde, limitandosi a guardarlo e a sorridere ironicamente, dimenando la persona. Siccome la situazione comincia a diventare critica, temendo che possa avvenire qualche guaio, Roccuzzo adesso si rivolge a Pecora e, mentre si avvia verso la strada principale, gli dice – della cosa ne parliamo domani.
– Andate e ricordatevi che me la pagherete!
Senza che sia accaduto niente di male, Roccuzzu arriva davanti a casa sua, si siede su una catasta di legna e osserva Pecora che sussurra qualcosa a Francesco Spanò, il quale va di nuovo verso il gruppo di giocatori di bocce, si ferma accanto a Micu Spanò, gli dice qualcosa e insieme vanno in un vicolo vicino, verso cui sta andando anche Pecora.
Sostanzialmente nel vicolo si ripete la stessa scena appena avvenuta con Roccuzzu, solo che Micu Spanò si accorge che Pecora, nella mano accostata alla saccoccia della giacca, tiene un coltello. Capisce che è male intenzionato verso di lui e cerca di stargli il più lontano possibile, ma l’altro, senza preamboli, bruscamente gli dice:
– Tutti quelli che vanno nella cantina di Michele Scarfone sono disonesti, miserabili e pezzi di merda compreso voi!
Micu Scarfò, per evitare di dare un qualsiasi pretesto a Pecora che gli consenta di aggredirlo, non risponde alla provocazione e, invece, gli dice:
– Peppino, permettete che io vada a pisciare?
– Ti aspetto qui, disonesto! – gli sibila tra i denti.
– Un attimo e torno… – ma invece di andare a pisciare, Micu corre a casa e si arma di un robusto bastone, poi torna da Pecora per domandare conto della grave offesa fattagli, ma questi gli sta già andando incontro. A metà strada tra i due c’è Roccuzzu che ha capito ciò che sta per accadere e si mette tra i due cercando di allontanarli. In questo tira e molla, Domenico Ieracitano afferra Micu Spanò alle spalle e lo blocca, cercando di spingerlo verso Pecora, sempre trattenuto da Roccuzzu, che brandisce il coltello. Ma il caso vuole che Roccuzzu, nel tentativo di disarmare Pecora, resti ferito ad una mano e sia costretto a mollare la presa. Intanto si è fatto un capannello di gente e si alzano le grida.
E le grida di questi attimi che sembrano eterni attirano l’attenzione di Concetta Romeo, la moglie di Micu, e di sua madre Maria Spanò, impegnate a servire alcuni clienti nel Tabacchino che gestiscono. Le due donne escono sulla strada e vedono il congiunto trattenuto per le braccia da Ieracitano, mentre Pecora gli sta davanti col coltello in mano, seppure ancora trattenuto da Roccuzzu. Intuendo che qualcosa di grave sta per accadere, le due donne corrono sul posto e arrivano proprio quando Pecora è riuscito a liberarsi e sta per colpire Micu, ma per fortuna uno dei presenti, Eugenio Postorino, riesce ancora una volta a bloccarlo, seppure per pochi secondi e sembra proprio non esserci più scampo per Micu, sempre bloccato da Ieracitano.
Concetta e Maria non perdono tempo, raccolgono dei sassi da terra e li scagliano contro Pecora il quale, per non essere colpito, indietreggia di alcuni passi e guarda le due donne con gli occhi iniettati di sangue. Adesso il suo obiettivo non è più Micu ma Concetta e le si lancia addosso, l’afferra per la testa, le strappa il fazzoletto che la copre e le vibra una tremenda coltellata. Ma Concetta è più veloce della luce e riesce ad evitare il fendente. Pecora alza di nuovo il braccio armato, ma proprio in questo momento Maria si mette in mezzo con le braccia alzate, urlando:
– State fermi! Finitela! – Pecora la guarda con un ghigno stampato sulle labbra serrate, poi la colpisce in pieno petto. Maria urla, si guarda la camicetta sulla quale la macchia rossa si allarga istantaneamente, poi si avvia barcollando verso casa, mentre sulla strada cala il silenzio per qualche istante, poi è il fuggifuggi generale.
Concetta guarda suo marito, poi si gira e corre verso casa. Sua madre è seduta sullo scalino della porta e quando la vede, le dice:
– Figlia, Pecora mi ha ammazzato, chiama tuo padre… – poi si accascia, praticamente già morta per la coltellata che le ha trapassato il cuore.
Proprio in questi istanti arriva sul posto la Guardia Municipale Domenico Polimeni il quale, avvisato dell’accaduto, con la pistola in pugno si mette all’inseguimento di Pecora, senza però riuscire a raggiungerlo, anche per il sopraggiungere della sera, per cui decide di andare ad avvisare i Carabinieri, che iniziano le indagini e riescono subito a fermare Paolo Callea, mentre Domenico Ieracitano e Francesco Spanò si costituiscono il giorno dopo.
È evidente che l’antefatto dell’omicidio presenti tutte le caratteristiche di un fatto di ndrangheta e le indagini mirano ad accertare il movente che ha generato le minacce a Roccuzzu Spanò e al suo omonimo Micu. In quest’ottica, il giorno dopo, i militari mettono in stato di fermo per motivi di ordine pubblico proprio Roccuzzu e quando lo interrogano, dopo aver ricostruito le fasi della tentata aggressione ai suoi danni, se ne capisce bene il perché:
– Pecora, aiutato da Ieracitano, Francesco Spanò e Callea, intendeva punire Micu Spanò per avere infranto un ordine che la mala vita locale aveva dato e cioè quello di tener lontano dalla cantina di mio suocero gli avventori e fu per una fatalità che egli, intendendo colpire Micu Spanò, colpì invece la suocera di lui. Sta nei fatti che un anno fa, in occasione di una luminaria per la festa del paese, a tarda sera Stefano Scarfone, che era il fornitore delle lampade per l’illuminazione straordinaria, prestò a suo fratello Michele, mio suocero, una di dette lampade che fu appesa al soffitto della sua cantina, che così fu bene illuminata, richiamando molti avventori. Di ciò venne a conoscenza Antonino Moscato, che faceva parte del comitato della festa, e nel pagare il fornitore delle lampade trattenne venticinque lire per la lampada prestata a mio suocero. Questi ne fu informato e quando Antonino Moscato si presentò a lui per chiedergli la sua contribuzione per le spese della festa, mio suocero, alludendo al sopruso da lui fatto col trattenersi le venticinque lire per la lampada appesa nella cantina, si rifiutò di dare il proprio contributo…
– E per questo hanno fatto l’imponimento? – lo interrompe il Brigadiere Vincenzo Crea.
– Non solo, ci stavo arrivando – continua Roccuzzu – nello stesso periodo o poco prima, avvenne che Rosaria Polimeni, che era stata chiesta in sposa da Antonio Moscato, il figlio di Antonino, prese la fuga con Francesco Scarfone, il figlio di Michele e quindi mio cognato, e così sia l’uno che l’altro fatto irritò la mala vita locale, a cui notoriamente appartiene Antonino Moscato e forse anche suo figlio Antonio, e la conseguenza fu che si diede ordine che nessuno dovesse più frequentare l’osteria di mio suocero.
– E voi come sapete queste cose?
– Ne venni a conoscenza perché diverse persone, tra le quali Peppino Pecora, mi comunicarono la notizia e, pur non dicendomi espressamente che io non dovevo frequentare la cantina di mio suocero perché sapevano che in quel periodo avevo avuto delle parole con mio suocero e perciò non vi era bisogno di una imposizione esplicita. Ritengo, però, che la notizia mi fu riferita perché i miei informatori ritenevano che io fossi nemico di mio suocero. Così si spiega perché Pecora mi abbia chiamato e mi abbia trattato in quel modo per aver frequentato la cantina e così si spiega il suo atteggiamento anche verso Micu Spanò.
– Pare che sapete molte cose della mala vita… – ed è da questo momento che il racconto di Roccuzzu diventa veramente interessante e chiarificatore.
– Ad Ortì esistette, come esiste tuttavia, la mala vita organizzata. Posso con sicurezza fare questa affermazione perché appartenni anche io fino a quattro anni fa col grado di picciotto e ne fui espulso perché dichiarato infame in quanto fui testimone a carico dell’affiliato Angelo Iatì.
– Come?
– Spiego meglio. Chiamato dal Maresciallo di Calanna, dichiarai le circostanze a carico di Angelo Iatì ed essendone egli venuto a conoscenza, dal carcere ne informò la mala vita locale, che perciò mi espulse…
– La mala vita, troppo generico e troppo comodo, Spanò. Ci vogliono nomi e cognomi! – Roccuzzu ci pensa su un attimo e poi rivela tutto l’organigramma della ndrina di Ortì.
– Ai miei tempi il capo era, e lo è tuttavia, Sebastiano D’Agostino. Sono camorristi Santo D’Agostino, Giuseppe Bova, Pasquale Spanò, Antonino Moscato, Filippo Furfari, Giuseppe Pecora, Domenico Spanò, Vincenzo D’Agostino, Sebastiano D’Agostino, Biagio Spanò, Giuseppe Ieracitano, Antonino Scarfone ed altri che in questo momento non ricordo. Sono picciotti Domenico Ieracitano, Francesco Spanò, Paolo Callea, Francesco Moscato, Antonio Romeo, Antonino Ieracitano, Sebastiano D’Agostino, Vincenzo Malara, Citrone Giuseppe e suo nipote Giuseppe, che fu con lui imputato di omicidio, Giuseppe Spanò e Moscato Luigi, capo. Di solito le riunioni indette dal capo si tenevano in campagna a Montechiarello, a Sant’Andrea ed in un’altra località. Soltanto in via eccezionale si tenevano in paese. Ricordo una riunione di picciotti in casa di Francesco Spanò. I camorristi ed i picciotti tenevano riunioni separate. La tassa d’ingresso variava secondo la determinazione del capo ed andava da un minimo di lire cinquanta ad un massimo di lire cento. Io rimasi nella mala vita di Ortì soltanto un paio di anni e nelle riunioni a cui io presi parte ricordo che soltanto una volta fu deliberato un furto ai danni di certa Picozza e fu commesso da Domenico Ieracitano, Francesco Spanò ed un altro affiliato che è morto. Ricordo che in mia assenza fu deliberato uno sfregio in persona di Domenico Cartella di Laganadi, sfregio eseguito da Domenico Malara, che è morto, e Giuseppe Spanò.
– Chi ti fece entrare?
– Prima di venire a Ortì risiedevo nei pressi del ponte di Calanna, in contrada Battendieri, e colà fui fatto entrare nella mala vita con nomina di picciotto da Angelo Iatì, ma siccome dopo poco tempo partii per soldato, mi distaccai da quell’organizzazione criminosa ed ultimato il servizio militare rimasi assente. Senonché dopo tre anni sposai in questo paese e per consiglio degli affiliati di qui mi chiamai il posto, ma dopo due mesi fui espulso.
Firmato il verbale, il Giudice Istruttore Giovanni Viola, lo trasmette in Procura per la parte riguardante l’associazione per delinquere e le indagini sull’omicidio di Maria Spanò continuano per accertare se veramente, e come, il delitto sia maturato all’interno dell’organizzazione criminale. Così, il Brigadiere Vincenzo Crea accerta che il 2 maggio 1930 Peppino Pecora, avente le mansioni di camorrista di giornata, Domenico Ieracitano, Francesco Spanò e Paolo Callea, aventi tutti e tre mansioni di picciotti di giornata, avevano il compito, in esecuzione della decisione presa nella riunione dei camorristi, di costringere Rocco Spanò e Domenico Spanò a non frequentare più la cantina di Michele Scarfone. Pecora, vista la resistenza prima di Roccuzzu, che probabilmente temeva, e poi di Micu, decise di dare una severa lezione a quest’ultimo, fatto che portò alla uccisione della povera Maria Spanò. Ma il Brigadiere Crea scopre che la decisione di far boicottare la cantina di Scarfone fu un ripiego perché la proposta originaria era di sfregiare Rosaria Polimeni e Francesco Scarfone, scappati per sposarsi e per evitare eventuali, spiacevoli conseguenze per il rifiuto opposto da Rosaria alle nozze proposte dallo ndranghetista Antonio Moscato tramite Sebastiano D’Agostino, zio della ragazza e affiliato alla ndrangheta. La fujitina suonò offesa tanto a Moscato che a D’Agostino ed a tutti gli affiliati alla mala vita. Quindi, riunitisi, ottimarono prima di sfregiare la ragazza e Scarfone, poi, scartata questa idea perché nessuno volle incaricarsi di metterla in atto, stabilirono di comune accordo di boicottare l’osteria di Michele Scarfone, padre di Francesco, giurando a vita che nessuno, né essi e né i famigliari, dovrebbero per nessun motivo frequentare detto locale e servirsene di generi alimentari.
Interrogati, Ieracitano, Spanò e Callea ovviamente si dichiarano innocenti perché si trovarono presenti all’omicidio per puro caso e, altrettanto ovviamente, non sanno e non hanno mai saputo niente di società di mala vita. E intanto continuano le ricerche per assicurare alla giustizia l’omicida Peppino Pecora.
È l’8 maggio, sei giorni dopo il fatto di sangue. Un uomo bussa alla porta della caserma dei Carabinieri di Ortì, è Peppino Pecora che si costituisce e viene interrogato:
– Verso l’imbrunire del 2 maggio mi trovavo nella cantina di Sebastiano Pecora con Francesco Spanò ed ebbi l’idea di domandare spiegazione a Domenico Spanò come gli risultava che mio padre era una spia dei Carabinieri. Mandai perciò Francesco Spanò per invitarlo a parlare con me. Uscito per incontrarmi, costui nel vedermi mi disse: “Permetti che vada un momento a casa”. Ritornò armato di bastone che cominciò a roteare contro di me. Io non ricordo quello che successe. Se dicono che abbia ucciso, può essere vero, io non ricordo nulla perché ero ubriaco per il vino che avevo bevuto…
– Bene. Ieracitano e Callea erano con te?
– In cantina no, vennero nel mentre si svolgeva la rissa…
– Il coltello dove lo hai messo?
– Io non asportavo pugnale o altra arma. Se adoperai un’arma vuol dire che qualcheduno me l’ha fornita nel momento della rissa.
– Siccome pare che qualche cosa la ricordi e qualche cosa no, quanto vino avevi bevuto?
– Mi pare tre o quattro litri…
– Perché hai intimato ai due Spanò di non frequentare la cantina di Michele Scarfone?
– Non sussiste che io abbia proibito a qualcuno di frequentare quella cantina.
– Ci risulta che sei affiliato alla mala vita e che sei uno dei capi.
– Nego di essere un associato a delinquere e tanto meno di essere il capo.
Peccato per lui che tutti i testimoni interrogati neghino di averlo visto ubriaco e molti confermino di sapere che è uno ndranghetista, così la Procura chiede e, il 17 novembre 1930, ottiene il rinvio a giudizio di tutti e quattro gli imputati per rispondere dei reati loro ascritti e cioè: Peppino Pecora di omicidio volontario in danno di Maria Spanò, tentato omicidio in danno di Domenico Spanò, violenza privata in danno di Rocco Spanò e porto abusivo di arma da punta e taglio; gli altri tre per correità in tentato omicidio e violenza privata.
Il 13 maggio 1931 la Corte d’Assise di Reggio Calabria, escludendo il reato di tentato omicidio in danno di Domenico Spanò, ritiene tutti gli imputati responsabili dei reati loro ascritti e condanna:
Giuseppe Pecora ad anni 17, mesi 6 e giorni 20 di reclusione, più pene accessorie, spese e danni;
Domenico Ieracitano ad anni 1, mesi 1 e giorni 12 di reclusione, più pene accessorie, spese e danni;
Francesco Spanò e Paolo Callea ad anni 1 e giorni 15 di reclusione, più pene accessorie, spese e danni.[1]
Non risultano ricorsi in Appello e per Cassazione.
[1] ASRC, Corte d’Assise di Reggio Calabria.