Nel primo pomeriggio del 6 giugno 1894, tre uomini si presentano alla caserma dei Carabinieri di Rende e chiedono di parlare col comandante, il Brigadiere Gisberto Panza. Per tutti parla il più anziano dei tre, Gaspare Camele:
– Sulla mulattiera in contrada Scudo abbiamo trovato il maestro elementare Salvatore De Luca steso a terra colle spalle in su… è morto ma non sappiamo se gli sia preso qualche male oppure è stato ammazzato…
Dopo avere avvisato il Pretore, Panza ed i suoi uomini si recano sul posto e trovano il cadavere del maestro, colpito da una fucilata alla schiena. Da una prima osservazione esterna, i fori sulla giacca sembrano dire che De Luca è stato colpito da una palla e sette grossi pallini, da qualcuno appostato nel campo di grano sotto la mulattiera e precisamente dietro un ulivo a circa dodici metri dal cadavere, dove Panza riscontra una quantità di grano calpestato.
Poco distante dal luogo del delitto c’è la casa rurale di Angelo Bruno e Panza lo va ad interrogare:
– Verso mezzogiorno ero a casa e udii un colpo di fucile. Mi affacciai e vidi sulla mulattiera, a poco più di cento metri da qui, un giovane che non conobbi, tutto vestito di nero, che a passo alterato e col fucile in mano, dalla direzione ove avvenne il fatto andava verso la contrada Fiumarello.
Panza all’improvviso si batte la mano sulla fronte, “Sono stati loro! Come ha fatto a non pensarci prima?” esclama. Loro chi? È una lunga storia ( LEGGI LA STORIA ),ma basta sapere che circa un anno e mezzo prima Salvatore De Luca, dopo un violento diverbio, aveva ucciso, per legittima difesa come aveva stabilito la Corte d’Assise di Cosenza, Domenico Palermo, uno dei guardiani del signor Giuseppe Magdalone. Quindi, loro sono la vedova, Aquila Iantorno, e Michele, Salvatore e Giovanni, i figli del povero Domenico Palermo e Panza gli va a fare una visita.
In casa c’è solo Aquila e il Brigadiere le chiede come mai i figli non sono ancora a casa, visto che è già suonato il vespro.
– Michele è tornato a mezzogiorno dalla campagna ed è uscito poco fa, è qui vicino… Salvatore è da stamattina in un fondo qua vicino a coltivare della piantume di pomodori e si è portato da mangiare per mezzogiorno…
Fatto chiamare Michele, i Carabinieri perquisiscono la casa onde rintracciare qualche fucile da recente esploso e rinvengono un due colpi a dietro carica non esploso di recente, mentre il fucile a bacchetta, che i militari sanno dover essere in casa, non c’è e Aquila dice:
– L’ho prestato stamattina a mio nipote Salvatore Iantorno…
– Non è vero che mia zia mi ha prestato il fucile a bacchetta! – la smentisce il nipote.
Panza allora decide di metterli a confronto e, ad un certo punto, Giovanni, il minore dei fratelli Palermo, dice:
– Il fucile lo ha preso mio fratello Salvatore fin dalle cinque di stamattina e non so dove sia andato…
– Allora, signora, come la mettiamo adesso? – fa il Brigadiere.
– Non so niente, non ho veduto chi lo ha preso tra mio nipote e mio figlio…
I militari cercano Salvatore nelle vicinanze della casa ma non lo trovano, così si appostano per cercare di sorprenderlo nel caso tornasse, ma non torna e Panza con i suoi uomini rientrano in caserma, col proposito di tornare dai Palermo a notte fonda ed assaltare la casa per tentare l’arresto del sospetto autore e della madre, sospetta complice nel delitto stante le sue contraddizioni.
Panza riferisce il suo piano al Pretore, ma questi non è d’accordo perché ha raccolto le voci di molti paesani i quali vogliono tutti i fratelli Palermo coinvolti nell’omicidio del maestro e perciò spicca i relativi mandati di cattura, eseguibili anche di notte. All’una del 7 giugno, dopo avere ispezionato le adiacenze dell’abitazione, i Carabinieri bussano, entrano ed arrestano Aquila Iantorno ed i figli Michele e Giovanni. Salvatore non c’è e di lui si perdono le tracce.
È ovvio che, essendosi reso irreperibile, i maggiori sospetti come esecutore materiale del delitto cadano su Salvatore, ma poi si presenta una ragazza, Carolina De Angelo, e racconta che la mattina del delitto, ad una quindicina di metri da dove è stato trovato il corpo del maestro, ha visto un giovine che vestiva di nero, di statura giusta, piuttosto magro, senza baffi ed in testa un cappello alla italianella di colore scuro, che si asciugava col fazzoletto il sudore. La ragazza precisa che il giovane era seduto sul limite della mulattiera, alto circa un metro, e i piedi li teneva penzolanti dalla parte della via. Poi aggiunge che non vide fucili nelle sue mani e non vide se tenesse con sé compagni. La descrizione di questo misterioso giovane fa sorgere dei dubbi: si trattava di Salvatore o di Giovanni Palermo? Si, perché i due fratelli si somigliano ed a Carolina, che ha detto di essere in grado di riconoscere il giovane se lo rivedesse, viene mostrato Giovanni in mezzo ad altri giovanotti:
– Fra gli individui che mi mostrate non trovasi affatto l’uomo che io vidi – dice Carolina e quindi resta solo Salvatore come esecutore materiale.
– Respingo l’imputazione di avere istigato mio figlio Salvatore ad uccidere De Luca per vendicare la morte del padre. Per convincersene basta considerare che una madre non può in alcun modo neanche pensarlo perché verrebbe, in tal modo, a rovinare un figlio – protesta Aquila Iantorno.
– Però vi siete contraddetta, mentendo, quando avete dichiarato che il fucile lo aveva preso vostro nipote…
– Quella mattina, Salvatore prese la zappa e uscì, poi uscii io. Quando tornai e non vidi il fucile, chiesi a Raffaele, il mio figlio di undici anni, chi lo avesse preso e lui mi rispose che era stato Salvatore. Siccome mio nipote, il figlio di mia sorella, porta questo nome, supposi che il due colpi se lo avesse preso mio nipote. Perciò, quando venne il Brigadiere tanto io dissi… io non cercai di mentire o di occultare il fatto e feci il nome di mio nipote per un mero equivoco.
– Respingo l’accusa di avere ucciso De Luca – attacca Michele – in quanto ieri mattina, appena fatto giorno, mi recai a raccogliere la foglia serica nel fondo Ranieri di proprietà del signor Giuseppe Magdalone in compagnia di Vincenzo Scaglione, Carmine Riggio, Giuseppe De Franco, Michele Mazzuca, mio fratello Giovanni ed altri e mi trattenni sino alle undici e poscia, cogli stessi individui, feci ritorno in mia casa, ove arrivai a mezzogiorno. Non trovai Salvatore, né ebbi cura di chiederne, perché sapevo che la mattina erasi recato a lavorare nel fondo Vanarella per piantare dei pomidori.
– È stato salvatore ad uccidere De Luca?
– Non sono al caso di dire se sia stato o meno mio fratello l’autore dell’omicidio. Quello che è certo è che io me ne dichiaro totalmente innocente sotto ogni riguardo ed indico a testimoni le persone che ho nominato prima.
Giovanni fa la stessa dichiarazione, visto che era insieme a Michele.
– Puoi negare che la tua famiglia odiava Salvatore De Luca?
– Con tutta ragione noi eravamo nemici di De Luca perché, circa venti mesi or sono, uccise nostro padre. Ma con ciò non voglio dire che mi sentivo autorizzato a potergli vendere il contro cambio uccidendolo. Respingo quindi l’addebito che mi si fa sotto ogni aspetto.
In effetti contro Michele, Giovanni e Aquila c’è poco o niente di concreto riguardo una loro partecipazione diretta al delitto, per non parlare di una possibile istigazione. Oddio, si potrebbe anche ipotizzare che in una riunione di famiglia i Palermo si misero d’accordo ed individuarono in Salvatore il più adatto ad ammazzare De Luca, ma tra l’ipotesi e la prova c’è una distanza come tra la terra e la luna. E siccome gli elementi a carico dei tre sono labili, il 13 giugno 1894 viene accolta la domanda di libertà provvisoria e gli sforzi investigativi vengono concentrati sia sulla raccolta di tutte le prove possibili sulla responsabilità di Salvatore, sia sulla sua cattura, visto che sembra sparito nel nulla e, anzi, molti cominciano ad ipotizzare che sia emigrato clandestinamente nelle Americhe. Molti, ma non il Brigadiere Panza che continua instancabilmente a battere le campagne, i casolari abbandonati, le stalle e anche le buche, ma senza risultato. Poi, il 27 agosto 1894, ritenendo che l’istruttoria può considerarsi conclusa, gli atti vengono trasmessi alla Sezione d’Accusa per le decisioni di competenza. Aquila Iantorno, Michele e Giovanni Palermo vengono prosciolti ed a rispondere dell’omicidio del maestro De Luca sarà soltanto il ventenne Salvatore Palermo, ancora latitante.
Il dibattimento, con l’imputato dichiarato contumace, si svolge il 26 novembre 1894 e Salvatore viene condannato, per omicidio premeditato, a 25 anni di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie. Certo, con la prospettiva che sia emigrato clandestinamente nelle Americhe, le speranze di potere eseguire la condanna sono poche, ma il Brigadiere Panza non si arrende e continua, imperterrito, a cercarlo invano per mesi e mesi.
Perché non si arrende? Perché, durante la fiera di Arcavacata, incontra il calzolaio Pietro Lorello che gli dice di avere visto Salvatore Palermo nel vaccarizzo del signor Giuseppe Magdalone una quindicina di giorni dopo l’omicidio. Panza, per convincere il calzolaio ad aiutarlo gli offre cento lire, che l’uomo accetta, ma non succede niente e il Brigadiere viene anche a sapere che il calzolaio starebbe facendo il doppio gioco in quanto favoreggiatore del latitante.
Allora, dubitando che Salvatore possa trovarsi in casa di Giuseppe Magdalone, essendo voce pubblica che costui lo proteggesse, lo cerca anche lì e non si limita a perquisire una sola volta l’abitazione ed i locali ad essa adiacenti del ricco proprietario, ma lo fa ogni notte per circa tre mesi consecutivi e la stessa cosa fa in decine di abitazioni e stalle site nelle campagne di Rende. In realtà Salvatore è al sicuro in Sila sotto falso nome, ma Giuseppe Magdalone per esimersi da tali continue visite, promette al Brigadiere di cooperare a indurre Palermo a presentarsi.
Non sappiamo se è per l’intervento del signor Magdalone o per l’ostinazione del Brigadiere Panza o perché Salvatore si è stancato, fatto sta che il 10 febbraio 1896, dopo più di un anno e mezzo di latitanza, Salvatore si costituisce nella Caserma dei Carabinieri di Cosenza e racconta la sua versione dei fatti:
– Sono innocente. Se avessi commesso l’omicidio in persona di Salvatore De Luca mi sarei subito presentato a confessare il mio fallo. Mi sono costituito perché ho appreso di essere ricercato e di essere stato anche condannato in contumacia alla pena di venticinque anni di reclusione. Il 6 giugno 1894, mentre cominciava a far giorno, uscii e mi recai a piantare dei pomidoro in un mio orto. Mi trattenni a lavorare per circa mezz’ora, poscia ritornai a casa, presi un fucile a due colpi e mi avviai per recarmi alla stazione di Montalto onde farmi accomodare un paio di scarpe dal calzolaio Pietro Lorello, ma pria pensai di nascondere il fucile in uno spinaro perché, trovandomi senza permesso d’arma, temevo d’imbattermi nei Carabinieri. Mi trattenni dal calzolaio per circa due ore e dopo uscimmo insieme e ci recammo a mangiare un po’ di ricotta presso il capo mandria Francesco Lanzino. Circa a mezzogiorno mi licenziai dal calzolaio ed entrai nella taverna di Francesco Cesario, a poca distanza dalla stazione di Montalto. Qui mi trattenni per ben due o tre ore, aspettando che rinfrescasse un po’ l’aria, poi, ripreso il fucile nascosto nelle fratte, mi avviai verso casa. Giunto, a circa due ore e mezzo di far notte, in contrada Verpanno incontrai Giuseppe Urso il quale mi partecipò che Salvatore De Luca era stato trovato ucciso e che in mia casa erano andati i Carabinieri perché l’omicidio si addebitava alla mia famiglia. A tale notizia stimai essere prudente di allontanarmi per aspettare che si facesse luce scovrendosi il vero colpevole. E poiché, di giorno in giorno, apprendevo che i sospetti ricadevano sopra di me, continuai nella mia latitanza, sperando che una rigorosa istruttoria scovrisse il vero. Però ora che ho appreso che le cose sono rimaste nello stesso stato di prima e che sono stato condannato in contumacia, mi sono costituito…
Il suo difensore, l’avvocato Francesco Alimena, entro il termine di legge di cinque giorni presenta ricorso per la nullità del processo contumaciale per legittima suspicione, ma la Suprema Corte di Cassazione, il 29 marzo 1896, rigetta il ricorso, così parte l’iter per ripetere il giudizio con il rito ordinario e Salvatore cambia difensore, nominando l’avvocato Francesco Spizzirri.
Il dibattimento viene fissato il 6 luglio 1896, ma prima si deve procedere al riconoscimento da parte di Carolina De Angelo. C’è un problema: la giovane ritratta e sostiene di non aver mai detto di essere in grado di riconoscere l’uomo vestito di nero che vide la mattina dell’omicidio, perché non lo guardò attentamente essendo allora nubile e sarebbe stata vergogna per lei fissarlo con attenzione. Niente da fare.
Cominciato il dibattimento, si fa riferimento ad un sacco rinvenuto nelle vicinanze del luogo del delitto, sacco che apparterrebbe ai Palermo e sacco nel quale, a detta di un paio di testimoni, Salvatore avrebbe nascosto il fucile già alcuni giorni prima del delitto, ma secondo altri testimoni nel sacco poteva esserci benissimo una zappa o una stadera. Sembra tutto un po’ vago. Poi, in merito al sacco viene ascoltato il sarto Michele Spina:
– L’ultima volta che vidi Salvatore Palermo prima dell’omicidio aveva il sacco e mi sembrò che dentro ci fosse una stadera, però Salvatore Bruno mi disse che invece gli sembrava un fucile smontato. Guardai con attenzione e mi sembrò un fucile smontato. Nella bottega del mio maestro avvertimmo Salvatore De Luca dell’incontro fatto con Palermo e di guardarsi. De Luca rispose: “Va bene, io non conservo inimicizia verso di loro, facciano quello che vogliono!” – strano, questo particolare non l’aveva raccontato al Giudice Istruttore che lo interrogò durante le indagini –. L’ho ora rammentato e perciò ora l’ho detto!
Addirittura, quando viene chiamato a testimoniare Beniamino Sorrento, rischia di essere coinvolto nell’omicidio anche il signor Giuseppe Magdalone, nella cui casa era stato maestro privato del figlio Luigino:
– Quindici giorni prima dell’uccisione di De Luca, il signor Giuseppe Magdalone, nella Piazza Seggio in Rende, verso sera all’ora del passeggio, avendo visto Salvatore De Luca, disse: “Ancora mi passa davanti questo vigliacco! Se quel gianfutaro di Mico Palermo non fu buono a togliergli la vita, sarà buono il figlio Salvatore!”. Magdalone quando vedeva De Luca borbottava. So che era nemico con De Luca, ma non ne conosco il motivo.
Ma sembra che Sorrento abbia motivi di risentimento verso Giuseppe Magdalone, essendo stato cacciato in malo modo per avere tramato di far prendere da’ briganti il Magdalone, per avere tentato di indurre il figlio del padrone a sottrargli del denaro da uno scrigno al fine di, udite udite, spenderli insieme in festini equivoci. Lui, che era stato un monaco, ovviamente nega, ma la difesa di Salvatore Palermo lo incalza chiamando due testimoni che confermano tutto. Il risentimento di Beniamino Sorrento nei confronti di Magdalone, secondo la difesa, è provato anche da una serie di articoli pubblicati su “Cronaca di Calabria” con lo pseudonimo di “Sorriso”, articoli di cui Sorrento è costretto ad ammettere la paternità.
Poi accade qualcosa che raramente si vede in un’aula di giustizia: quattro testimoni citati dalla difesa di Salvatore Palermo a confermarne l’alibi, vengono arrestati in aula per falsa testimonianza e il Presidente della Corte ordina di proseguire il dibattimento, ma otto giurati manifestano che, essendosi sottoposti a procedimento penale i quattro testimoni, rimane in essi il grave dubbio se questi siano spergiuri o quattro galantuomini e se debbano ritenersi vere oppur no le loro dichiarazioni. Quindi, in tale incertezza, essi non possono emettere un esatto giudizio se prima i quattro testimoni non siano giudicati innocenti o colpevoli. Per evitare, dal suo punto di vista, spiacevoli conseguenze, il Pubblico Ministero chiede che la causa sia rinviata a nuovo ruolo, richiesta alla quale si associa la difesa. La Corte, ammettendo che il dubbio espresso dai giurati rappresenta implicitamente il loro convincimento in merito alla causa, non può che interrompere il dibattimento e rinviarlo ad altro ruolo e se riparlerà dopo due anni, il 15 marzo 1888, dopo la condanna dei quattro.
Si procede con aspri scontri tra la difesa ed il Presidente della Corte, che ne respinge tutte le eccezioni.
Nell’udienza del 2 giugno 1898 scoppia un’altra bomba, ancora più potente e più grave dell’arresto dei quattro testimoni. Il Presidente della Corte, con voce grave, legge una sua disposizione: poiché risultano fondati motivi a ritenere di essere stati sollecitati direttamente o per interposta persona con promesse ed offerte i Giurati della causa a carico di Salvatore Palermo onde emettere voto in suo favore e che avrebbero essi potuto accettarle, sicché non può, conseguentemente, con sicura coscienza loro affidarsi la decisione della causa suddetta, deve, perciò, a novello ruolo rimandarsi. Il fatto è davvero di una gravità inaudita e ci si chiede come è possibile che una famiglia di contadini possa disporre di somme tanto rilevanti e conoscenze tali da essere in grado di avvicinare i giurati per corromperli. La risposta potrebbe sembrare logica: se ne è occupato don Giuseppe Magdalone. Ma, ad onor del vero, esiste un’altra versione dei fatti, altrettanto grave, si capisce: uno dei giurati, venuto a conoscenza che Magdalone sostiene economicamente le spese per la difesa di Salvatore Palermo, lo avvicina e gli chiede soldi in cambio del proprio voto favorevole. Scoperto, nasce lo scandalo.
Non ci vuole molto, il tempo di formare una nuova giuria popolare. Il 23 giugno successivo si riprende tra le proteste della difesa, che chiede un nuovo differimento della causa per non avere avuto la possibilità di preparare una nuova lista di testimoni a discarico. La richiesta viene respinta e la difesa ricorre per Cassazione chiedendo il trasferimento del processo ad altra sede per legittima suspicione. Tutto ciò, è chiaro, non giova alla situazione processuale di Salvatore ed in attesa della decisione della Suprema Corte si va comunque avanti velocemente. Infatti, il 29 giugno la Corte emette la sentenza: Salvatore Palermo è ritenuto responsabile dell’omicidio del maestro elementare Salvatore De Luca e, esclusa l’aggravante della premeditazione, viene condannato ad anni 14 e mesi 7 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.
Il 4 luglio 1898 la Suprema Corte rigetta l’istanza di trasferimento della causa ad altra Corte d’Assise e la difesa ricorre contro la sentenza di condanna.
Il 22 novembre 1898 la Suprema Corte rigetta anche questo ricorso e la pena diventa definitiva.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.