Il 9 maggio 1945 è una bella giornata di sole a Corigliano Calabro e nei dintorni della masseria di Espedito Grosso, in contrada Bonsoccorso, Franco, quindici anni, e Gino, undici anni, stanno raccogliendo erbe selvatiche quando in un anfratto trovano un fucile, probabilmente abbandonato dai tedeschi in fuga e nascosto lì da qualcuno. Lo prendono e cominciano a giocare alla guerra ma, disgraziatamente il fucile è carico e parte un colpo che uccide all’istante Gino. Una tragedia immane per la famiglia e lascia costernata tutta la popolazione. Franco viene arrestato ma poi, il 13 giugno successivo, accertato che si è trattato di un tragico errore fatto da un ragazzino, il Giudice Istruttore, in attesa dello svolgimento del processo, gli concede la libertà provvisoria.
La cosa viene presa malissimo dalla famiglia del povero Gino che non risparmia parole contro Franco, meno uno: Mimmo, il fratello dodicenne della vittima, che continua a frequentare Gino come se niente fosse accaduto.
È la mattina del 30 giugno 1945 e fa caldo. Mimmo sta giocando con Giacomino, quindici anni, quando all’improvviso, dimostrando che, contrariamente a quanto ha dimostrato finora, non ha affatto dimenticato la morte di suo fratello e chi l’ha causata, gli dice:
– Andiamo a chiamare Franco con la scusa di prendere un bagno e gli facciamo una buona paliata.
– Ma sei impazzito? Io non ci vengo! – Mimmo non insiste e la cosa finisce lì, almeno sembra.
La mattina del giorno dopo, Mimmo torna alla carica con Giacomino e gli ripete la proposta, ma questa volta aggiunge:
– Gli facciamo una buona paliata e lo ammazziamo!
– Se vuoi ammazzarlo, ammazzalo solo, io vengo a prendermi il bagno! – gli risponde. Incredibile! Non cerca di dissuaderlo e non se ne va per avvisare qualcuno di ciò che sta per accadere. O, forse, semplicemente non crede che stia dicendo sul serio. Fatto sta che va con Mimmo.
– Franco! Franco! – urla Mimmo per richiamare l’attenzione della vittima designata – Vieni che andiamo a mare a prendere un bagno!
– Arrivo! – risponde, ignaro di ciò che sta per capitargli.
Arrivati sulla spiaggia, Giacomino salta sulle spalle di Franco per bloccarlo, ma l’operazione deve essere interrotta perché proprio in quel momento sulla spiaggia arrivano il padre di Franco ed un altro uomo, così i tre ragazzini, rimproverati per non avere detto dove andavano, tornano indietro.
Ma Mimmo ha ormai deciso e vuole portare avanti il suo piano, costi quel che costi. Così, insieme a Giacomino, verso mezzogiorno, sapendolo solo a casa, tornano da Franco, lo chiamano e tornano sulla spiaggia. Mentre Giacomino si sta sciogliendo la cinghia delle mutande, gli cade sulla sabbia una scatola di fiammiferi, di cui si impossessa Franco, seduto lì accanto.
– Dammela! – urla Giacomino.
– No! – gli risponde Franco.
Allora Giacomino gli salta addosso, lo butta a terra e gli si siede sul petto con le spalle rivolte alla sua testa nel tentativo di strappargli la scatola di fiammiferi. Mimmo, approfittando del momento, afferra Franco alla gola con entrambe le mani, stringendo con tutta la forza che ha.
Franco si dibatte disperatamente cercando di alzare la testa, ma Mimmo gli poggia il piede destro sulla guancia destra, premendogli il viso sulla sabbia. Franco, rantolando, gli dice:
– Perdonami… – riferendosi alla sciagurata uccisione del fratello di Mimmo.
– Tu non hai perdonato mio fratello! – gli risponde con la voce carica di odio, mentre continua a stringergli la gola.
Ma Mimmo non immagina quanta forza e quanto tempo occorra per strozzare un uomo o ragazzo che sia ed è costretto a mollare la presa, poi con l’aiuto di Giacomino toglie una cordicella ch’è attaccata ai pantaloni di Franco, gliela passa intorno al collo e stringe finché non da più segni di vita.
Accortosi della morte, Mimmo gli toglie la camicia, che gli era andata a finire sul viso, e la lascia sul posto. Indi, tirandolo per i piedi, lo porta sulla riva lambita dal mare e lo abbandona con tutto il laccio al collo.
Mimmo e Giacomino prendono la via del ritorno e lungo la via incontrano il padre di Franco, che sta cercando il figlio:
– Avete visto Franco? – chiede loro.
– No… non l’abbiamo visto – rispondono entrambi, continuando a camminare.
Poco dopo il padre di Franco ed il suo amico fanno la tragica scoperta e capiscono subito che sono stati i due ragazzini ad ammazzarlo.
Mimmo e Giacomino vengono arrestati e cominciano subito il balletto dello scarico delle responsabilità:
– Io non lo volevo uccidere, ma soltanto fargli una paliata, come aveva detto Mimmo… – si difende Giacomino, ma l’amico lo smentisce.
– Quando gli proposi di ammazzare Franco, in un primo momento mi rispose che se lo volevo ammazzare, dovevo ammazzarlo da solo, ma poi mentre tenevo Franco afferrato per la gola, lui lo teneva fermo per le gambe e le braccia, che gli comprimeva sul petto e mi disse: “lascialo andare, perdonalo…”. Io gli risposi: “Forse lui ha perdonato mio fratello?”.
A questo punto Giacomino è costretto ad ammettere qualcosa:
– Si, sapevo il suo proposito qual era…
– E lo hai tenuto fermo…
– Continuai a stare a cavalcioni sul petto di Franco fino a quando non mi accorsi che i suoi piedi non si dibattevano convulsamente e lo sentii rantolare la parola “perdonami…”. Balzai in piedi e cercai di allontanare Mimmo con una spinta, invitandolo a desistere…
– E quindi, conoscendo il proposito aderisti all’invito e partecipasti al crimine tenendo costantemente ferma la vittima! – gli contesta il magistrato che lo interroga.
Intanto l’autopsia conferma che la morte è avvenuta per strangolamento, cioè per la compressione delle vie aeree mediante una corda, e non per strozzamento, cioè per la compressione con le mani, e questa circostanza aggrava la posizione dei due ragazzini perché rafforza il convincimento della volontà omicida dei due.
A questo punto, date le tante, troppe parole dette a sproposito dalla madre di Mimmo e dato che si tratta di un orrendo delitto commesso da due ragazzini, gli inquirenti hanno il sospetto che sia stata proprio la madre ad istigare Mimmo alla vendetta e così finisce anche lei in carcere. Ma come fa una madre ad istigare il proprio figlio dodicenne ad ammazzare per vendetta? Per gli inquirenti la risposta è semplice: Mimmo è l’unico che può avvicinare Franco senza destare sospetti ed inoltre, proprio in virtù dei suoi dodici anni, non è imputabile e infatti viene immediatamente rimesso in libertà. Se fosse vero che la madre istigò il figlio, resterebbe comunque un comportamento incomprensibile perché, se è vero che il ragazzino non è imputabile, è altrettanto vero che il rimorso se lo porterà dietro per il resto della vita e la madre rischia seriamente la condanna a morte. Ma, se fosse vero, forse tutti questi ragionamenti e questi problemi alla donna nemmeno vennero in mente. Vedremo se e quali prove troveranno a suo carico gli inquirenti.
No, prove inconfutabili gli inquirenti non ne trovano a carico della madre, ma per chiederne ed ottenerne il rinvio a giudizio, sebbene a piede libero, con l’accusa di concorso in omicidio premeditato, bastano le parole di minaccia dette in pubblico. Anche Giacomino viene rinviato a giudizio per rispondere di omicidio premeditato in concorso. Ad occuparsi del caso sarà, il 28 gennaio 1948, la Corte d’Assise di Rossano.
In udienza, la difesa di Giacomino chiede che venga sottoposto a perizia psichiatrica, la richiesta viene accolta e la causa rinviata a nuovo ruolo.
Quando, il 26 luglio 1949, inizia il nuovo dibattimento, la difesa di Giacomino chiede che gli sia riconosciuta la circostanza di non aver potuto impedire l’azione criminosa per cause indipendenti dalla sua volontà, basando la richiesta sulla frase che pronunciò quando Mimmo gli propose di uccidere Franco: “Se vuoi ammazzarlo, ammazzalo solo, io vengo a prendermi il bagno”, secondo quanto recita l’articolo 116 del codice penale. La Corte, rigettando la richiesta, osserva che il delitto si basa, invece, sopra una divergenza tra la volontà e l’evento che risulta più grave o diverso da quello voluto da alcuni dei compartecipi all’intrapresa delittuosa, secondo quanto prescritto dall’articolo 110 del codice e spiega: quel “plus” sussistente in una maggiorazione o diversità dell’evento, non deve essere stato, da alcuno dei partecipanti al fatto, voluto o saputo, giacché sapere e partecipare equivale a volere, e deve stare con l’azione od omissione di quelli nel solo rapporto di causalità materiale e non anche psicologica.
La Corte, però, riconosce che non sussiste l’aggravante della premeditazione perché non si desume quell’attività psichica complessa per la quale, al proposito di commettere un delitto, sussegue un coordinamento di idee ed una scelta di mezzi, che da luogo ad un progetto di esecuzione. Nella fattispecie trattasi di determinazione istantanea o quasi.
Stabiliti questi punti fermi, la Corte entra nello specifico della posizione di Giacomino, in virtù del parere degli specialisti che lo hanno sottoposto a perizia psichiatrica: trattasi di una personalità rimasta incompleta nel suo sviluppo per fattori morbosi ed inquadra, precisamente, la figura del freniastenico cerebropatico di grado medio (imbecillità). Per questo complesso deficitario, egli, nel momento del reato trovavasi in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere e di volere. Tale complesso è tuttora attivo e tale da rendere l’imputato socialmente pericoloso. Egli, in breve, è affetto dal vizio parziale di mente.
I risultati della perizia danno modo alla difesa di sostenere che tale stato, congiunto con la minore età al momento del consumato reato, minore età che ha con sé una diminuzione o, per meglio dire, un incompleto sviluppo delle facoltà intellettive, apporta un vizio totale di mente, per cui l’imputato dovrebbe essere prosciolto.
La Corte è di parere contrario perché nella specie di minore età che ha anche il vizio parziale di mente non possono sommarsi i due stati e per rafforzare la propria posizione cita alcune sentenze della Corte di Cassazione che stabiliscono i principi che il vizio parziale di mente non esclude la imputabilità dei minori degli anni 18 e che anche ammesso tale vizio, il giudice può negare il beneficio delle attenuanti generiche quando la gravità del fatto le escludono. Ma poi aggiunge: comunque, questa Corte, attesa la condizione psichica dell’imputato, la sua minore età e tutte le altre circostanze, ritiene opportuno concedergli anche il beneficio delle attenuanti generiche. E stabilisce la pena da comminare a Giacomino: pena base anni 24 – 1/3 (vizio di mente) = 16; – 1/3 (minore età) = 11; – 1/3 (attenuanti generiche = 8 anni di reclusione, più pene accessorie, spese e danni.
Per quanto riguarda la madre di Mimmo, la Corte ritiene non sufficientemente provata la sua responsabilità quale istigatrice del figlio ad uccidere la vittima.
Le continue minacce profferite, da cui dovrebbe desumersi la sua colpevolezza, sono più che altro determinate dal dolore vivo della tragedia subita; dal vedersi, quasi subito dopo il fatto, l’uccisore del figlio camminare liberamente per le vie di Corigliano Calabro; ed infine per la lingua scomposta di essa. Se ebbe a dire nei confronti di Franco: “la morte di mio figlio è stata il fucile, la morte sua dovrà essere il mare”, ciò non è una prova inconfutabile dell’opera istigatrice fatta verso il figlio, ma potrebbe interpretarsi come uno sfogo del suo animo esacerbato.
Dopo l’omicidio, Giacomino disse a Mimmo: “Adesso tua madre non ti ammazzerà?”. Al che l’altro rispose: “Stai zitto, non te ne incaricare”. Da ciò l’accusa vorrebbe desumere un elemento di colpevolezza, ma esso è equivoco, potendosi ritenere, in favore dell’imputata, nel senso che Mimmo si sentiva disposto a subire le ire della madre per l’azione commessa, pur avendo vendicato il fratello morto.
Il 27 marzo 1950 la Corte di Appello di Catanzaro dichiara condonata la pena di anni tre di reclusione a Mimmo.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte di Assise di Rossano.
I nomi dei protagonisti della storia sono volutamente omessi e sostituiti con nomi di fantasia.