Natale Urrico da Domanico è un anziano di 77 anni e, come ogni anno, anche nel 1940 si trasferisce in campagna nella sua casetta rurale di contrada Canemaschi dove, con l’aiuto di un garzone, provvede all’essiccamento delle castagne e quest’anno ha assunto al suo servizio il ventisettenne Francesco Carolei. L’operazione dell’essiccamento si svolge in un vano terreno della casetta, tenendo ivi acceso in continuazione il fuoco, che di notte viene alimentato or da Urrico, or da Carolei.
È la notte tra il 31 ottobre ed il primo novembre 1940, Natale e Francesco stanno dormendo al piano superiore della casetta. L’anziano si sveglia e sveglia il garzone:
– Alzati e vai a mettere legna al fuoco – gli ordina.
Il garzone sbadiglia, si stiracchia, si riveste e scende nel basso. Prende alcuni pezzi di legno e ravviva il fuoco.
Come ogni mattina, anche il primo novembre Antonio Urrico va a trovare suo padre nella casetta rurale. Sebbene sembri non esserci nessuno, la porta del basso socchiusa gli suggerisce che suo padre ed il garzone forse sono ancora a letto. Sale le scale esterne, entra nella prima stanzetta che dà accesso a quella dove ci sono i letti e qui, appena entrato, lancia un terribile urlo, seguito da bestemmie terribili: per terra c’è suo padre in un lago di sangue, morto!
Allora torna di corsa in paese e va ad avvisare i Carabinieri, poi la Guardia Municipale e i suoi fratelli Giovanni e Luigi. Tutti insieme si mettono immediatamente in marcia verso contrada Canemaschi; Luigi e la Guardia Municipale Perri affrettano ancora di più il passo e precedono gli altri di qualche istante. Vedono la porta del basso socchiusa ed entrano. Per terra c’è Francesco Carolei legato testa e piedi con una fune, ma con le mani libere.
Luigi ha la fulminea impressione che autore del delitto fosse stato costui e gli si lancia addosso assestandogli pugni sul viso e proclamandone la colpevolezza. poi sale al piano superiore per vedere suo padre. In questi attimi arrivano anche gli altri con il Brigadiere Tommaso Nicolini e l’Appuntato Armando Artese; trovando Carolei legato in quel modo bizzarro, condividono i sospetti di Luigi, lo lasciano legato e lo dichiarano in arresto, poi salgono al piano superiore per le constatazioni del caso. Su un tavolino c’è il gilet della vittima con tagli sulle spalle che combaciano con alcune delle ferite e accanto a questo c’è il portafogli di Urrico, vuoto. Appesa ad una scala a pioli c’è una scure sporca di sangue. Sotto il pagliericcio del letto dove dormiva il garzone c’è una rivoltella.
– Mio padre aveva milleduecentolire, quel bastardo gliele ha rubate e gli ha rubato anche la rivoltella! – accusa Luigi.
Carolei, che sembra mezzo intontito, viene liberato tagliando la corda e tutti possono notare che è ferito alla testa, perde sangue dal naso, ha la giacca sporca di sangue sulla spalla destra e sulla gamba destra dei pantaloni, dove era strettamente serrata la testa con due giri di corda. In più ha un occhio gonfio e nero. Vicino a lui, oltre al fuoco ormai quasi spento, ci sono una piccola scure e due vanghe a margini taglienti. Quando lo interrogano dice che non c’entra niente:
– Natale mi ha svegliato per andare ad alimentare il fuoco e io sono sceso nel basso. Mentre ero intento a compiere tale operazione sono stato aggredito da uno sconosciuto che mi vibrò dei colpi in testa e, dopo pochi istanti, mi legò con una corda nel modo in cui mi avete trovato, poi persi conoscenza e mi sono riavuto poco prima che arrivassero i Carabinieri… dopo una mezzoretta da che fui aggredito sentii un colpo sopra il pavimento della camera dove io e Natale dormivamo…
– E se avevi perso conoscenza come hai potuto sentire il colpo? Dai, finiamola con questa commedia, dicci dove hai nascosto le milleduecentolire!
– Non le ho prese io, io non c’entro niente e poi Natale mi aveva confidato di avere ottocento lire e non quello che dite voi.
– La scure è tua? – gli chiede il Brigadiere mostrandogli l’arma insanguinata.
– No, era di Natale.
– E la rivoltella? Che dici della rivoltella?
– Me l’aveva data Luigi Urrico e la conservavo sotto il pagliericcio.
I Carabinieri si mettono a ridere quando sentono questo racconto bizzarro e soprattutto incredibile, ma le ferite in testa le ha e comunque bisogna che un medico lo visiti. Chiamato il dottor Toscano, questi esclude che quelle ferite lo avessero potuto far svenire o, nel caso in cui fosse davvero svenuto, che lo svenimento potesse durare così a lungo. In ogni caso, siccome aveva le mani libere, avrebbe potuto sciogliere i nodi che stringevano la fune con cui figurava legato o avrebbe potuto servirsi della piccola scure a portata di mano o delle due vanghe a margini taglienti o, addirittura, del fuoco per bruciarla e sciogliersi. Ma poi, perché il presunto aggressore avrebbe dovuto legargli la testa ai piedi e lasciargli libere le mani? No, si tratta chiaramente di un trucco, la verità è che Francesco Carolei ha assassinato Natale Urrico per rapinarlo dei soldi che aveva in tasca e, d’altra parte, ha anche precedenti penali per furto. Accusa che se sufficientemente provata vuol dire pena di morte!
Carolei viene interrogato numerose volte, ma mantiene sempre la stessa versione dei fatti: è innocente perché fu aggredito, stordito e legato. Natale Urrico lo ha ucciso qualcun altro.
– Mi spiego meglio… quando fui colpito non persi completamente i sensi e vidi il mio aggressore, lo vidi uscire e ritornare poco dopo con la fune con cui mi legò – precisa Carolei al Giudice Istruttore che gli contesta la contraddizione tra il dichiarare di essere svenuto e di avere sentito il colpo sul pavimento.
Il 3 aprile 1941, il Giudice Istruttore, accogliendo la richiesta della Procura, rinvia Francesco Carolei al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di rapina e omicidio aggravato dal fine di conseguire il prodotto del reato di rapina.
La causa si discute nelle udienze del 15 e 16 luglio 1941. La Corte, letti gli atti, ascoltati i testimoni e le richieste della parte civile, della difesa e del Pubblico Ministero, che stranamente chiede la condanna dell’imputato a 30 anni di reclusione per furto aggravato e omicidio aggravato, osserva: Trattasi di processo eminentemente indiziario. Nessuna prova de visu o ex auditu esiste. Indizi certi, precisi, inconfutabili, assumono l’accusa privata e pubblica, che danno la certezza che autore dell’omicidio e del furto fu Francesco Carolei.
Cosa? Ma se è evidente che non può essere stato che l’imputato il responsabile! La Corte è impazzita?
Ma la Corte continua: Le parti civili ed il Pubblico Ministero hanno allineato gl’indizi che dovrebbero portare alla condanna dell’imputato. Se il furto fu compiuto e l’omicidio fu da lui consumato non potrebbe scindersi il nesso fra i due delitti e, contrariamente alla richiesta del Pubblico Ministero, dovrebbe essere condannato alla pena di morte. Comunque, agli effetti della indagine, la gravità della pena non conta; contano, invece, gli elementi sui quali essa deve basarsi.
E adesso viene il bello perché la Corte elenca, analizza e smonta uno ad uno tutti gli indizi raccolti durante le indagini: Macchie di sangue sugl’indumenti dell’imputato; la rivoltella sotto il pagliericcio dell’imputato; la fune per legarlo di proprietà della vittima; il modo in cui fu legato; la possibilità che aveva di slegarsi; la scure che servì al delitto era di proprietà della vittima; il furto della somma che la vittima aveva e che l’imputato sapeva che avesse; la tendenza dell’imputato a commettere furti. Questi gli indizi di cui si è servita l’accusa contro Francesco Carolei. Sono elementi precisi, dicono gli accusatori, che riuniti e riallacciati agli avvenimenti non possono far dubitare della responsabilità dell’imputato. Secondo la Corte non è così perché non vi sono, in materia penale, regole circa la valutazione degli indizi. È regola logica, però, che il fatto che si indica come indizio, onde possa sublimarsi a prova, è necessario che debba essere certo e debba avere una sola spiegazione: quella del delitto. Se si può dubitare della sua esistenza o se il fatto può avere spiegazione diversa, il fatto indicato come indizio non può valere come prova della responsabilità di colui che viene accusato in base a quell’indizio. Poi spiega, una per una, tutte le possibili interpretazioni di ogni singolo indizio. Noi, per semplicità, ci soffermiamo su quelli dati per scontati dall’accusa, ma che per la Corte non lo sono affatto. Le macchie di sangue sugli abiti di Carolei. L’accusa sostiene che, specialmente quella sul ginocchio destro dell’imputato, le macchie sono state prodotte dal sangue sgorgato dalle ferite della vittima. Nei loro vari verbali, I Carabinieri argomentarono che Carolei si era abbassato e aveva poggiato il ginocchio sul sangue sgorgato dalla vittima o per constatarne la morte o per togliergli il gilet nel quale erano custoditi i soldi. L’imputato e il suo difensore sostengono, invece, che le macchie sugli abiti furono prodotte dal sangue sgorgato dalle ferite riportate al capo da Carolei e dal sangue colatogli dal naso in seguito all’aggressione subita. La Corte rileva che i due periti che visitarono l’imputato gli riscontrarono tre ferite sul cuoio capelluto, interessanti i tessuti sottostanti. L’accusa sostiene che da queste ferite, per la loro superficialità, non fu possibile che sgorgasse una quantità di sangue tale da sporcare la giacca sia posteriormente che anteriormente fino alla maglia interna e anche il pantalone. La Corte fa notare che, secondo tutti i trattati medici, le ferite che interessano i tessuti sottostanti al cuoio capelluto non sono superficiali e, senza scomodare oltre eminenti scienziati, tutti sanno che le ferite alla testa danno sempre abbondanti emorragie. E il sangue sul pantalone? La Corte, per smontare questo indizio, parte dal modo in cui fu trovato legato Carolei. Secondo i Carabinieri, l’imputato figurava legato per il collo ai piedi, in modo che la testa si curvava sui ginocchi, donde la possibilità che dalle ferite sul capo il sangue sia sgorgato sul ginocchio destro. Dunque è per lo meno dubbio che questa macchia, tanto utilizzata dai Carabinieri come indizio a carico dell’imputato, sia stata prodotta dal sangue della vittima. Solo l’esame dei gruppi sanguigni, che non fu fatto, avrebbe potuto discriminare se il sangue apparteneva alla vittima o all’imputato. Ma, in ogni caso, c’è un particolare che taglia la testa al toro: non può concepirsi che il sangue sgorgato dalla vittima potesse, penetrando dal collo dell’imputato, scendergli sotto l’ascella destra e macchiargli la maglia interna. E se non avesse avuto addosso la giacca? Una cretinata: se non avesse avuto la giacca, questa non poteva essere sporca di sangue. Come Carolei fu legato e possibilità di slegarsi: la Corte osserva: Prima di vagliare le argomentazioni di accusa, bisogna rilevare le lacune, le deficienze istruttorie in ordine a questo indizio. Il Brigadiere dei Carabinieri, seguito dal proprio Appuntato e dalla Guardia Municipale, giunse sul luogo della strage pochi istanti dopo di Luigi Urrico, figlio dell’ucciso, ed entrò subito nel basso ove, per primo, era entrato Luigi Urrico. Constatò che Carolei era legato con una corda al collo ed ai piedi, mentre teneva le mani libere ed ebbe subito la sensazione del trucco. E così si espresse nel verbale: “Vedendo il Carolei legato, ma con le mani libere, abbiamo subito condiviso i sospetti del Luigi Urrico. Ed infatti questi, pochi istanti prima, per lo stesso motivo aveva assestato pugni sul viso di Carolei ed aveva gridato: “Tu hai ammazzato mio padre!”. Acquisito questo convincimento, cosa fa il Brigadiere? Dichiara in arresto Carolei e sale nella camera del delitto. E cosa succede di Carolei? Non lo dice il verbale, ma lo afferma poi il Brigadiere Nicolini al Giudice Istruttore: “Entrati nel basso, trovammo Carolei legato come descrissi nel verbale e insanguinato. Egli grondava sangue anche dalla bocca. Provvedetti subito a scioglierlo tagliando la corda”. Incauto! Fece una sommaria descrizione della legatura e così si espresse: “Al nostro arrivo abbiamo trovato Carolei legato con una corda al collo a nodo detto “chiacco” e dopo detto nodo, in modo da stringere se veniva tirata la corda, aveva altra voltata di corda al collo. Inoltre, con la stessa corda aveva legati i piedi, mentre aveva le mani completamente libere”. Descrisse i passaggi di corda attorno alle gambe? Niente. Accertò il numero dei nodi, il posto ove si trovavano, se sul davanti o sul di dietro delle gambe? Neppure! In altra parte del verbale disse: “Il nodo al collo lo ha fatto in modo che, tirando i piedi, doveva stringere, ma siccome la corda l’ha lasciata un po’ lunga, non ha servito allo scopo e fu costretto a fare altro giro di corda intorno al collo piegando la testa”. Niente altro descrisse nel verbale il Brigadiere. Acquisito il convincimento del trucco, pensò subito a sciogliere Carolei tagliando la corda. E non credette prudente attendere l’arrivo del Giudice Istruttore, che pur giunse sul luogo in quel giorno. E perché invece di tagliare la corda non pensò di constatare se i nodi potevano o no essere facilmente sciolti? Domandato su ciò in pubblico dibattimento, rispose: “Non vi badai perché intendevo sollecitamente procedere alle indagini”. quasi che la constatazione precisa della predetta situazione non facesse parte delle indagini che doveva compiere! Non comprese che costituiva il punto cruciale di esse! Più preciso del Brigadiere fu la Guardia Municipale, che disse: “Carolei aveva una corda fatta a cappio attorno al collo, attorno al quale era stata poi rigirata un’altra volta e con l’altro capo aveva legate le gambe, attorno alle quali la corda era tutta rigirata e legata con parecchi nodi. Ricordo che io cominciai a sciogliere i nodi con le mani. Ne avevo sciolti due allorquando il Brigadiere mi disse di far presto; gli risposi che non era possibile ed allora presi il temperino e tagliai la corda”. La fretta, sempre la fretta, dominò il Brigadiere!
Dal modo come era legato, si comprende in modo certo una sola cosa: che la corda tesa per il secondo giro al collo, faceva sì che il viso di Carolei combaciasse con le ginocchia. E che la testa restasse fortemente tirata sulle ginocchia lo dimostra l’impronta che la corda lasciò sul collo, che il dottor Serra constatò così: “Tale solco comprende tutta la porzione anteriore, laterale e posteriore dove, specialmente al lato destro, il solco si mostra poco più accentuato”. La constatazione avvenne il 5 novembre, a distanza, dunque, di cinque giorni persiste ancora il solco, il che denota l’imponenza di esso e spiega l’importanza della stretta che produsse il sistema di legatura. Ma il Brigadiere omise ancora di compiere un altro esperimento: accertare, cioè, con manovre che doveva far fare a Carolei nelle condizioni in cui si trovava, se era possibile che egli, portando la testa vicino ai piedi avesse potuto liberare il capo dal secondo giro di corda. “Secondo me Carolei, sforzandosi, avrebbe potuto portare la testa fin verso i piedi e così liberarsi del secondo giro di corda, onde avere poi quasi libero il movimento della testa”. Queste le supposizioni del poco accorto Brigadiere Nicolini, che potevano diventare palpitanti certezze se non avesse avuto fretta, se avesse avuto la calma di attendere l’arrivo del Giudice Istruttore, che si preoccupò di accertare se Carolei avesse avuto la possibilità di sciogliersi da sé e procedette ad un esperimento, che fallì perché doveva fallire non avendo la precisa preesistente consistenza della legatura. L’accusa assume che in quelle condizioni Carolei poteva rompere i lacci che l’avvincevano; se ricorre, non la certezza, ma la sola possibilità contraria, crolla l’illazione circa il trucco e, conseguentemente, la certezza che egli sia stato l’autore dell’assassinio di Natale Urrico. Le ferite di Carolei: Il dottor Achille Toscano, che per primo visitò Carolei, disse che le tre ferite al capo “non hanno potuto produrre né stordimento, né perdita della coscienza”. Questo sanitario dimenticò di dare atto di un’altra lesione che presentava Carolei. Disse il Brigadiere nella sua deposizione, che Carolei “aveva un occhio gonfio e livido”. Poteva avergliela prodotta Luigi Urrico quella mattina quando lo colpì con pugni sul viso? No! Perché le lividure, le ecchimosi, l’enfiagioni che il Brigadiere e la Guardia Municipale osservarono subito dopo che Luigi Urrico aveva colpito Carolei non sono immediate al colpo ricevuto. Vi è bisogno di decorso di tempo onde si formi l’ecchimosi, il cui colore va man mano mutando a seconda del decorso del tempo. Dunque bisogna necessariamente ritenere che preesistesse. Ma il dottor Toscano non la rilevò, il che fa pensare che costui sia, per lo meno, disattento e che perciò sul suo giudizio non è possibile fare soverchio affidamento. Il dottor Serra rilevò “sulla regione sott’orbitaria destra una contusione ecchimotica di colorito bluastro” ed espresse il giudizio che le lesioni riportate non avessero potuto produrre alcun stordimento e tanto meno perdita di coscienza. Ma i due medici sono in contrasto con la scienza che afferma, a proposito della commozione cerebrale: “che disturbi di mente si possono manifestare più facilmente come conseguenze di traumi diretti al capo, né è necessario che la violenza traumatica, pure essendo sufficiente, sia stata particolarmente intensa”. Alla Corte basta affermare la possibilità della sussistenza del quadro fenomenologico descritto dall’imputato per dover rigettare gli argomenti dell’accusa.
Vi è da meditare su questa particolare situazione! E se da un canto le impressioni da impulso possono far pensare ad una certa inverosimiglianza della versione che l’imputato ha prospettato, dall’altra la meditazione su situazioni scientificamente accertate rende perplessi a pronunziare la parola decisiva su questo tragico avvenimento, che maggiormente tragico diverrebbe se, seguendo le impressioni, si incappasse in un errore giudiziario decidendo la soppressione di un uomo che per la parola della scienza potrebbe essere innocente. La causa è concentrata in questa particolare situazione, il resto è contorno che non ha valore. L’arma usata dall’assassino: la scure di pertinenza della vittima. Si è detto che se altri avesse compiuto il delitto non si sarebbe servito di quella scure, sia perché si sarebbe recato con arma propria, sia perché non avrebbe potuto sapere dove fosse l’arma della vittima, dunque il delitto fu commesso da Carolei. Dov’era conservata la scure? Fu essa la sola arma omicida? Risulta che la scure era nella camera antistante a quella del delitto, appesa ad una scala a pioli. Chi può fissare le modalità del delitto? Se l’assassino o gli assassini furono diversi da Carolei è possibile ammettere che essi dovevano conoscere l’ubicazione degli ambienti, le abitudini di Natale Urrico, essendo difficile ammettere che si siano avventurati alla cieca nella esecuzione della triste impresa. Ed è possibile che entrando abbiano avvistato la scure e che abbiano usato quella e non altra di loro pertinenza, come è possibile che, se se furono due o più gli assassini, abbiano colpito con le proprie armi e con la scure della vittima. Chi può escluderlo? Forse che furono fatte indagini dirette ad accertare se le numerose ferite furono prodotte da una o più armi da taglio? Vi furono undici ferite della lunghezza variabile da due a dodici centimetri. Doveva sorgere il bisogno di domandare al perito se una o più furono le armi usate, data la variabilità di lunghezza delle ferite e bisognava invitarlo a raffrontarle con la scure trovata insanguinata! Può anche darsi che il perito avrebbe indicato ragioni da escludere la pluralità di armi o che non era in condizioni di determinarlo. Comunque si sarebbe avuto un elemento in più di giudizio, che ora manca. La scure della vittima fu necessariamente impugnata dall’assassino, che su di essa ha dovuto lasciare le impronte delle sue mani, probabilmente macchiate del sangue della vittima e non si sentì il bisogno di far compiere l’esame delle impronte digitali di Carolei! Niente fu tentato al riguardo! Dunque l’assunto dell’accusa si dilegua.
Prima di terminare, la Corte ritorna sulle ferite riscontrate sull’imputato. Chi gliele produsse? Il Pubblico Ministero fa intendere, con rapida e significativa mimica della testa, che Carolei si auto ferì battendo contro un muro prima con l’occipite e poi con i due parietali. Quando? Prima o dopo che si legasse? Il Pubblico Ministero non lo disse. Sui muri fu trovato sangue? Non fu indagato al riguardo. Onde questa ipotesi resta allo stadio di supposizione. E la lesione all’occhio chi gliela produsse? Si può supporre che sia stata la vittima nel tentativo di difendersi? È possibile, per quanto si possa dire che lotta non vi fu perché è strano che nella lotta Carolei non riporti graffiature sulla persona, sulle mani. E forse lotta non vi fu perché le undici ferite riportate dalla vittima sono tutte situate alla parte posteriore del corpo, il che fa supporre che egli fu aggredito alle spalle, ma non si può escluderla a priori. Ma è ugualmente supponibile che l’ecchimosi sia stata prodotta a Carolei dall’aggressore, che lo avrebbe ferito anche alla testa e gli avrebbe vibrato il pugno al viso, donde il sangue di cui parlò l’imputato.
Durante l’istruttoria tutti concorsero a distruggere gli elementi migliori che avrebbero potuto deporre sulla responsabilità del colpevole; tutto fu trascurato perché tutti erano sotto la prevenzione che Carolei era stato raggiunto da prova inconfutabile, prova che, al soffio della critica più elementare, si è sciolta come neve al sole. Al cospetto delle deficienze e degli errori compiuti in periodo istruttorio, la Corte non può che dubitare della responsabilità del giudicabile ed assolverlo per insufficienza di prove e ordina la scarcerazione di Francesco Carolei, se non detenuto per altra causa.[1]
È il 16 luglio 1941 e in Montenegro il Comando militare italiano inizia la feroce repressione contro gli insorti.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.