L’IGNOBILE PRIVILEGIO

La sera del 17 luglio 1945 fa caldo in contrada Calliano di San Demetrio Corone ed il sessantunenne Demetrio Micieli, data la buonanotte a sua moglie Concetta, alla ventunenne Maria Scarpelli che abita con loro da parecchi anni ed a Michele De Marco, ventunenne macellaio di Cosenza e prossimo sposo di Maria, per stare più fresco va a dormire sotto un ulivo vicino a casa, ma le zanzare cominciano subito a tormentarlo e l’uomo si copre la testa col suo mantello.

Quando al sorgere del sole, la mattina dopo, Concetta si sveglia e non sente i soliti rumori in casa, comincia ad innervosirsi e va a svegliare Maria per rimproverarla di non essere già andata a governare gli animali. Ma Maria non c’è e non c’è nemmeno Michele, che sarebbe dovuto andare in città per sbrigare le ultime carte matrimoniali. E non c’è nemmeno suo marito, “che gli venga un colpo a quel dormiglione!”, così esce per andare a svegliarlo. Si, è ancora sotto l’ulivo, ma non si sveglia né con i richiami e né con del calcetti ai piedi. Poi Concetta nota qualcosa di strano: tre tagli sul mantello in corrispondenza della testa. Si avvicina ancora e inorridisce: quei tre tagli sono imbrattati di sangue e di una sostanza grigiastra. Prende da terra un pezzo di legno, solleva il mantello e non può fare a meno di urlare alla vista dello scempio che le si presenta alla vista. Demetrio ha il cranio sfracellato dal quale è fuoriuscita buona parte della materia cerebrale. Ma la cosa che più la terrorizza è il fatto che suo marito, nonostante tutto, respiri ancora. Corre a casa, chiama Maria, poi si accorge che manca sia la roba della ragazza che quella del fidanzato e capisce. Intanto alle sue urla sono accorsi alcuni vicini e sono loro che corrono in paese ad avvisare i Carabinieri e a chiamare un medico.

Ovviamente non ci sono speranze che Demetrio possa riprendersi dal coma profondo in cui si trova e bisognerà capire quanto tempo resisterà il cuore prima che si fermi naturalmente. Intanto i Carabinieri cominciano le indagini ascoltando il racconto di Concetta, che porta alla luce una realtà drammatica che lascia tutti sconcertati:

– Sicuramente sono stati Maria e Michele, visto che sono scappati e, oltre alla loro roba hanno portato via anche il fucile e una scure di mio marito.

– Ma perché lo avrebbero ammazzato in questo modo barbaro?

– Dovete sapere che mio marito mi ha sempre costretta a subire, per il suo carattere prepotente e violento, la gravissima offesa di tenere nella nostra casa coniugale più di una sua amante. L’ultima della serie è stata una certa Immacolata Scarpelli, donna sfornita di ogni senso morale al punto che, avendo mio marito durante il concubinato con essa posto gli occhi bramosi anche sulla figliuola minorenne di quella donna, cioè Maria, non ebbe ritegno a portarcela in casa e ne istigò ed agevolò la prostituzione per servire alla libidine di mio marito, che la deflorò mentre era ancora tredicenne e continuò poi nei rapporti carnali, tenendola in casa. Io denunziai mio marito per violenza carnale ai danni della tredicenne e Immacolata per istigazione aggravata alla prostituzione. Nei primi giorni del 1940 il Tribunale condannò mio marito a cinque anni di reclusione e Immacolata a due anni. Espiata la pena, mio marito perseverò nella sua vita dedita al vizio e riuscì a convincere Maria a ritornare a casa nostra. Si iniziò, in tal modo, un nuovo stato di concubinato, tollerato forzatamente da me per le minacce di morte che il mio disumano marito mi andava ripetendo. Siffatto, anormale stato di cose si protrasse per oltre un anno, allorché nel passato mese di giugno capitò qui, per ragioni della sua attività di macellaio, il giovane Michele De Marco, il quale ebbe modo di vedere Maria e di invaghirsene al punto che, ritornato dopo due giorni, le propose di sposarla. Maria ebbe cura di avvisare Michele che essa era l’amante del padrone di casa, il quale da molti anni abusava di lei e che per questo necessitava il consenso del padrone. A questa rivelazione, Michele, credendo nel ravvedimento di Maria che mostrava di desiderare la cessazione della sua immorale situazione, ancora di più si accese di amore per la ragazza, mosso oltretutto dalla volontà di concorrere nella redenzione di lei. Così parlò con mio marito per ottenerne il consentimento al matrimonio e mio marito glielo diede, alla condizione che senz’altro, in attesa che fossero approntati i necessari documenti per il matrimonio, Michele alloggiasse in casa nostra. Il giovane aderì e si dette all’apprestamento dei documenti, recandosi più volte a Cosenza – Concetta si ferma un attimo per asciugare il sudore che le imperla la fronte e bere un bicchiere d’acqua, poi continua –. La fiducia piena che Michele aveva in Maria non gli fece sorgere verun sospetto in ordine alla non consueta condizione chiesta dal vecchio, tuttavia Maria, in occasione dell’allontanamento del fidanzato per recarsi a Cosenza, più di una volta ebbe a pregarlo di non allontanarsi se non quando fossi stata presente io in casa. Gli disse anche di avere paura di mio marito quando Michele non c’era, ma lui non sospettò che mio marito, in mia assenza, potesse percuotere o maltrattare la ragazza. Fu soltanto dopo il ritorno da una gita compiuta da mio marito in località Ogliastrello, dove aveva un piccolo fondo, che Maria confessò chiaramente che la gita era stata decisa nella previsione, poi verificatasi, che Michele si fosse recato a Cosenza e permettere così a mio marito di possedere carnalmente la ragazza. Possesso che, anzi, si era già verificato in occasione dei precedenti allontanamenti di Michele. Maria gli disse che aveva dovuto prestarsi alle voglie di mio marito in quanto l’aveva minacciata di morte con un coltello. A questa rivelazione, Michele redarguì aspramente Maria per avergli taciuto il fatto che anche dopo il fidanzamento si ripetevano i contatti carnali, poi manifestò a mio marito il proprio intendimento di rompere il fidanzamento, al che mio marito gli espresse la propria meraviglia dicendogli testualmente: “E tu non lo sapevi che le cose stavano così?”, riconoscendo in tal modo che aveva continuato ed intendeva continuare a possedere la ragazza. Comunque, sul momento aderì alla rottura del fidanzamento e ordinò a Maria di preparare le robe del macellaio per la concordata partenza. Senonché dopo poco cambiò avviso ed intimò a Michele di restare e di sposare Maria e ciò fece sotto minaccia di morte. Il macellaio, impaurito, non seppe opporsi. Tutto ciò avveniva ieri sera, 17 luglio.

– Come fate a sapere tutte queste cose?

Le ho apprese da Maria, da me opportunamente interrogata avendola notata afflitta e piangente

Il racconto sembra inverosimile, ma da una veloce indagine incrociata fatta dai Carabinieri nel loro archivio e da quello che risulta dal casellario giudiziale del tribunale di Rossano, gli inquirenti si convincono della veridicità di ciò che ha raccontato Concetta. Infatti risulta che Demetrio Micieli riportò, negli anni, più condanne per atti osceni, ratto, violenza carnale e adulterio, dimostrando la sua particolare tendenza ai reati contro il buon costume e contro il matrimonio.

L’anziano muore il 22 luglio, mentre Maria e Michele si costituiscono il 30 successivo, confermando, parola per parola il racconto fatto dalla moglie della vittima. Poi Michele si assume tutta la responsabilità del delitto, ma il suo racconto non convince gli inquirenti:

– Sono stato io ad ammazzarlo, ma l’ho fatto per legittima difesa. Vi spiego come andarono i fatti: Micieli, nel coricarsi all’aperto nei pressi della sua casa, non solo volle che mi coricassi vicino a lui, ma pose nelle immediate vicinanze del suo giaciglio un affilato coltello ed un fucile, dimostrando, dall’atteggiamento che potei spiare, di attendere che mi addormentassi per aggredirmi ed uccidermi… appena ne ho avuta l’occasione l’ho anticipato…

A contraddirlo, secondo gli inquirenti, ci sono due circostanze. La prima è che è stato accertato che Micieli fu aggredito mentre era immerso nel sonno in posizione bocconi e col capo coperto dal proprio mantello, come attestano i tagli presenti sul mantello stesso, esattamente corrispondenti ai tre colpi di scure vibratigli con inaudita violenza; la seconda deriva da una considerazione logica: se Micieli, armato di coltello e fucile, davvero gli ordinò di coricarsi accanto a lui, come e dove ha preso la scure? Potrebbe avergliela portata Maria. Per questo viene chiesto il rinvio a giudizio dei due fidanzati per rispondere di omicidio aggravato dalle circostanze di tempo e di luogo che hanno impedito la privata difesa della vittima. Il 23 novembre 1946, il Giudice Istruttore presso il Tribunale di Rossano, però non ritiene sufficientemente provata la responsabilità di Maria Scarpelli e la proscioglie. Ad affrontare il processo davanti alla Corte di Assise di Rossano sarà, il 6 febbraio 1948, solo Michele De Marco.

Accertati i fatti, la Corte deve portare la sua indagine in ordine all’apprezzamento dell’azione svolta dall’imputato la notte dal 17 al 18 luglio 1945, in conseguenza della quale egli determinò la morte di Demetrio Micieli. Si osserva, innanzi tutto, non degna di fede la versione che dà De Marco a giustificazione del fatto commesso, diretta a porre in essere uno stato di supposta legittima difesa. Era prevedibile. Quindi, continua la Corte, è che nella specie deve affermarsi l’aggravante contestata di aver tolto alla vittima ogni possibilità di difesa. Tuttavia la Corte stima dovere applicare a favore del prevenuto varie circostanze attenuanti. La prima deriva dal fatto di non potersi contestare che De Marco fu spinto a compiere l’omicidio da motivo di particolare valore morale, quale era quello di sottrarre Maria Scarpelli, caduta per inesperienza della tenera età nel potere dispotico del violento e dissoluto Demetrio Micieli e tenuta da costui col terrore in uno stato di avvilente soggezione; sottrazione, inoltre, che egli intendeva perfezionare e nobilitare, ai fini della riabilitazione e della redenzione di quella disgraziata giovane, col susseguente matrimonio. E la prova dell’onestà della intenzione di De Marco è data dall’essere risultato che stava affrettandosi nel provvedersi di tutti i documenti e certificati necessari per la celebrazione del matrimonio. Altra attenuante che non può essere disconosciuta a favore dell’imputato, è quella che il delitto fu da lui commesso sotto la reazione di uno stato d’ira e dolore determinato dal comportamento prepotente ed immorale della vittima, la quale avrebbe preteso di costringere alle nozze il giovane De Marco, pur mantenendo a sé stesso l’ignobile privilegio di continuare ad avere lussuriosi rapporti con la futura moglie del giudicabile sotto minaccia di morte, in caso di opposizione del giudicabile a siffatto anomalo stato di cose. Altra attenuante, infine, che stima la Corte di dovere concedere all’imputato è quella derivante dalla sua giovanissima età e dei suoi incensurati precedenti.

Ma, ai fini del giudizio, c’è sempre il macigno della pesante aggravante che la Corte ha contestato a De Marco e che potrebbe vanificare i benefici delle attenuanti concesse. A questo proposito, la Corte sbriga la questione con poche parole: stimasi ritenere la prevalenza delle attenuanti sulla circostanza aggravante contestata.

Il risultato è evidente perché, partendo dal minimo della pena, stabilita in 21 anni di reclusione, si può addivenire, in concreto, all’applicazione di un quarto e cioè di anni 5 e mesi 3 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

La Corte di Appello di Catanzaro, il 9 marzo 1950, condona a Michele De Marco 3 anni della pena inflittagli[1], risparmiandogli gli ultimi 9 mesi di carcere.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte di Assise di Rossano.