CARMELA, LA SOPRAVVISSUTA

Francesco Granata da Corigliano Calabro è un giovanotto che ama rubare e, più in generale, delinquere, ubriacarsi, vagabondare, fare il prepotente e sedurre giovanette. La sua famiglia di provenienza, onesta e benestante, non intende in alcun modo coprire le sue malefatte sporcando il proprio buon nome e per questo viene cacciato di casa. Quando nel 1945 ha appena compiuto vent’anni, seduce la sua coetanea Carmela Viola ed è costretto, suo malgrado, a sposarla perché è incinta.

Accolto nell’unico, modestissimo locale abitato da sua moglie e sua suocera Giuseppina Perri, fin dai primi giorni del matrimonio coatto incomincia a sottoporre Carmela alle asprezze del suo temperamento di ladro e di violento davanti agli occhi dell’inerme suocera, rendendola testimone delle sue irruenze quotidiane, occasionate dalle vane esortazioni al lavoro, alla desistenza dal ladrocinio, all’abbandono delle compagnie malfamate.

Carmela continua a nutrire la speranza nel ravvedimento del marito con la pertinacia ispiratale dalla propria irresponsabilità, sebbene sia incinta ed esposta ad umilianti somministrazioni di botte per le frequenti ecchimosi al volto.

Le cose non cambiano nemmeno quando nasce il loro bambino e la condotta di Francesco suscita le frequenti proteste da parte dei vicini, costretti spesso ad intervenire per la protezione della giovane madre contro le sempre più brutali malvagità del marito delinquente.

Le cose vanno sempre peggio e nei primi mesi del 1947 Francesco arriva a puntare un coltello alla gola di Carmela che, fortunatamente, riesce a liberarsi dalla stretta del marito ed a rifugiarsi in casa di una zia. Ma Francesco è veramente deciso a farla finita e, raggiunta quella casa, solo le insistenti preghiere dell’anziana affinché le consegni il coltello prima di aprirgli la porta evitano la tragedia. Una volta dentro, però, si abbandona ad un’aggressione selvaggia contro Carmela, che tempesta di schiaffi, pugni e calci, poi se la riporta a casa trascinandola come un sacco.

Nei mesi successivi Carmela continua imperterrita a prendere botte e ad esortare il marito a cambiare strada, spinta anche dal bisogno di escludere dall’animo dei conoscenti ogni presunzione di una sua connivenza nell’attività criminale del marito, che potrebbe benissimo apparire dalla notorietà delle ruberie e di cui qualcuno ha già cominciato a parlare.

Poi accade che Francesco deve affrontare, uno dopo l’altro, due processi: il primo, per furto, fissato per la fine di giugno 1947 davanti al Tribunale di Rossano e l’altro, in tempo non ancora precisato, davanti alla Corte d’Appello di Lecce, che dovrà esaminare il ricorso presentato in seguito alla condanna per furto a 10 mesi e mille lire di multa, comminatagli dal Tribunale di Taranto. La prospettiva di affrontare le spese relative ai due processi e le spiegabili insofferenze di moglie e suocera non fanno altro che aggravare i disagi familiari e turbare l’insanabile tendenza all’ozio e i progetti delle nuove attività criminose del giovinastro.

Al culmine della disperazione, Carmela esterna a Francesco l’idea che sarebbe meglio separarsi perché davvero non ne può più di quella vita. Ma, stranamente, il comportamento del marito sembra cambiare e comincia a proporre a Carmela di fare una visita, del tutto inopportuna viste le ristrettezze in cui vivono, ad alcuni suoi parenti, genericamente indicati, che vivono a San Giacomo d’Acri. Come andarci? A piedi, ovviamente, affrontando un lungo percorso tra i boschi.

– Magari ci regalano qualcosa – azzarda Francesco.

– Dovremmo noi portargli qualcosa in dono… – risponde Carmela, perplessa da questo nuovo modo di fare del marito, non consono all’indole e ai rapporti del prepotente.

– Ma che doni e doni! Li andiamo a trovare e basta, se ci regalano qualcosa, bene, altrimenti ce ne torniamo come siamo andati!

La suocera, ammaestrata dall’abbandono del marito, è assalita da tristi presagi, che non ha difficoltà a riferire a sua figlia, già sgomenta per il tragitto attraverso contrade sconosciute in attitudine di mendicanti, senza alcuno dei più modesti doni.

La cosa più sorprendente è che Francesco sembra aver messo davvero la testa a posto perché il 19 giugno trova lavoro alle dipendenze dell’ingegner Camillo Toscano, nella risaia della contrada Stombi, in territorio di Cassano Ionio.

Sembra, appunto, perché verso il mezzogiorno del 23 giugno abbandona il lavoro accusando l’insorgenza di una febbre malarica, ma appare subito chiaro che si tratta di una messa in scena, messa in atto per rubare un paio di scarpe nuove e un paio di calze del valore di quattromila lire in danno di Vincenzo Forciniti, collaboratore dell’ingegnere e coabitante nella stessa baracca dove si è sistemato Francesco. Non solo: prima di lasciare la risaia ruba anche un pullover del valore di tremila lire e una camicia ad Antonio Stumpo, cognato del primo derubato, anch’egli coabitante nella stessa baracca.

Il ladro ha anche la faccia tosta di ritornare, qualche giorno dopo, nella baracca in tenuta ladresca per tentare di sgraffignare qualche altra cosa, ma viene sorpreso e ne nasce un putiferio. Riesce a scappare, inseguito da Antonio Stumpo e riesce ad arrivare a casa, a nascondere le scarpe sotto un canterano e a sparire qualche istante prima che irrompa Stumpo.

La suocera, che ha visto dove ha nascosto la refurtiva, la restituisce immediatamente ed il mattino successivo, rientrato a casa, Francesco non trovando le scarpe e, vedendo scompigliate le prossime difese in Rossano e in Lecce, tormenta le due povere donne ormai colpevoli, secondo la sua opinione, di un aggrovigliamento delle sue pendenze giudiziarie.

– Mò vai e mi riporti le scarpe! – ordina a Carmela, che ovviamente rifiuta di compiere un’azione inattuabile e questo rifiuto non fa altro che acuire l’odio del marito contro di lei, “guastatrice” di ogni sua impresa.

Ma la notte Francesco sembra essersi calmato e, con le sue blandizie, ricomincia a parlare della necessità di andare a trovare i parenti. Questa volta Carmela cede e la mattina, dopo che Francesco ha raccolto le provviste per una colazione, verso le 7,00 si mettono in cammino e lui assume un atteggiamento romantico, conducendo per mano la sposa, fornita di un soprabito. Poi le rende agevole la salita delle colline e delle zone frequentate dai coloni ma, superati gli ultimi casolari, dove comprano due uova in aggiunta al cacio comprato a Corigliano, l’itinerario non appare più normale a Carmela. Com’è strano il romantico invito a un congresso carnale nel folto di un bosco, che Francesco sia davvero cambiato? Le sue apprensioni, aumentate col progressivo allontanamento dalle zone abitate, si acquietano e si abbandona tra le braccia del marito sul letto di foglie preparato apposta per lei.

Alla chiusura dell’idilliaca parentesi, avveratasi con la depressione propria delle affettazioni intime, si associano le ricorrenze ammonitorie della donna:

– Adesso promettimi che cambi davvero vita, altrimenti è meglio lasciarci…

– E dove devi andare? chi ti vuole? Vulgivaga!

– Qualcuno che pensa a me c’è, stai tranquillo! – risponde, alludendo ai suoi parenti, che hanno già dovuto porre riparo alla diuturna mancanza di ogni risorsa.

Francesco sbuffa, ma la cosa sembra finire senza nessuna escandescenza per parte di alcuno dei due. Raccolta la roba rimasta per terra, sono pronti per riprendere la marcia, quando Francesco tira fuori dalla tasca una rivoltella. Carmela trasale pensando che voglia spararle contro qualche colpo, ma il marito, ridendo, le dice:

– Guarda quel tronco alla tua sinistra: adesso sparo due colpi e lo buco tutte e due le volte! – I due colpi partono e, in effetti, il tronco viene centrato entrambe le volte. Poi le dice – dai, comincia a camminare!

Carmela riprende il cammino in salita, due o tre passi in tutto, e viene colpita da tre proiettili alle spalle, sparati consecutivamente. Cade in ginocchio. Il marito le è davanti con l’arma ancora in mano. Lo guarda con terrore, poi gli dice mentre si abbassa per baciargli i piedi:

– Per pietà, non ammazzarmi…

La sua voglia, il suo bisogno di vivere le fa fare qualcosa di incredibile per una persona che ha una pallottola che le è entrata dall’ascella destra e le è uscita dalla mammella, un’altra entrata ed uscita vicino alla prima e l’ultima che le ha colpito il fegato. Con supremo sforzo si alza e afferra le mani del marito per baciargliele!

Ti perdono, non lo dirò a nessuno, ma tu promettimi di proteggere la nostra bambina

Francesco, forse convinto di poterla fare franca, accompagna la moglie verso un vicino ruscello, la fa spogliare e si preoccupa di lavare alla meglio i panni sporchi di sangue per impedire la scoperta di ogni traccia del disumano delitto, senza però tenere presente che sono forati e che Carmela, continuando a perdere sangue, li sporcherà in pochissimo tempo.

Poi, con infinita lentezza, tornano verso Corigliano. Incontrano alcune persone che, incuriositi dall’aspetto dolente di Carmela, li fermano per chiedere se avessero bisogno di aiuto.

Ha un accesso malarico – si affretta a dire il marito.

Continuano a camminare. Carmela è allo stremo, sta morendo dissanguata, ma la vista di una casa colonica è un toccasana e convince il marito a fermarsi per riposare un po’. In realtà Francesco non si ferma per consentire a Carmela di riposarsi, ma ha in mente di lasciarla lì e sparire. I due ragazzi che sono in casa l’accolgono generosamente e, credendo all’accesso malarico e alla promessa di Francesco che di lì a poco sarebbe tornato con un medico, la fanno accomodare su una sedia e le danno un bicchier d’acqua. Carmela, nonostante tutto, sta zitta e non dice una parola su ciò che ha patito e sta patendo, ma quando poco dopo passano due venditori ambulanti davanti alla casa, capendo che i due ragazzi non le possono essere d’aiuto, raccoglie le forze e li chiama:

Fratelli! – I due ambulanti accorrono e lei mente – Ho male al cuore…

Uno dei due ambulanti, Vincenzo Capalbo, le si avvicina e non ci mette che pochi secondi a capire che è stata gravemente ferita con colpi di arma da fuoco.

– Che è successo? Chi è stato? – le chiede con un tono che non ammette menzogne e Carmela, a questo punto, parla:

Mio marito mi ha sparato a tradimento! – poi racconta ai due l’inferno che ha attraversato. Capalbo e l’altro ambulante, Pasquale Altimari, caricano Carmela sul loro carretto e, mandando al diavolo il guadagno di quella giornata, la portano in ospedale a Corigliano, dove racconta tutto, così parte la caccia al marito.

Francesco Granata si costituisce qualche giorno dopo e, interrogato, spiega così quei tre colpi di rivoltella:

– Quando Carmela mi disse della separazione e della certezza di soccorso, io interpretai  quest’ultima frase come allusione all’esistenza di un amante, onde, per questa provocazione, reagii sparandole tre colpi di pistola con la precisa, inesorabile intenzione di ucciderla

– E dei maltrattamenti, delle botte, del mancato sostentamento e delle minacce di morte con armi che dici?

Escludo di avere mai maltrattato mia moglie, di averla minacciata con armi e di non aver provveduto al suo mantenimento.

– E dei furti ai danni di Forciniti e di Stumpo ne sai qualcosa?

– Si, sono stato io, ma quella roba mi era necessaria per un comodo ritorno a Corigliano

C’è poco da commentare, bisogna aspettare la conclusione delle indagini. Piuttosto, la cosa più importante è lo stato di salute di Carmela che, nonostante la ritenzione di un proiettile nel fegato, migliorano giorno dopo giorno e dopo poco più di due mesi può lasciare l’ospedale completamente guarita. È una sopravvissuta.

Il 12 giugno 1948, su richiesta della Procura Generale della Repubblica, Francesco Granata viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Rossano per rispondere di maltrattamenti, furto aggravato e tentato omicidio.

In udienza, l’imputato ammette le percosse dicendo:

La picchiavo nella frequenza dei litigi – “nella frequenza dei litigi”, un modo elegante, probabilmente suggeritogli, per evitare di pronunciare semplicemente l’avverbio “sempre”.

Ciò che sorprende, in contrasto con la schiettezza del racconto di Carmela su tutto quello che negli anni ha subito, è la reticenza di sua madre. La Corte censura questo comportamento e dice: La Perri, per tentativo di attenuazione della colpevolezza del genero, ha voluto convertire le esortazioni della figlia in frequenti sfoghi da “linguacciuta”. Brava!

A questo punto alla Corte non resta che esprimere il proprio convincimento in ordine ai reati contestati all’imputato: In ordine al furto aggravato, la prova è la stessa ammissione del prevenuto di non volere restituire gli oggetti rubati; Il tentativo di omicidio si è costellato di copiosi elementi dimostrativi della premeditazione nella forma più massiccia e della vera crudeltà con cui la cinica, ponderata, inesorabile intenzione di uccidere fu attuata mediante la reiterazione dello sparo contro il bersaglio prescelto nella zona vitale, “a tradimento”. In contrasto con recise, salde acquisizioni provenute da Perri Giuseppina, nonostante la manifesta volontà di indulgere, anche innanzi alla Corte, oltre i limiti del perdono della figlia. In contrasto con le affermazioni schiette di costei, Granata ha voluto negare la premeditazione contestatagli che, al contrario risponde a tutte le caratteristiche richieste dalla legge: freddezza e pacatezza d’animo, lungo intervallo di tempo tra il proposito e l’esecuzione, la scelta anticipata dei mezzi e la gravità dei motivi, segnata dallo sprofondamento di essi oltre il più basso gradino della depravazione; nessun dubbio sulla effettività dei maltrattamenti, ampiamente dimostrati anche attraverso le numerose testimonianze dei vicini di casa.

Accertata la responsabilità dell’imputato in ordine a tutti i reati contestatigli, la Corte passa a determinare l’entità della pena da infliggere, con larga mitezza: per il tentato uxoricidio premeditato la pena è fissata nel minimo: anni 12 di reclusione;  per i maltrattamenti anni 1 e mesi 4 di reclusione; per il furto aggravato mesi 4, più multa di lire millecinquecento.

Complessivamente Francesco Granata dovrà scontare 13 anni e 8 mesi di reclusione, oltre le pene accessorie e le spese. Danni non dovrà pagarne perché Carmela non ha voluto costituirsi parte civile.

È il 7 agosto 1948.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Rossano Calabro.