Sono da poco passate le 6,00 del 19 aprile 1886 e il fabbro Domenico Rota di Pedace è nella sua bottega sistemata nel basso di casa, sita in Via Barracche, dove lavora anche suo zio paterno Matteo, che è coltellinaio. Ha del lavoro da sbrigare ma non ne ha tanta voglia, così esce e urla alla moglie:
– Teresì, portami il piede di vaccino che ha comprato ieri Zu Matteo a Cosenza, così lo rompo e ci fai un po’ di brodo.
Teresina Leonetti ubbidisce, scende con una delle loro bambine e gli dà il piede di vaccino. Domenico lo mette su di una panchetta, comunemente chiamata “asinello” su cui lavorano i fabbricanti di coltelli, prende una scure e comincia a tirare tremendi colpi per spezzare l’osso, mentre Teresina, con la bambina sul braccio destro, lo guarda preoccupata e gli dice:
– Vai adagio se no ti fai male al braccio che tieni ammalato…
Domenico si ferma col braccio alzato, la guarda e, senza proferire parola, invece di continuare a colpire l’osso, comincia a colpire violentemente con l’ascia sua moglie che, colta di sorpresa fa appena in tempo a sollevare il braccio sinistro per ripararsi la testa, ma il colpo glielo spacca in due. Urla di dolore mentre la bambina piange terrorizzata a vedere l’ascia che si abbatte altre quattro volte sulla testa della mamma, che cade a terra tenendola ancora in braccio e rimanendo all’istante cadavere.
Domenico, senza dire una parola, si allontana con l’ascia che gocciola sangue e sparisce. La bambina intanto continua ad urlare e piangere disperatamente ed alle sue grida accorrono sua nonna Fortunata Falabella e molti vicini, che si trovano davanti l’orrendo spettacolo di quella testa fracassata e quasi irriconoscibile; pietosamente raccolgono la bambina e la portano via, poi raccolgono il corpo straziato di Teresina e lo portano in casa. Intanto qualcuno ha visto Domenico in fondo alla strada e cerca di raggiungerlo, ma ormai è troppo tardi, è troppo lontano.
La caserma dei Carabinieri è a poche decine di metri ed i militari arrivano immediatamente e altrettanto immediatamente si mettono alla ricerca del fabbro, ma di lui si sono già perse le tracce.
Nel frattempo è stato avvisato il Pretore di Spezzano Sila, che arriva col medico legale dopo un paio di ore.
Il medico legale verbalizza l’orrore: Nella regione sinistra del cranio, del collo e della faccia, tre ferite da taglio. La prima, e superiore, si estende dal lato esterno dell’osso della fronte fino alla metà dell’osso occipitale, lunga sedici centimetri in linea orizzontale, penetrante in cavità con fuoriuscita della massa cerebrale. La seconda, e media, dall’angolo esterno sinistro dell’orbita, si estende fino all’articolazione temporale-mascellare, lunga dieci centimetri, diretta da sopra in sotto, davanti in dietro, pure penetrante in cavità. La terza, inferiore, si estende dall’articolazione temporale-mascellare sinistra fino al limite inferiore del collo, lunga dieci centimetri, profonda cinque, da raggiungere fino alla metà del corpo delle vertebre cervicali. Nella parte destra della faccia si osserva, altresì, una ferita che si estende dallo zigomo fino all’articolazione temporale-mascellare, lunga sette centimetri e profonda due.
Ma perché, all’improvviso, si è scatenata quella furia bestiale? È questa la domanda a cui gli inquirenti dovranno dare risposta.
– È a mia conoscenza – racconta Domenico Leonetti, il fratello di Teresina – il gusto brutale della famiglia Rota e particolarmente dell’uccisore di mia sorella – che ancora non mi è riuscito raggiungere – il quale per un nonnulla, e spesso anche per semplice istinto malvagio, non lasciava di maltrattare quell’infelice, menandole contro ciò che si trovava in mano. Mia madre, Fortunata Falabella, me ne ha avvertito diverse volte perché io avessi redarguito il Rota, ma io credendole pettegolezzi e cose di poco momento, non credetti d’intervenire fra marito e moglie… – poi si ferma un attimo e rivela qualcosa di inaudito – in agosto scorso seppi pure che diede uno schiaffo sì fiero alla propria figlia di dieci anni, tanto da farla cadere tramortita per terra e non so se cessò di vivere all’istante o poco dopo, ma è certezza che morì di quella percossa. Non fu denunziato il fatto alla giustizia, ma si disse ch’era morta di un foruncolo tristo. Anche alla mia povera sorella, tempo fa, toccò una percossa che le ruppe un sopracciglio e fu medicata con tinta di padella, di modo che se si guardava nel punto offeso, se ne vedeva ancora la cicatrice nera.
Poi racconta di altre percosse, colpi di scure inflitti a persone che, per un motivo o per l’altro, erano entrati in contrasto con Domenico Rota. Anche i vicini raccontano di percosse e maltrattamenti, ma ormai è troppo tardi, Teresina è morta e tutti avrebbero potuto e dovuto fare qualcosa per fermare l’assassino.
Mentre le ricerche di Domenico Rota vanno avanti infruttuosamente, è lui che si presenta spontaneamente il 22 aprile dai Carabinieri di Spezzano Sila, ai quali appare frastornato.
– Sapete di cosa siete accusato? Sapete perché vi siete costituito?
– Non lo so dire, vi fu uno che mi ha trovato e che non conosco e mi ha condotto innanzi al Sindaco e poi venne il Delegato di Pubblica Sicurezza…
– Perché vi siete allontanato da Pedace?
– Non so dirlo, non lo ricordo…
– Avete parenti a Pedace?
– Si, voi li conoscete perché sono venuti qui.
– Ma quali sono propriamente?
– Ci sono i piccirilli figli miei.
– Con chi li avete fatti questi piccirilli?
– Colla madre.
– La madre non vi è…
– Sicuro che vi è.
– Ma la madre era vostra moglie?
– Si.
– Ma sapete che è morta?
– No, non me lo ha detto nessuno…
– Voi avete ucciso vostra moglie, dite per quale motivo.
– E perché la dovevo uccidere? (con indifferenza).
– Pare dunque che non vi dispiace che è morta vostra moglie.
– Mi dispiace di quello che sto soffrendo alla testa.
– Per quale motivo avete ucciso vostra moglie?
– Non vi era alcun motivo, non mi ha fatto niente.
– E perché allora l’avete uccisa?
– Io di questa cosa non ne so niente, me lo dite voi questa mattina, ma io non so niente, mi inquietate tanto che piuttosto sbatterei la testa per terra.
– Dunque non volete fare nessuna confessione alla giustizia?
– E che confessione ho da fare?
– Mi han detto che volete fingere di essere pazzo.
– E dov’è questa pazzia? Io non sono pazzo, si conosce quando uno è pazzo!
Un osso durissimo. Non sarà facile farlo parlare, pensano gli inquirenti, ritenendo che stia simulando una smemorataggine o alienazione mentale e qualche suo vicino lo vorrebbe far credere, come si intenderebbe di presentare il fatto avvenuto senza causale, quindi potrebbe anche essere possibile che qualcuno gli abbia consigliato di fingersi pazzo. Intanto lo arrestano con l’accusa di omicidio premeditato del proprio coniuge perché ritengono che covava un odio profondo contro la moglie ed aveva nella sua mente già formato il disegno di disfarsene e da molti giorni cominciò a fingersi ammalato anche di mente per farsi testimoni, quindi l’orribile carneficina consumata con fredda ferocia, la fuga immediata, la susseguente costituzione volontaria con la mal simulata ed affettata alienazione mentale. Tutto perfetto, ma manca un particolare: il movente. Perché covava un odio così profondo da fargli premeditare l’uxoricidio?
Forse una chiave di lettura può darla Fortunata Falabella, la madre di Teresina:
– Il fatto vero dell’assassinio lo conosce Giovanni Leonetti, alias Ferretti, che lo confidò al signor Ferdinando Morrone e cioè: Domenico Rota disse a Leonetti che dopo aver rotto il piede di vaccino doveva partire per Spezzano ove aveva una causa civile con Morrone. Teresina rimproverò il marito per il dispendio che produceva alla famiglia colla causa e Rota, infuriato, le diede il primo colpo al braccio e poscia gli altri sul capo. La vittima giunse a salvare colla sua morte il proprio figlio. Quando Rota scappò prese la strada per il mulino che confina con fondo del signor Morrone. Il prendere quella strada mostra la volontà determinata del Rota di uccidere anche il signor Morrone, causa innocente della morte dell’infelice Teresina.
Vedremo. Intanto Domenico Rota, nuovamente interrogato, continua a dire che non sa niente, che non ricorda niente e allora, per fugare ogni dubbio, viene ordinata una perizia psichiatrica, affidata ai dottori cosentini Pasquale Rebecchi e Francesco Perris, i quali, il 16 gennaio 1887 consegnano i risultati della perizia al Giudice Istruttore:
Risulta che Domenico Rota, quando commise il crimine, non godeva del pieno uso della ragione: egli era infermo di mania acuta impulsiva con fenomeni di allucinazione, della quale aveva cominciato a patire poco tempo prima e della quale ha continuato a soffrire per molto tempo dopo dell’uxoricidio e mostra tuttora delle tracce rimarchevoli sia nella smemorataggine, sia nella ideazione etc etc.
Egli perciò va classificato fra coloro, cui riguarda l’articolo 49 del Codice Penale in forza del quale vuol’essere considerato inimputabile dell’azione criminosa commessa. Siccome però il morbo mentale sussiste tuttavia, sebbene di molto scemato, così noi crediamo che, a tutela della società, e finché sia del tutto guarito, debba dalle carceri, ove attualmente è rinchiuso, venire tradotto in un manicomio o in una casa di custodia.
Beh, è una sorpresa, ma se le cose stanno così non resta altro che prenderne atto e procedere come suggerito dai periti. Nemmeno una settimana dopo la Camera di Consiglio dichiara il non farsi luogo a procedimento nei confronti di Domenico Rota per inesistenza del reato ascrittogli ed ordina che sia rimesso in libertà, senza tuttavia fare accenno alla opportunità, suggerita dai periti, di disporne il ricovero in un manicomio o in una casa di custodia.
Tutto risolto, Domenico ha ragione quando dice di non ricordare niente, di non sapere niente e siccome è incapace non può rispondere di qualcosa di cui non si rende conto di aver fatto, è giusto così.
Ma non è risolto un bel niente perché il Procuratore Generale del re, il 5 febbraio 1887, presenta appello contro la sentenza della Camera di Consiglio, ravvisando una contraddizione nella parte terminale della perizia psichiatrica e spiega: mentre si dice che il Rota quando commise il crimine non godeva del pieno uso della ragione, in seguito si afferma che dev’essere scagionato del reato commesso perché inimputabile ai termini dell’art. 94 del C.P.
Per questo chiede che sia revocata la sentenza appellata e che a togliere siffatta contradizione ed a meglio stabilire lo stato di mente in questione, è d’uopo di altro giudizio e dopo che il Rota stesso sarà tenuto in esperimento in un manicomio. Insomma ci vuole una perizia fatta da specialisti e non da semplici medici cerusici.
La Sezione d’Accusa ritiene fondato il ricorso e annulla la sentenza ordinando una nuova perizia.
Viene scelto il manicomio di Nocera Inferiore, dove Domenico Rota entra il 25 aprile 1887 per restarci dieci mesi esatti sotto l’occhio attento dei dottori Domenico Ventra e Raffaele Canger, i quali preliminarmente chiedono una quantità di notizie anamnestiche relative al periziando ed in attesa di riceverle, cominciano l’osservazione del paziente, che continua a dire di non aver fatto niente e di non ricordare niente. Poi il 17 giugno accade qualcosa di totalmente inaspettato, ma che in fondo tutti speravano che accadesse: Domenico, uscendo dal suo abituale riserbo, rivela convulsamente la causa che, vera o parto di mente inferma, lo spinse all’atto delittuoso, confessando anche che fino ad allora ha simulato la completa amnesia di tutto l’avvenimento!
– Non so precisare l’epoca, ma certamente nel torno di tempo in cui si svolgeva la causa con Ferdinando Morrone, che mi aveva messo in grandi disturbi, cominciò a sorgermi il sospetto che mia moglie se la intendesse con Battista Leonetti perché doveva andare spesso a casa sua per fare il pane. Leonetti è vedovo, sotto i quarant’anni, con quattro figli ed aveva sposato una parente di Teresina. Non è uno “spezzacollo” ma va in traccia alla donne. Io ho cominciato ad accorgermi che Battista passeggiava spesso per la strada detta Acqua di Riuni da dove si vedono le mie finestre; fingendo di andare in campagna, mi sono accorto che l’uno passeggiava e l’altra, mia moglie, stava alla finestra a guardarlo. Molti altri fatti fecero crescere in me il sospetto. Una volta entrò in casa mia con la massima confidenza e si sedette al focolare con mia moglie, però io gli fui subito dietro e lui nel vedermi se ne entrò nella stanza attigua, ove stava poco bene mio fratello. Un’altra volta la mia bambina mi avvertì che Battista si era avvicinato alla porta per domandare dove io ero andato e quanto tempo sarei stato fuori casa. Un giorno, stando io dentro, Battista si fece a domandare se io ero uscito ed io feci rispondere di si, però un momento dopo ho voluto passare davanti a lui, che stava in strada, e non ha dato segno d’aver bisogno di me. Dopo altri fatti, messi in riscontro ad una non solita indifferenza di mia moglie verso di me, le ho impedito di andare a cuocere il pane nel forno di Battista. Intanto mi sentivo sconvolto e oppresso, straziato dall’onta che si faceva al mio onore… – poi racconta di due scatti d’ira simili tra loro – alla domanda di mia suocere come mi sentissi, sono scattato non potendone più e ho risposto: “Io non mi fido stare più sotto questo pensiero che mi opprime notte e giorno, essendomi accorto con certezza che vostra figlia, quantunque non abbia bisogno, offende il mio onore tenendo una relazione con Battista Leonetti!” – poi continua – la mattina che ho ammazzato Teresina, dopo aver dato una mano ad un parente per caricare della roba sopra un carro, ho bevuto due bicchierini di rum, che finirono di sconvolgere la mia testa. Tornato a casa, Teresina mi disse che voleva farmi un brodo con un piede di vaccino portato da mio zio. Io, che mi bolliva altro nella testa, ho risposto che non avevo voglia di brodi e sono sceso in bottega, dove cominciai a voler lavorare qualche cosa, ma trovandomi senza voglia, non conclusi nulla. In questo tempo Teresina scese nella bottega e mi porse il piede per tagliuzzarlo ed io, a malincuore, mi misi all’opera. Ci fu qualche parola, il certo è che ricordo d’essere stato preso da un furore impossibile a descriversi, tanto che ho fatto a mia moglie quello che avrei dovuto fare al suo drudo ed oggi come allora, se mi pento di averlo fatto è perché ho rovinato me e la mia famiglia, non mica perché mia moglie non lo meritasse! Cercai di ammazzarmi battendomi fortemente con una pietra la tempia destra, ma il dolore e lo stordimento mi impedirono di compiere il proponimento… se avessi avuto un’arma mi sarei certamente ucciso.
– Ma perché avete simulato di non ricordare niente?
– Mi son trovato a dire così dal bel principio e mi mantenni nella stessa dizione, vuoi per non dover rivangare fatti compromettenti il mio onore, vuoi perché credevo di attenuare la mia responsabilità…
Tutto chiarito, avevano ragione gli inquirenti a credere alla simulazione di Domenico e adesso non resta che dimetterlo e fargli affrontare il processo. I periti, però, rileggendo e valutando attentamente il racconto di Domenico capiscono che qualcosa non quadra nonostante l’ammissione di aver simulato l’amnesia, così lo trattengono e vanno avanti per cercare di capire se la confessione sia genuina o il frutto di una mente malata o dovuta ad un puro calcolo difensivo per spostare l’attenzione sulla causa d’onore.
Passano altri mesi di indagine, poi il 24 febbraio 1888 Ventra e Canger presentano i risultati del loro lavoro, nel quale la confessione di Domenico non è presa in nessuna considerazione. Intanto ricostruiscono la sua storia personale ed esordiscono segnalando il peccato di origine del nostro Rota, il quale pare abbia raccolto i più tristi frutti della infausta eredità trasmessagli dai suoi antenati, poi sottolineano come, esercitando fin da bambino il mestiere di fabbro ferraio e coltellinaio, ha dovuto quotidianamente subire la nociva influenza del calorico raggiante e dell’ossido di carbonio proveniente dalla fucina a carboni. Non ha bevuto mai tanto da essere completamente ubriaco, ma quando era brillo diventava eccitabile ed attaccabrighe. Dal punto di vista sessuale usò con moderazione dell’onanismo, finché non ha cominciato a gustare della Venere, di cui, pare, abbia mai abusato, che anzi è sempre stato cauto e morigerato, tanto da rimanere immune da sifilide e da qualsiasi altro male venereo. Una volta sposatosi con Teresina, la pace familiare era cementata dall’affetto e dal vicendevole interesse di allevare i figli e migliorare il patrimonio domestico con l’onestà e col lavoro. L’indole eccitabile del marito veniva temperata dalla dolcezza dei modi della compagna e se qualche volta esplodeva momentaneamente per futili motivi, la cosa finiva là senza lasciare traccia di rancori. Onesto e laborioso, così lo definiscono tutti i paesani, ma anche sotto l’egida di tutte queste qualità, il perito scorge bene delineata l’indole indomita del calabrese silano, la facile accensione alla collera, che presto si spegne e la tendenza irresistibile a tradurre in atto le idee impulsive che non di rado si affacciavano alla sua mente.
Le cose procedevano per bene quando un malaugurato capriccio sorse in mezzo a conturbare e rompere il labile equilibrio della sua mente: da qualche anno Domenico si era ingaggiato in una lite con Ferdinando Morrone, in cui la esiguità dell’interesse veniva compensato dal puntiglio e dalla ostinatezza di voler credere sopruso ed ingiustizia tutto ciò che non è conforme al proprio talento. Il litigio venne, inaspettatamente, deciso con la condanna di Rota, ma l’ira giunse al colmo quando gli agenti fiscali recatisi in sua casa, potendogli sequestrare l’asino od altre masserizie, preferirono sequestrare la salciccia che aveva da poco confezionata. All’ingiustizia si univa l’oltraggio e lo scherno, così Domenico, infuriato, buttò a terra le salsicce, le pestò sotto i piedi e prese un bastone per aggredire gli agenti fiscali, che prudentemente si ritirarono, ritornando più tardi con i Carabinieri. Da quel giorno Domenico non ebbe più pace; sempre inquieto, non parlava che della causa, litigando con chiunque cercasse di dissuaderlo, di convincerlo che non valeva la pena ammalarsi per tanto poco. Questo incidente avveniva qualche mese prima dell’omicidio e le sue condizioni psichiche andarono peggiorando. Non dormiva, diceva di vedere persone che volevano rovinarlo, che cercavano di rubargli il vino. Mangiava poco e parlava da solo. Si lamentava di dolori di testa e di ambascia; era smemorato e disattento. Crescendo questi disturbi verso la metà di aprile (4 giorni pria dell’omicidio) si recò con la suocera dal dottor Ponte in Casole Bruzio. Questi ebbe un’impressione al tutto diversa di quella che gli aveva fatto altre volte: non era più una persona rispettosa, ma villana. Il dottor Ponte lo giudicò affetto da disturbo morale e gli ordinò la distrazione ed una pozione calmante. Poi l’esplosione.
Tutto questo porta i periti ad affermare preliminarmente che in Domenico Rota la ereditarietà morbosa per la linea materna si è esplicitata con profonde e numerose stimmate degenerative fisiche e psichiche e con l’epilessia sotto la forma pericolosa di accessi incompleti (assenze con aura sensoria). Poi segnalano altre concause come il calorico raggiante e l’ossido di carbonio a cui era quotidianamente esposto per ragione di mestiere, l’abuso del vino, il sequestro delle salsicce, che gli hanno causato insonnia, accessi d’ansia, paucofobia, dolori alla testa, ricordi lacunosi, eccessiva irritabilità e rappresentano l’equivalente della psico-epilessia. In queste condizioni, sotto l’effetto di due bicchierini di rum e la vista della carne del piede di vaccino sminuzzata, scattò istantaneo, automatico, incosciente il raptus omicida contro la povera moglie.
Detto questo, i periti diagnosticano che Domenico Rota soffre di epilessia ereditaria sotto forma di assenza epilettica con aura sensoria; di uno stato di psicopatia che appellasi equivalente psico-epilettico protratto, durato anche dopo la perpetrazione del crimine, commesso in un raptus epilettico, durante il quale l’individuo reagisce a tutte le eccitazioni fisiche e psichiche e non ha coscienza dei propri atti.
A questo punto la conclusione è logica: Domenico Rota deve essere giudicato irresponsabile dell’atto commesso. Una diversa interpretazione clinica dei sintomi rispetto alla prima perizia, ma lo stesso risultato.
Ma è pericoloso per sé stesso e per la società? Dovrà egli rimettersi in libertà? Dovrà rimanere per sempre in manicomio? Noi crediamo che la guarigione sia difficile, ma nello stato della scienza non possiamo dire assolutamente “non guarirà” o “non diventerà mai innocuo”. Sicché, continuando l’attuale miglioria di Domenico Rota, sotto appropriate cure in manicomio potrà venire il tempo in cui, con le debite cautele, lo si possa ridonare alla libertà.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.