È la sera dell’8 settembre 1941, Vincenzo Madera esce di casa per fare una passeggiata con alcuni amici ed andare da Mandatoriccio fin nel Comune di Mirto. Dopo poche decine di metri si ferma, si tasta le tasche, fa una smorfia e dice
– Aspettatemi un attimo, ho dimenticato il coltello a casa, vado e torno…
Vincenzo entra in casa, prende il coltello ed esce. Mentre si avvia verso il luogo ove i compagni lo attendono, vede un lampo a pochi metri da lui, contemporaneamente sente una detonazione ed il fischio del proiettile che fischia, senza colpirlo. Non ha nemmeno il tempo di capire che cosa gli stia accadendo ed ecco di nuovo un lampo, una detonazione ed il proiettile che fischia senza colpirlo nemmeno stavolta. Adesso si butta a terra e sente distintamente il frusciare dei cespugli ad una decina di metri da lui e passi affrettati che si allontanano nel buio. Frastornato e soprattutto terrorizzato dalla brutta avventura, corre a casa e si chiude dentro.
È la sera del 9 settembre 1941. Francesco Acri – Ciccio di poche parole, così lo chiamano per il suo carattere taciturno – torna a casa, a poca distanza da quella di suo cognato Vincenzo Madera, mangia qualcosa insieme a sua moglie, Maria Paletta, e a sua madre, poi va a letto, seguito subito da Maria, che comincia a stuzzicarlo, Ciccio non ne ha voglia ma hanno comunque un rapporto sessuale. Subito dopo sente che le forze gli mancano e gli passa per la testa un’idea assurda: è una stregoneria della moglie! Poi si addormenta e si sveglia verso l’alba, quando Maria si alza e gli dice che deve provvedere al governo del maiale.
– Tu non vai da nessuna parte! – le dice con tono categorico, fermandola sulla porta di casa
– E chi ci va?
– Tu no!
– Ma perché?
– Perché devi passare per la casa di Vincenzo!
Maria scrolla le spalle, è seccata, ma soprattutto umiliata, dall’assurda gelosia che da qualche tempo ossessiona Ciccio. Si sposta di qualche metro e si accovaccia a terra per soddisfare piccoli bisogni; Ciccio la segue con lo sguardo e nota delle manovre sulle parti delicate di lei, alle quali segue un insolito fetore. Ecco che ritorna quell’idea assurda della stregoneria: Maria si è strofinata qualcosa sulla vagina e lo ha avvelenato per spassarsela con il suo amante! Un’ondata di rabbia gli attraversa il cervello, la vista gli si annebbia. Sbuffa come un toro infuriato mentre si lancia su Maria che, incredula, cerca di ripararsi. Ciccio l’afferra per i capelli, la trascina in casa e la butta per terra. Poi prende il suo coltello a serramanico, lo apre, sa bene come e dove colpire per la sua esperienza di pastore, e le si avventa contro cominciando a colpirla selvaggiamente, mentre sua madre gli si butta addosso per cercare di fermarlo e urla
– Lasciala ché non ha fatto niente, per l’anima dei morti, lasciala!
Ma Ciccio è sordo a qualsiasi parola, anzi le urla della madre non fanno altro che imbestialirlo ancora di più, così si gira e la ferisce gravemente ad una mano, poi continua la sua opera su Maria e per poco non riesce a decapitarla, se sua madre non gli si fosse di nuovo buttata addosso facendolo cadere. Quando si rialza, Ciccio osserva lo scempio che ha fatto di sua moglie, vede sua madre sanguinante che, piangendo, abbraccia ed accarezza quel corpo straziato e scappa.
Non appena la notizia dell’orrendo delitto si sparge, Vincenzo Madera capisce che è stato suo cognato Ciccio a sparargli e va a denunciarlo. Ma Ciccio sembra essersi volatilizzato, almeno per qualche giorno, poi si costituisce e ammette tutto, anche di essere stato lui a sparare contro il cognato
– Mi era stato detto che costui era l’amante di mia moglie e intendevo sopprimerlo. Mi appostai nei pressi della sua casa e quando lo vidi sulla via gli sparai contro due colpi… con mia moglie ebbi un rapporto, sentii dopo che le forze mi mancavano e pensai ad un caso di stregoneria di mia moglie…
– Quindi l’hai massacrata per una diceria?
– I sospetti si impiantarono sul fatto che mia moglie, frequentemente, si recava in casa del cognato e furono alimentati dalla voce corsa in paese che lei fosse divenuta l’amante del cognato – adesso Ciccio non ha più freni e racconta anche ciò che accadeva in casa prima della strage –. Da qui litigi e percosse. Tutta questa situazione determinò in me instabilità nel lavoro. Dovevo permanere in montagna per il mio mestiere di pastore, ma rientravo spesso in paese per sorvegliare mia moglie…
– Racconta meglio cosa è successo poco prima del fatto
– Mia moglie mi sollecitò al congresso carnale, io in un primo momento rifiutai. Nelle primissime ore del mattino mia moglie si alzò per il governo del maiale. Glielo impedii perché avrebbe dovuto passare per la casa di Vincenzo. Dopo che mia moglie ha soddisfatto piccoli bisogni, notai delle manovre sulle parti delicate di lei, alle quali era conseguito un insolito fetore. Pensai di nuovo ad una stregoneria e al proposito di mia moglie di uccidermi. Affiorò nel mio animo il tradimento… colpii e uccisi…
– E perché hai accoltellato anche tua madre?
– A mia madre detti degli spintoni, non volevo ferirla di coltello, il ferimento fu occasionale…
Le indagini sono veloci e accertano che i maltrattamenti, incessanti, inferti a Maria, definita a voce unanime onesta, laboriosa, buona, sono veri. Ciccio invece viene descritto come taciturno, quasi un misantropo. L’11 aprile 1942 il Giudice Istruttore presso il Tribunale di Rossano, competente per territorio, rinvia Francesco Acri al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza, con le accuse di: uxoricidio, lesioni gravissime in danni della madre e tentato omicidio premeditato in danno di Vincenzo Madera. Il dibattimento si tiene il 12 agosto 1942 e la Corte, dopo avere ascoltato la conferma della confessione dell’imputato, salvo ritrattare ciò che aveva detto in relazione alla volontà omicida nei confronti del cognato Vincenzo Madera, e dei testimoni, mette un punto fermo: la causa va valutata soltanto sotto l’aspetto della imputabilità. Il fatto materiale della uccisione risale – è pacifico – all’imputato.
Si, durante il dibattimento sono emersi elementi nuovi che fanno seriamente dubitare la Corte delle effettive condizioni mentali di Ciccio di poche parole in disaccordo con il Pubblico Ministero e la Parte Civile, che sostengono l’esatto contrario. Per cercare di arrivare alla soluzione del caso, la Corte fa un lungo ragionamento: è pacifico che Acri Francesco era fortemente geloso della moglie. Questo stato passionale non bisogna considerarlo come isolato dalla personalità dell’imputato, né staccato dalle fasi evolutive che lo ingigantirono e lo trasformarono in una situazione superante la passione. Acri fu sempre taciturno, definito un misantropo, sfuggiva la compagnia. Così lo ha definito il Maresciallo dei Carabinieri, così lo rappresentarono tutti gli altri testimoni; tale lo definì il medico condotto del paese, il dottor Mirko Gaudio, che nel pubblico dibattimento affermò che questo mutismo e questo scostamento dalla compagnia fosse la caratteristica di tutti coloro che vivono isolati, come i pastori in montagna. È certo – quale che sia la spiegazione data dal sanitario di Mandatoriccio – che Acri era un taciturno, un misantropo. E tanto era accentuata questa nota del suo temperamento, che in paese era chiamato “Ciccio di poche parole”. Vi è di più. Il dottor Urso Filippo visitò Acri, che spesso ricorreva a lui, e constatò che egli si mostrava diffidente, preoccupato, in preda a scoraggiamento. Notò la confusione del suo ragionamento, pensò ad un disordine mentale, tanto che sospettò essere affetto da lue. Specificò in pubblico dibattimento che Acri accusava disturbi immaginari, non rispondenti ad alcun male in atto. Dal complesso di questa situazione, che egli ebbe modo di constatare, trasse il convincimento che Acri fosse un disordinato mentale, pur non avendo potuto constatare forme concrete di degenerazione psichica.
Esagerò, a dire il vero, il dottor Urso? Secondo la Parte Civile ed il Pubblico Ministero si, tanto che si spingono a sospettare che il testimone voglia favorire l’imputato. Ma per la Corte, a fugare ogni sospetto basta una semplice osservazione: il dottor Urso fu medico condotto di Mandatoriccio sino al 1937 e da allora non ebbe occasione di visitare Acri. Né parola di difensore poté influire sulla psiche di questo Sanitario. Acri non usufruì di opera difensionale nella fase istruttoria, quando vi fu solo la nomina formale del difensore e nient’altro. Il dottor Urso fu indicato dalla madre dell’imputato che, raccontando le vicende della vita del figlio, narrava la preoccupazione di lui sulla sua salute, le frequenti visite presso i sanitari e, fra gli altri, nominò il dottor Urso, che depose con sincerità, senza interessamento. Egli si crede.
Poi la Corte continua il suo ragionamento riassumendo il quadro psichico dell’imputato, raccontato dal dottor Urso: diffidenza, preoccupazione, scoraggiamento, confusione nel ragionamento. A queste manifestazioni fa riscontro la misantropia in individuo taciturno. In cospetto di questo quadro era esaminata la manifestazione crescente di gelosia, la quale dev’essere rapportata a quanto l’imputato raccontò nell’interrogatorio. È l’espressione della sua psiche perché Acri, lo si ripete, non ebbe sussidio di difesa. Se ne avesse avuto nel momento prossimo all’avvenimento, sarebbe affiorata nel pensiero del legale, che non conosceva la situazione psicologica del suo difeso, rivelata non da lui, ma dai testimoni di carico, la situazione fu sempre ricorrente in delitti passionali di diminuenti: provocazione, ragioni di particolare valore morale: si sarebbe ricamato sull’eventuale tradimento della moglie dell’imputato. Questi confessò il delitto senza accenni a provocazione, senza offuscare l’onorabilità della moglie. Non disse che questa lo tradisse, disse che pensava che lo tradisse. Fu sincero e raccontò la storia raccapricciante. E se l’interrogatorio è la manifestazione sincera di ciò che l’imputato percepì nella notte fatale del delitto, la gelosia non è più allo stato passionale. Essa fa vedere situazioni irreali, si trasforma in idea fissa, diventa allucinazione: lo sfregamento della vagina, il fetore, la persuasione che si trattasse di veleno collegata all’idea del delitto di cui si crede vittima designata.
Più il delitto è orrendo, maggiormente affiora, per le risultanze del processo, l’anormalità della psiche del soggetto, che colpisce e strazia il corpo della sua vittima, quasi che in ogni colpo l’assassino intravede la irrealità della situazione che ha armato la sua mano: la moglie adultera in funzione di carnefice per il raggiungimento di una situazione desiderata: unirsi all’amante senza l’incomodo marito, che vigila e disturba.
Ritiene la Corte che l’idea fissa del tradimento, quella – improvvisa – di essere soppresso per intrighi della moglie e del preteso amante, fu la manifestazione di una mente sconvolta, che determinò il delitto, onde pensa che possa ritenersi che per infermità psichica Acri ebbe grandemente scemata la capacità di intendere e di volere, per cui gli compete una diminuzione della pena sui delitti che egli ha commesso e non, come richiesto dalla difesa, la totale incapacità perché l’entità dell’ammessa psicopatia – traverso le manifestazioni che la rilevarono – non fu tale da far ritenere annullata la capacità di intendere e di volere.
Affermato che Francesco Acri non godeva pienamente delle sue facoltà di intendere e volere, la Corte adesso deve valutare se i delitti ascritti all’imputato sussistano o meno: di quali delitti dovrà rispondere l’imputato? Non è controverso che debba rispondere di omicidio in persona della moglie. Sostiene la difesa che debba rispondere di tentata lesione e non di tentato omicidio in danno di Madera Vincenzo, sia perché non è accertata la volontà omicida, sia per la inidoneità del mezzo usato, sia per la desistenza volontaria dall’azione. Le ragioni esposte non sono persuasive. Acri confessò che aveva intenzione di uccidere Madera. Né può sostenersi che la confessione di un semi infermo di mente non sia idonea a fissare tale volontà omicida. La semi infermità, che ha scemato la capacità di volere dell’imputato, si proietta soltanto sui delitti compiuti, in relazione ai quali, soltanto, agì l’idea fissa che lo invase. Le allucinazioni sconvolsero le facoltà mentali dell’imputato quand’egli agì in danno della moglie, di Madera ed anche della madre, onde la sua capacità di frenare gl’impulsi delittuosi fu grandemente scemata. E quindi, quando confessò, Acri era nel pieno delle sue facoltà mentali. Tutto questo senza scordare che non è vero che Ciccio di poche parole usò un mezzo inidoneo ad uccidere, come sostiene la difesa, perché un fucile non è inidoneo ma micidiale. E senza scordare che, dopo aver fatto cilecca con i primi due colpi, scaricò l’arma, la ricaricò e sparò di nuovo. E questo comportamento, fa notare la Corte, è tipico di chi non può non avere avuto altra intenzione che sopprimere la vittima designata.
C’è di più: l’omicidio ed il tentato omicidio sono legati dal medesimo disegno criminoso, saldati dalla medesima spinta, cementati dal medesimo assillo, la gelosia tramutatasi in idea fissa, che sconvolse la psiche dell’imputato. Vanno, perciò, considerati come un unico reato ai fini del giudizio.
Resta da esaminare l’ultimo reato, le lesioni alla madre da cui è derivata una limitazione funzionale alla mano ferita. La Corte ritiene che debba essere ritenuto responsabile per le dichiarazioni della madre stessa, che ha raccontato come Ciccio, invasato da furia omicida, reagì contro di lei reiteratamente e non come sostenuto da Ciccio che si trattò di uno spintone e poi di un colpo accidentale.
Chiarito che l’imputato è responsabile dei tre reati per i quali è a processo, tenuto conto del vizio parziale di mente riconosciutogli, per le modalità e l’entità dei fatti, la Corte ritiene di condannare Francesco Acri al massimo della pena consentita, anni 24 di reclusione, più mesi due di arresti per il porto abusivo di fucile, oltre alle spese, ai danni e pene accessorie.
È il 12 agosto 1942.
La Suprema Corte di Cassazione, il 17 marzo 1943, rigetta il ricorso dell’imputato.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.