È la sera del 12 giugno 1919 quando il militare Giuseppe Caravetta, dopo un lungo viaggio in tradotta ferroviaria, arriva a casa nella frazione Marri di San Benedetto Ullano per godere di una breve licenza. Casa è una parola grossa, si tratta in realtà di poco più di una baracca fatta, come quasi tutte le abitazioni di Marri, di frasche e fango. È stanchissimo e, dopo aver abbracciato e baciato i genitori e le sorelle, va subito a letto. Verso mezzanotte, però, il suono di una zampogna ed i canti di alcuni giovanotti lo svegliano. Bestemmia. Si alza e si affaccia dalla porta per invitare il gruppo di amici a smetterla e quelli si allontanano di qualche decina di metri, ma dopo pochi minuti tornano indietro e Giuseppe, spazientito, ripete l’invito. I giovanotti si allontanano di nuovo e di nuovo tornano indietro dopo pochi minuti. Adesso Giuseppe è davvero infuriato ed esce in mutande, seguito da sua madre che cerca di trattenerlo temendo una lite.
– Mò basta! Andatevene e non tornate più! – urla Giuseppe al gruppo.
– Io sono padrone di fare quanto e più mi piace e nemmeno ammazzandomi mi farai smettere! – gli risponde Domenico Novello in modo arrogante.
– Ah! È così? Allora vi dico che chi vuole vada a casa perché se Domenico vuole continuare, provvederò io… – ribatte Giuseppe e qualcuno del gruppo segue il consiglio andando via.
Domenico Novello, come previsto, non se ne dà per intesto e ne nasce un vivace battibecco, così che, da una parola all’altra, Giuseppe si avvicina all’avversario e gli molla due ceffoni in faccia. Domenico non reagisce e, con gli occhi pieni di rabbia e la voce che gli trema, dice:
– Stanotte non sono morto e non ti farò tornare a fare il soldato…
È una minaccia o sono le solite parole che si dicono tanto per dire? Fatto sta che Domenico gira i tacchi e se ne va per la sua strada, seguito dagli altri del gruppo che erano rimasti con lui. Giuseppe rientra in casa e cerca di riaddormentarsi, ma ormai il sonno è passato.
È domenica sera, tre giorni dopo gli schiaffi. Giuseppe Caravetta passeggia per la via di Marri col suo amico Francesco Calimà. Dopo un po’ vede, a qualche decina di metri davanti a lui, tutti i Novello schierati in mezzo alla strada. Lo stanno forse aspettando per vendicare l’onta degli schiaffi? Intanto sopraggiunge anche Antonio Caravetta, il padre di Giuseppe.
Pochi momenti dopo, due uomini, Raffaele Greco e Annunziato Capasso, svoltando da una curva della stessa strada, vedono nei pressi della baracca di Suriano, ad una ventina di metri da loro, il gruppo dei Novello, tra i quali riconoscono Benedetto, suo figlio Domenico e suo nipote Angelo, quest’ultimo con in mano un bastone, mentre discorrono con i Caravetta e Calimà.
All’improvviso scoppia una violenta rissa. Greco e Capasso accorrono per cercare di dividere i contendenti, che hanno cominciato a scambiarsi bastonate e lanci di pietre, senza riuscirci per timore di essere colpiti a loro volta. Ad un certo punto, Greco vede Angelo Novello piegare come se cadesse, anzi si abbatte a terra sul fianco destro. Subito gli è addosso Giuseppe Caravetta, che ha estratto un coltello e lo colpisce. Greco capisce che è meglio tenersi a distanza, ma non può fare a meno di notare che sul posto sopraggiungono la madre e le sorelle di Giuseppe che si lanciano nella lotta. Adesso lo sguardo di Greco torna verso il posto dove c’è stato l’accoltellamento e vede che Giuseppe Caravetta viene spinto a forza nella baracca di Suriano da alcune donne, mentre non vede più Angelo Novello. Non c’è più nemmeno Annunziato Capasso che, prudentemente, si è allontanato. Adesso Greco guarda in direzione della rissa e gli sembra di vedere un pugnale in mano di Antonio Caravetta, ma ciò che vede di sicuro sono la moglie e una delle due figlie con le teste rotte e sanguinanti. A questo punto Greco decide che è meglio allontanarsi.
Angelo Novello, dopo essere stato accoltellato al fianco destro, tutto stravolto, senza cappello, con le mani insanguinate, sta andando verso casa e incontra una vicina, Isabella Cupello, che cerca di fermarlo per aiutarlo, ma Angelo le fa segno di allontanarsi, dicendo:
– Lasciami stare, non mi fermare, mi hanno ammazzato… – poi entra in casa. Isabella lo segue e vede che Angelo prende il fucile e torna in strada. La donna cerca di nuovo di fermarlo prendendolo per un braccio, ma lui, svincolandosi, le dice – mi hanno ammazzato e non voglio morire solo, magari muoio per via, debbo andare…
Angelo si allontana arrancando e Isabella rimane di stucco. Forse non è passato nemmeno un minuto e due detonazioni la fanno sobbalzare. Rimane impietrita, poi vede Angelo che ritorna col fucile in mano ed il padre che lo raggiunge passando attraverso gli orti.
– Che hai fatto? – gli chiede il padre ed Angelo, sollevandosi la giacca, si limita a dire;
– Tata, mi hanno ammazzato…
Poi, sorretto dal padre, entra in casa.
Disteso a terra, davanti alla porta di casa dei Caravetta, c’è Antonio, morto ammazzato da una scarica di pallettoni in pieno petto, e intorno a lui la moglie e le figlie che urlano e piangono.
Viene avvisato il Sindaco di San Benedetto Ullano il quale scrive un biglietto da consegnare ai Carabinieri di Montalto Uffugo, competenti per territorio. L’uomo incaricato arriva in caserma verso mezzanotte. Il Maresciallo Maggiore Giuseppe Dinardo non perde tempo e con i suoi uomini parte per la frazione Marri, non prima di avere avvisato il Pretore. Arrivano sul posto verso l’1,30 e trovano il cadavere di Antonio Caravetta e la moglie e la figlia Carolina con la testa rotta:
– È stato Angelo Novello a sparare a mio marito – gli dice Emilia Cittadino, così il Maresciallo va a casa dei Novello e trova Angelo a letto, gravemente ferito, ma cosciente ed in grado di raccontare la sua versione dei fatti:
– Ieri sera ero tornato dalla campagna e sono andato in piazza per passare la serata. Colà ho trovato mio zio Benedetto Novello col figlio Domenico che questionavano con Giuseppe ed Antonio Caravetta. I miei parenti avevano la peggio. Non ostante ciò io sono accorso per mettere pace, ma Giuseppe Caravetta vedendomi estrasse un pugnale che ha portato dalla guerra e mi si è lanciato contro. Io sono scappato e lui mi inseguiva. Ad un certo punto della strada mi si è fatto avanti lo zio di Giuseppe, Vincenzo Cittadino, armato anche di pugnale, il quale mi intimò di fermarmi. Mi voltai per vedere dove fosse più facile scansare, ma sopraggiunse Antonio Caravetta, il quale lanciò contro di me una pietra, che mi colpì all’orecchio destro. Sono rimasto stordito e sono caduto. Fu allora che Giuseppe Caravetta mi si fece addosso e col pugnale mi ha colpito. Mi lasciarono. Io mi sono rialzato ed avendo capito che la ferita era grave, ho voluto vendicarmi. Sono corso a casa, mi sono armato di un fucile e sono tornato verso la casa dei Caravetta con l’intento di uccidere il mio feritore. Questi, però, era ricoverato in casa e sulla porta c’era il padre. Questi era stato quello che aveva cagionato la mia caduta con il colpo di pietra e contro di lui ho esploso due colpi, uccidendolo… c’era anche la moglie di Antonio armata di scure…
Quindi ci sarebbe un altro partecipante ai fatti, che gli occhi dei due testimoni oculari non hanno visto. Sta mentendo Angelo Novello o stanno mentendo i testimoni? E poi Emilia Cittadino era davvero armata di una scure e suo marito Antonio Caravetta, la vittima, aveva in mano un pugnale? Si accerterà, intanto bisogna sentire tutte le campane.
– Ieri sera mio figlio Giuseppe passeggiava con Francesco Calimà sulla via rotabile, quando ho visto salire verso la stessa i due cugini Domenico ed Angelo Novello – racconta Emilia Cittadino –. Quest’ultimo aveva un bastone e si misero a passeggiare seguendo mio figlio. Ho notato che Domenico Novello, passeggiando, teneva una mano in tasca. Mio figlio si fermò a parlare con Benedetto Novello, padre di Domenico, avanti la baracca abitata dalla famiglia Suriano. So che gli diceva il fatto di giovedì perché aveva intenzione di far pace. Intanto sopraggiunsero i due cugini, che si erano voltati, e aggredirono il figlio mio. Io corsi in difesa di questi e ho visto venire a me incontro Francesco Novello, padre di Angelo e la moglie, entrambi armati di bastone. Non supposi in loro cattive intenzioni essendo miei compari e mi rivolsi al Novello perché intervenisse onde scongiurare una disgrazia. In risposta ricevetti da questi due colpi di bastone sulla testa, per effetto dei quali caddi a terra. Mi rialzai quasi subito, ma non vidi mio figlio, che nel frattempo, senza che io me ne accorgessi, era stato fatto entrare in casa Suriano. Vidi invece i tre Novello e cioè Benedetto, Francesco e Domenico armati di coltello. Domenico e Francesco nell’altra mano tenevano ciascuno una rivoltella; vidi pure Angelo fuggire verso casa. Tornò poco dopo armato di fucile e nel tornare s’incontrò con mio marito, il quale si era armato di una grossa pietra per correre in aiuto del figlio con mia figlia Amalia. L’incontro avvenne avanti la baracca di Suriano. Fu là che Angelo esplose contro mio marito un primo colpo di fucile che andò a vuoto. Tanto mio marito che mia figlia fuggirono dirigendosi verso casa e mia figlia accompagnò il padre fino avanti la bettola di Gildo Petruzzi. Poi si voltò per cercare me. Intanto Angelo Novello, buttandosi nell’orto a tergo della baracca, tagliò la via a mio marito e quando questi era giunto avanti la porta di casa lo freddò con un altro colpo di fucile. Ciò fatto, Angelo risalì sulla strada nel momento in cui mia figlia Amalia passava accanto a Francesco Novello, il quale le vibrò un colpo di coltello, che invece attinse in un fianco il proprio figlio che in quello stesso istante si intromise fra i due. Io andai a casa e trovai mio marito morto. I Novello raccolsero Angelo sanguinante e lo portarono a casa…
Una versione diametralmente opposta che lascia qualche perplessità. Questa versione, comunque, è confermata dalle due figlie Carolina, della quale la madre si è scordata di parlare, e Amalia. Carolina racconta:
– Ero in casa per preparare da mangiare quando sopraggiunse Rosaria Suriano ad avvertirci di accorrere perché avevano aggredito nostro fratello. Tanto io che mia sorella Amalia accorremmo e un po’ dopo la baracca di Suriano incontrai Francesco Novello al quale, alzando le mani, rivolsi le parole “Francesco, lascia stare”. Lui in risposta mi diede due colpi di bastone, uno sulla testa ed uno al braccio, che mi fecero cadere. Non vidi mio fratello nemmeno quando mi rialzai ed io, intontita, giravo cercandolo. Ricevetti anche un colpo di pietra da Benedetto Novello, ma non mi fece gran male. Ho visto Angelo Novello fuggire dalla parte dell’orto e ho sentito due colpi, poi venne la mia sorellina Maria ad avvertirmi che avevano ucciso mio padre. Io corsi a casa e non so dare altri particolari che non vidi… da mia sorella ho saputo che mentre Francesco Novello le vibrava un colpo di coltello aveva ferito il figlio Angelo, che si trovava passando; mi ha raccontato anche che subito dopo questo fatto, la madre di Angelo ebbe la presenza di spirito di far segno al marito che tacesse…
E Amalia:
– Io sono accorsa alla lite in seguito ad avviso avutone da Rosaria Suriano e quando sono arrivata ho visto mio fratello, aggredito da tutti e quattro i Novello, che retrocedeva adagio adagio scansando i colpi. I Novello erano armati di coltello e di rivoltella. La rivoltella l’avevano Francesco e Domenico. Io, afferrato mio fratello l’ho spinto nella baracca Suriano. Quando stavamo per entrare nella baracca, Francesco Novello tirò contro di noi un colpo di rivoltella, che andò a vuoto. Chiuso mio fratello là dentro, tornai sulla via a cercare mia madre e mia sorella Carolina. Nel frattempo Angelo era andato ad armarsi di fucile e, mentre mi avvicinavo al gruppo dei rissanti, fui fatta segno da Arcangelo, che si trovava nell’orto sottostante, ad un colpo di fucile, che andò a vuoto. Sentii un secondo colpo, ma non vidi nemmeno a chi era diretto, come non vidi per niente mio padre sul luogo della lite. Sempre per proteggere mia madre e mia sorella rimasi sul posto e ad un certo momento Francesco Novello mi vibrò una coltellata, se non che, proprio in quell’istante, s’intromise tra me e lui suo figlio Angelo, che rimase ferito in vece mia. Notai la sorpresa dolorosa sul volto di Francesco, ma vidi contemporaneamente la moglie fargli segno di tacere. Nella confusione ho sentito qualcuno che diceva: “giacché hanno chiuso il figlio, ammazziamo chi ci capita”. Non posso, però, con coscienza attribuire queste parole ad alcuno. Noi tutti ci siamo limitati a difenderci…
Anche Giuseppe Carravetta è chiamato a dare la sua versione dei fatti, sotto l’imputazione di lesioni gravi, perché Angelo Novello è stato portato d’urgenza in ospedale con un’ansa intestinale fuoriuscita dalla ferita ed è in pericolo di vita:
– Sono innocente. Fui allontanato dalla quistione nel primo momento e ricoverato nella baracca di Caterina Suriano. Passeggiavo con Francesco Calimà quando vidi tutti i Novello armati di bastone ed erano anche armati perché armi ne estrassero in un secondo momento. Siccome ero prevenuto dalle parole di Calimà, cercai scansarli e ci sono riuscito un paio di volte, poi, vedendo che mi si avvicinavano a poco a poco, decisi di andare a casa e feci per imboccare il viottolo che, dai pressi della baracca Suriano, girando a tergo di questa e dell’orto retrostante, vi conduce. Non ebbi il tempo, però, di farlo perché mi si pararono di fronte Domenico Novello ed il padre Benedetto. Decisi allora in un istante di parlare con loro in modo amichevole e chiedere scusa per gli schiaffi e così feci. Benedetto mi rispose che non avevo alcun diritto d’impedire al figlio di cantare e che nessuno glielo aveva mai impedito e, mentre stavo per rispondere, Domenico mi diede un calcio, che fu l’atto iniziale della lite. Mi furono tutti addosso ed io cercavo di difendermi retrocedendo. Ad un tratto intervennero nella quistione mia sorella Amalia e Carmela Sbusciò, le quali mi afferrarono e mi spinsero nella baracca Suriano. Là mi chiusero e non presenziai affatto al resto della quistione…
Francesco Novello è quello più pesantemente chiamato in causa dai Caravetta e deve difendersi dalle accuse:
– Stavo avanti la porta di casa mia a discorrere con una vicina, quando intesi del chiasso sulla strada ed accorsi per vedere cosa succedesse. Lungo la via raccolsi un pezzo di ontano. Arrivato sulla strada vidi mio fratello Benedetto e mio nipote Domenico alle prese con tutti i Caravetta. Si lanciavano sassi da una parte e dall’altra. Mi feci in mezzo chiedendo cosa fosse stato ed invitando alla calma. Ricevetti una pietra sulla testa, un’altra mia moglie ed un’altra mio fratello sul petto. Emilia Cittadino mi gridò “Ohi compare, mi raccomando!”. Non so perché mi voltai e ricevetti dalla stessa un colpo di bastone sulla spalla. Fu allora che col pezzo di ontano diedi due colpi, uno alla madre ed uno alla figlia Carolina. Sul luogo della rissa non vidi né mio figlio Angelo, né Giuseppe Caravetta. C’era Calimà che lanciava pietre. Immediatamente dopo udii due colpi di fucile, ma non vidi né chi li esplose, né contro chi furono esplosi…
Francesco Calimà si trova invischiato in questa brutta storia e, senza che nessuno oltre Francesco Novello gli attribuisca azioni particolari, viene arrestato come tutti gli altri:
– Io sono completamente innocente. Non ho preso parte alla lite, anzi sono intervenuto per mettere pace – poi conferma le scuse porte da Giuseppe Carravetta e la successiva aggressione. Aggiunge – mentre cercavo di dividerli, nella confusione non ho più visto Angelo Novello e Giuseppe Caravetta. Ho visto però che era arrivato il padre di questi il quale, dopo aver ricevuto un colpo di pietra, ritornava verso casa…
È un maledetto imbroglio e si rimane fermi alla ricostruzione fatta da Raffaele Greco e Isabella Cupello, ricostruzione che viene sostanzialmente accettata dai Carabinieri e dalla Procura, che precisa: questi i fatti nella loro schietta, logica semplicità, quali vennero appresi e riferiti dai testi presenti; le parti tentano naturalmente a storcerli in proprio favore, ma le loro affermazioni, in quanto si allontanano dalla linea logica tracciata, non trovano conforto in alcuna testimonianza.
Con queste premesse, il 2 febbraio 1920 la Sezione d’Accusa ordina il rinvio al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza tutti gli indagati: Angelo Novello, Giuseppe Caravetta, Francesco Calimà e Francesco Novello.
Il 19 gennaio 1921 si apre il dibattimento e, dopo due inutili udienze, la Corte emette il verdetto: tutti assolti, meno Giuseppe Caravetta, che viene condannato a 2 mesi e 15 giorni di reclusione per porto abusivo di pugnale. Le motivazioni, secondo la giuria sono: per Angelo Novello in quanto nel momento in cui uccise Antonio Caravetta si trovava in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti; per Giuseppe Caravetta in quanto non commise il fatto volontariamente e senza volontà di uccidere; Francesco Calimà per non aver commesso il fatto; stessa motivazione per Francesco Novello.
È il 21 gennaio 1921 e abbiamo giocato per un anno e mezzo.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.