Nel 1910, dopo appena tre mesi di matrimonio, Domenico Andreoli di Cetraro lascia la moglie incinta, la diciottenne Angelica Candido, ed emigra a Buenos Aires dove c’è già suo fratello Luigi Francesco e ci rimane una ventina di anni. In questo frattempo Luigi Francesco, ancora celibe, ha messo da parte abbastanza da poter pagare alcuni debiti di famiglia e torna a Cetraro, restando povero in canna. Per ricompensarlo, la madre gli cede un fondicciuolo, ma Luigi Francesco non vuole profittarne, dividendone i frutti con Domenico.
Questa è la situazione di perfetta armonia che regna nella famiglia Andreoli. Ma facciamo un passo indietro. Abbiamo visto che alla partenza di Domenico sua moglie era incinta e partorì il 21 settembre 1910 dando alla luce una bambina che, sfortunatamente, morì dopo otto anni, durante i quali Angelica, pur mancando l’assistenza del marito, si mantenne onestissima.
Perché abbiamo raccontato questi particolari? Perché Angelica, morta la bambina, contrasse relazioni incestuose con il cognato Luigi Francesco il quale, tornato dall’America, pur essendosi creata una sua propria famiglia legittima, si incapricciò di lei e dalla loro unione nacque un bambino che, denunziato come figlio di genitori ignoti, Angelica tenne presso di sé.
A Buenos Aires Domenico venne subito informato, ma non la prese male. L’unica sua preoccupazione fu quanto sarebbe venuto a costare il mantenimento dell’intruso, tanto vero che, quando decise di rimpatriare, il che avviene quando il bambino ha raggiuto l’età di due anni e mezzo, non sente alcuno sdegno per la fedifraga moglie e, anzi, le dice:
– Ti perdono, a condizione che scacci il bastardo…
Angelica accetta ed il giorno dopo, affidato il bambino ad una coppia senza figli – che è felice di accoglierlo – torna a vivere con Domenico in pieno accordo, come se nulla avesse a rimproverarla. Non solo: riallaccia i rapporti col fratello in modo così intimo che tra le due famiglie ci sarà, per anni, un continuo scambio di visite.
E questa è la dimostrazione che nel tradimento della moglie niente altro scorge che un materiale contrasto di interessi che costituirebbe l’allevamento dell’intruso, pretendendone il correttivo, non già l’onta al suo onore, talché il di lui fratello di latte, il quale dell’onore deve avere un ben diverso concetto, così dice:
– Domenico, secondo me, non doveva ritornare dall’America dove avea saputo la tresca di sua moglie. Ritornato volontariamente si è coricato fra le corna, visto che dalla moglie, che strinse intimi rapporti con Luigi Francesco, ha preteso soltanto il collocamento del bambino presso altra persona…
E visto che la sola corda sensibile e vibrante del suo organismo è quella dell’interesse, solo per un sordido interesse rompe le relazioni col fratello per cui, dagli iniziali dispetti passa alle contese giudiziarie quando Luigi Francesco pretende che contribuisca agli obblighi fiscali gravanti su d’un fondicciuolo comune, dei quali non è stato mai rimborsato. Anzi Luigi Francesco, essendo l’intestatario delle bollette, per ben due volte, non avendo potuto pagare, ha subito il pignoramento di un asino e di un maiale quale debitore moroso.
La inaspettata richiesta di contribuzione indispettisce Domenico a tal segno che, per fargli cosa ingrata, concede gratuitamente il diritto di abitazione di un vano attiguo alla sua casa a tale Concetta Cosentino la quale, essendo stata la ganza di Benedetto Caruso che avea avanzato richiesta di matrimonio per una figlia di Luigi Francesco, è spietata nemica non solo di Caruso, ma anche della sua promessa sposa e famiglia. L’ospitalità concessa a quella donna, che per la sua perdizione è stata ripudiata perfino dai genitori, sembra a tutti così straordinaria ed imprudente da sollevare la unanime censura. Anzi, una vicina di casa di Domenico non sa trattenersi e lo rimprovera aspramente:
– Compare Domenico, sarebbe stato bene che non ti fossi immischiato in questa faccenda, che tu non avessi accolto la donna nemica della famiglia di Luigi e del fidanzato di tua nipote!
Niente. La situazione sta sfuggendo di mano a tutti e una mattina del mese di novembre del 1937, Luigi Francesco, stanco dei rifiuti di suo fratello gli urla:
– Ma la fondiaria la vuoi pagare o non la vuoi pagare?
Domenico, per tutta risposta lo denuncia per ingiurie e minacce, citando come testimone proprio la famosa Concetta Cosentino, alla cui testimonianza, però, il Pretore non da alcun credito. In attesa della definizione della causa, per cercare di convincere Domenico a rimettere la querela e far ritornare la pace, interviene il proprietario Nicola Del Trono, alle cui dipendenze il padre dei due fratelli aveva lavorato per una quindicina di anni. Domenico sulle prime si dice disposto a tornare sui suoi passi a patto che Luigi Francesco paghi le spese, ma il giorno dopo, facendo vibrare meglio la solita corda dell’interesse, accampa la pretesa che rimetterà la querela soltanto se suo fratello oltre alle spese, a cui è pronto, gli paghi anche 300 lire di cui afferma di essere creditore per avergliele prestate sua moglie quando era in America.
Tale pretesa, evidentemente infondata, costituisce una ingorda speculazione, non avendo mai fatto la sua adultera moglie all’amante-cognato alcun prestito, come assicurano molti testimoni. La convinzione di tutti è che la richiesta delle 300 lire sia solo un pretesto per avere una giustificazione verso Del Trono del diniego di rimettere la querela per il caso che il fratello, notoriamente povero, non possa pagargli la somma.
Il risultato, ovviamente, è che la querela non viene rimessa ed il giudizio ha luogo. Ma il Pretore di Cetraro, il 31 dicembre 1937, assolve Luigi Francesco per insufficienza di prove, motivando che tra le affermazioni del querelante e dell’amica Cosentino – l’uno e l’altra nemici del querelato e famiglia – e le negative dei testimoni che riferiscono di non aver udito Luigi Francesco proferire alcuna parola di minaccia e di ingiuria, deve dare maggior credito ai testimoni. Non solo: Domenico viene condannato alle spese e la prende male, malissimo.
Uscito dalla Pretura seguito dalla moglie, dal figlio, dal suocero e da Concetta Cosentino, si reca nella cantina di Giuseppe Oleastro, dove bevono un bicchiere di vino e mangiano qualcosa, attardandosi fino alle ore 15,00 circa, dopo di che tutti insieme prendono la via del ritorno per un primo tratto di via, precisamente fino alla contrada Castelluzzo, distante da Cetraro appena dieci minuti di cammino, dove lasciano il suocero che abita lì. Poi proseguono fino ad Acquicella, distante da Castelluzzo circa tre quarti d’ora di cammino.
Strada facendo Domenico medita vendetta e borbotta continuamente:
– Ho perduto la causa, ma mi ci voglio consolare…
Sua moglie, che lo conosce bene e ha capito il senso di queste parole, cerca di calmarlo dicendogli:
– Non ti abbandonare, le spese si possono pagare…
Ma invece di calmarsi, Domenico, appena arrivato a casa, si arma di scure e si prepara ad andare incontro a suo fratello il quale, a sua volta, uscito dalla Pretura è andato nella cantina di Rosaria Tundis con alcuni amici per consumare due litri di vino regalatigli da Nicola Del Trono per festeggiare l’assoluzione, fermandosi fino alle 16,00, cioè un’ora dopo che Domenico è partito da Cetraro per tornare a casa.
Quando esce di casa, Domenico sa perfettamente che suo fratello non è ancora arrivato ed è sicuro che ritornando sui suoi passi lo incontrerà lungo la strada, per cui sua moglie, leggendogli negli occhi le brutte intenzioni, cerca di impedirgli di uscire, ma lui se ne libera facilmente dandole due schiaffi.
A questo punto è opportuno spiegare che l’unica via che collega la contrada di Acquicella con Cetraro è una mulattiera, che nei pressi di Acquicella si biforca: un ramo scende su un burrone denominato “Gafaro la Monica” nel quale scorre un fiumiciattolo, l’altro ramo porta al ciglio del burrone. Ed è nei pressi del passaggio obbligato del “Gafaro la Monica” che Domenico si apposta in attesa del fratello, prevedendo che sarebbe passato da solo in quanto gli amici avrebbero preso il ramo che porta al ciglio del burrone.
– Aiuto, aiuto!
È l’unica cosa che viene udita dagli amici e da alcuni contadini che abitano nelle vicinanze, prima che la scure di Domenico si abbatta sulla fronte di Luigi Francesco, che cade e ruzzola là dove scorre il fiume. Qui Domenico lo raggiunge e, mentre è ricurvo verso terra con la testa in giù, gli vibra un secondo colpo di scure alla nuca che fracassa il tavolato osseo e, penetrando nel cervelletto, la morte immediata. Una vera e propria esecuzione.
Gli amici ed i contadini vicini, pensando che si sia trattato di una disgrazia accorrono sul posto e si imbattono in Domenico. Si accorgono che ha una mano insanguinata, gli chiedono cosa sia accaduto e lui, freddamente, risponde:
– Quello che ha fatto male a casa mia, l’ho fatto! Oggi si è fatta la causa ed a me legge non me ne hanno fatto, allegrezza, allegrezza per la casa mia!
Arriva anche sua moglie, invano accorsa per impedire il delitto, alla quale con altrettanta freddezza dice:
– Andatevene, mangiate e bevete ché io l’ho fatto!
E non basta ancora. Sul luogo del delitto arriva anche il figlio di Luigi Francesco, al quale è sembrato di avere sentito suo padre chiedere aiuto, e suo zio Domenico gli dice:
– L’ho fatto!
– Che hai fatto? – gli chiede il nipote che ancora non immagina la tragedia.
– Quello che voleva male a casa mia, quello che si è bevuto il sangue mio!
Satana non sarebbe stato tanto crudele con il figlio della vittima! E di Satana deve avere lo sguardo ed il cipiglio, tanto che il povero orfano, preso da terrore, scappa.
Poi Domenico scende in paese e si costituisce dai Carabinieri:
– Questa sera, mentre mi recavo a casa di mio suocero mi incontrai con mio fratello, il quale mi fermò dicendomi: “hai visto che la causa l’ho vinta, mò che vuoi fare?” e io risposi: “ed ora che cosa vuoi da me?” e così dicendo ci afferrammo e poiché io portavo la scure ed egli tentava strapparmela, producendomi dei tagli alla mano, io con la scure stessa l’ho colpito diverse volte dopo essere finiti nel burrone – mente per cercare di diminuire le sue responsabilità e fa leva sul piccolo taglio che ha sul palmo della mano destra.
Ma è una bugia che dura poco, il tempo che i Carabinieri impiegano a fare un sopralluogo per trovare il cadavere, che cercano per tutta la notte senza riuscirvi. Poi, sul far del giorno, lo trovano immerso nell’acqua e quasi nascosto in una buca, un posto che dà subito l’impressione che il cadavere vi sia stato trasportato per un inutile tentativo di farne sparire le tracce. Ed il sospetto diventa subito certezza quando, poco dopo, sua moglie lo smentisce.
Ma Domenico insiste nella versione della legittima difesa ed in un nuovo interrogatorio aggiusta leggermente il tiro:
– Tornato a casa dalla Pretura, pensando che per la mia pace fosse meglio abbandonare la contrada Acquicella, volli andare da mio suocero per pregarlo di concedermi una sua abitazione nella stessa contrada dove lui abita ed a tal fine, armatomi di scure, mi avviai e per evitare di incontrarmi con mio fratello non mi incamminai sulla mulattiera, ma presi per i campi che la fiancheggiano…
– Non c’è un’altra strada che potevate fare o che vostro fratello avrebbe potuto prendere? – lo stuzzica il Giudice Istruttore, ben sapendo che la mulattiera è l’unica strada possibile.
– No, tanto io che andavo verso Cetraro, quanto mio fratello che tornava da Cetraro dovevamo necessariamente attraversare il “Gafaro la Monica”…
– E quindi passare per i campi era perfettamente inutile… bene, bene. Il vostro problema è che, pensando a qualcosa del genere, è stato ordinato alla Guardia Municipale Corbelli di fare il percorso passando per i campi ed è risultato che non avevate necessità, per accedere a casa di vostro suocero, di passare dal gafaro, ma bastava continuare a camminare sempre per i campi, col vantaggio per giunta di andar direttamente e far meno cammino! – lo inchioda il Magistrato.
– Si… ma ci siamo incontrati per caso – si affretta a precisare, ma la frittata è fatta – e poi lui mi disse le parole che ho già riferito nell’altro interrogatorio, allora io, sapendolo malvagio perché si era appropriato del mio denaro, mi aveva sedotto la moglie e tentava nuovamente di riallacciare le relazioni, credetti opportuno togliermi la scure dalla cintola e passarla sul braccio ed in quell’istante mio fratello mi si caricò addosso per togliermi l’accetta. Io tenni ferma l’arma e mentre egli cercava di strapparmela rimasi ferito alla mano destra; l’arma rimase a me e poscia, trovatomi viso a viso gli detti un colpo al capo, dopo di che, afferratici, andammo a finire nel sottostante gafaro, ove mio fratello si piegò col corpo verso terra ed allora io gli diedi il secondo colpo alla nuca… e gliel’ho detto anche alle persone con le quali mi imbattei dopo di aver ucciso ché altrimenti sarei stato ucciso…
– Quindi ammettete di avergli dato un colpo di scure mentre era piegato a terra e vi dava le spalle. Avete appena confessato di averlo volontariamente ucciso…
– No, se avessi voluto ucciderlo, lo avrei ucciso prima, al contrario lo avevo perdonato…
– Vedremo, però adesso dovete spiegare cosa volevate dire con la frase Ho perduto la causa, ma mi ci voglio consolare, che dopo il fratricidio sembra un proclama di vendetta.
– No! Intesi dire non già di volermi vendicare, ma di essere rassegnato a pagar le spese, anche vendendo un fondo…
È una versione dei fatti che non regge, un tessuto di menzogne, a volte puerili, dirette al fine di umanizzare il delitto, scrive il Giudice Istruttore nel rinviarlo al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio premeditato e porto di scure senza giustificato motivo.
Il dibattimento si svolge nelle udienze del 12, 14 e 15 novembre 1938 e la Corte dice subito che non crede di dover spendere molte parole per affermare che il prevenuto, decisamente, volle consumare il fratricidio. Se così non fosse, non si spiegherebbe perché egli, appena entrato in casa si armò di scure e tornò ad uscire, rifacendo la via già fatta nella quale si sarebbe dovuto immancabilmente incontrare con il fratello. La circostanza stessa ch’egli, pur non avendo alcun impellente motivo di uscire e pur dovendo essere stanco del viaggio già fatto e dalle contrarietà dell’esito della causa, sentì così prepotente il bisogno di uscire da non rifuggire dall’usar violenza alla moglie, che voleva fermarlo in casa. Poi ci sono la frase enigmatica ed oscura, l’attesa della vittima nel passaggio obbligato, la fulminea e quasi proditoria aggressione per cui la vittima non ebbe altro tempo che quello di invocare due volte aiuto e, finalmente, il secondo colpo di scure vibrato alle spalle mentre il fratello era riverso a terra.
Quindi Domenico Andreoli ha volontariamente ucciso suo fratello Luigi Francesco, ma non lo ha fatto con premeditazione perché, spiega la Corte, non concorrono nel fatto commesso tutti gli elementi che potrebbero costituirla.
Domenico Andreoli, esasperato che dovesse pagare, oltre alla fondiaria, anche le spese del giudizio penale volle, in un rigurgito di bestiale collera, farla finita ed a tal fine non trascurò di armarsi, di far violenza alla moglie per uscire, di tendere l’agguato e di fare in modo di non farsi vedere da alcuno nell’atto che andava a nascondersi nel gafaro, così la Corte delinea il movente e le azioni preparatorie. Poi passa a determinare la pena da infliggere: anni 24 di reclusione e giorni 10 di arresti, oltre alle spese, i danni e le pene accessorie.[1]
È il 15 novembre 1938 e mancano due giorni all’approvazione della vergogna delle leggi razziali .
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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.